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archivio > Biografie>Vittorio Faggioni (1918 - 2005), note biografiche e scritto.

aggiornato al: 02/02/2009

Vittorio Faggioni (1918 - 2005)

In questa sezione dedicata alle "biografie", lasciata abbastanza sguarnita fino ad oggi ma che ci proponiamo di rendere più corposa, abbiamo parlato, dopo un dovuto ricordo a Liliana Grilli morta nel 2007, di compagni della sinistra (Luigi Repossi, Virgilio Verdaro, Ottorino Perrone, Antonio Natangelo) presenti ed attivi fin dalla nascita del Partito Comunista d'Italia. Oggi dedichiamo un po' di spazio a uno dei compagni il cui impegno e la cui attività fu all'origine della nascita del partito Comunista Internazionalista all' interno della seconda guerra mondiale. Le generazioni si susseguono, le situazioni e i momenti storici cambiano come cambiano i compagni che però trovano nella comune adesione al filo rosso del comunismo che unisce passato presente e futuro, il segno di una vita di lotta per il comunismo.

 

Vittorio Faggioni (1918 - 2005)

 

Vittorio Faggioni nasce l'11 novembre 1918 a Carrara dove rimane fino alla fine del liceo per poi trasferirsi a Pisa. A 18 anni, ancora a Carrara, con un caro amico Antonio Bernieri entra in contatto con un personaggio di poco più anziano di loro, Ruggero Zangrandi la cui conoscenza apre a questi giovani la possibilità di scrivere su "Il Mattino" di Livorno e di sviluppare posizioni politiche di rottura con il fascismo. Vittorio Faggioni aderisce quindi rapidamente al Partito Socialista Rivoluzionario fondato nel 1939 da Zangrandi nel quale costituisce, con il suo amico Bernieri, la corrente detta «sinistrissima». (Le sue vicende nel P.S.R. sono accennate, per sommi capi, nel lavoro biografico su Zangrandi di Aldo Grandi, Fuori dal coro, Milano, Baldini&Castoldi, 1998).

Decide, mentre è ancora studente universitario, di fare il servizio militare ed è inviato prima a Torino e poi a Milano dove entra in contatto con Bianca Ceva (sorella di Umberto Ceva, militante di Giustizia e Libertà, suicidatosi in carcere nel 1930), Ugo La Malfa e, tramite un amico di questi, con Bruno Maffi. Entra così, attorno al 1941, nel mondo degli internazionalisti. Bruno Maffi lo mette in contatto con Onorato Damen (Damen era al confino a Cantù e Faggioni svolgeva il servizio militare in un distaccamento di Cantù).

Vittorio Faggioni viene arrestato nella primavera del 1943 a seguito del suo precedente legame con Zangrandi e il P.S.R. (che viene smantellato con l'arresto dello stesso Zangrandi, inviato in campo di concentramento in Germania, e di numerosi altri affiliati). All'epoca del suo arresto non viene riconosciuta la sua frequentazione e conoscenza di Damen e Maffi con i quali, una volta rilasciato dopo il 25 luglio, riprende i contatti. Dopo l'8 settembre sceglie di andare al Sud; a fine anno, dopo un passaggio a Roma dove incontra Amadeo Bordiga (di cui gli avevano ampiamente parlato Damen e Maffi) giunge a Napoli dove prende contatto con i militanti della Frazione  di sinistra dei comunisti e socialisti italiani e con loro contribuisce alla  pubblicazione di Il Proletario. Conosce quindi: Enrico Russo. Libero Villone, Renato Matteo Pistone, Eduoardo Magnelli, Ludovico Tarsia ed altri. Con loro partecipa all'attività della Frazione. «Allora mi chiamavo Montone» preciserà in una lettera a Ippolito Ceriello nel 1946 riferendosi al periodo della sua permanenza a Napoli.

Dopo lo scioglimento, nell'estate del 1945, della Frazione e l'adesione dei suoi militanti al Partito Comunista Internazionalista, Faggioni ritorna a Milano e viene incaricato di occuparsi dell'uscita della rivista del partito Prometeo.

Prometeo uscirà, dopo varie traversie, nel luglio del 1946 ed il primo numero inizia con il «Tracciato di impostazione» che venne dettato da Bordiga a Faggioni alla sua prima andata a Milano (fine aprile - primi di maggio del 1946). Anche Vittorio Faggioni scrive per Prometeo e qui riportiamo dopo queste brevi note biografiche il suo editoriale al secondo numero.

Vittorio Faggioni partecipa attivamente alla vita e all'attività del partito. E' presente al Convegno di Torino di fine dicembre 1945 e al Congresso di Firenze del 1948.

Quando si manifestano le prime divergenze nell'organizzazione (che sfoceranno poi nella divisione tra "battaglia comunista" e "programma comunista") si pone decisamente con Bruno Maffi al fianco di Bordiga. Nel 1951 e fino alla consumazione della scissione fa parte con Bruno Maffi e Giulio Benelli del Comitato Esecutivo del Partito che ratificherà nell'ottobre l'espulsione dalle sue file di Onorato Damen, Luciano Stefanini, Aldo Lecci e Giovanni Bottaioli.

Il sodalizio con Maffi continua nella ripresa organizzativa, difficile ed ardua a Milano. Negli anni '60 anche per le scissioni che si vivono a Milano (1962, 1964) dirada la sua presenza nella sezione pur mantenendo uno stretto legame con i compagni e la presenza nei momenti importanti come la commemorazione di Amadeo Bordiga che viene tenuta nella sede del partito, in via Binda, nella riunione generale dei primi di settembre del 1970.

Si dedica quindi al suo lavoro di avvocato che lo porterà ad avere un notevole successo  professionale. (Nel dicembre del 1997 viene premiato, con altri, da Francesco Saverio Borrelli, per i cinquant'anni di professione).

La sua attività professionale è anche al servizio dei compagni: nel dicembre 1969 difende a Firenze Bruno Maffi accusato del reato di istigazione all'odio fra le classi per un articolo apparso nel n. 10 dell'aprile 1969 di Il Sindacato Rosso, di cui Maffi è direttore responsabile.  Maffi sarà condannato a 6 mesi con la condizionale.

E' di nuovo disponibile ad aiutare con la sua consulenza Liliana Grilli e Bruno Maffi nella costituzione, alla fine degli anni novanta del secolo scorso della Fondazione Amadeo Bordiga.

Sopravvive di quasi due anni a Bruno Maffi con cui aveva condiviso una comune milizia comunista e si spegne, dopo una vita intensa e lunga nell'agosto del 2005.

s.

 

 

Della pace

 

Le invocazioni alla «pace giusta» e parallelamente gli isterici gridi di sdegno per l' «ingiustizia» del trattamento riservato all'Italia dalle decisioni dei quattro ministri degli esteri, che naturalmente verranno ratificate dalla attuale Conferenza di Parigi raggiungono in questo giorni i toni più intensi.

Tutti affasciati in un sacro fuoco di ardore patrio i nostri partiti, borghesi e «proletari», minacciano la severità del giudizio della Storia o di Dio a chi non terrà conto dei sacrifici compiuti dall'Italia nella guerra a fianco degli Alleati e dei meriti antifascisti della classe politica che ora dirige il nostro paese.

Noi non vogliamo qui dimostrare che le condizioni di pace sono esclusivamente espressione di determinati rapporti di forza nel gioco delle rivalità tra le varie potenze: questo è ormai chiaro a tutti, anche se a tutti non è affatto chiaro che a questi rapporti la necessarietà storica non consente di sfuggire e che il comportamento dei dirigenti politici delle nazioni vincitrici è imposto nella forma in cui si rivela dal fatto stesso che essi sono i «dirigenti» e che in tanto si può dirigere una nazione in quanto se ne sappiano e possano rappresentare gli interessi predominanti.

Pensare che essi si potrebbero comportare diversamente è un'astrazione, a meno di non pensare che, se le condizioni di cui essi sono l'espressione fossero diverse, anch'essi agirebbero diversamente: il che evidentemente è piuttosto ozioso...

Ciò che a noi preme di mettere in evidenza è che il gran clamore che la nostra classe politica dirigente, in coro con tutta la borghesia italiana, solleva oggi contro l' «ingiustizia» dei vincitori, fa parte del sistema di cui essa costantemente ha fatto uso nella sua necessità di predominare sulla classe avversa avvalendosi del suo stesso appoggio.

Per mantenere questo predominio essa si orienta su due direttrici: quella di fare l'impossibile per ottenere dai vincitori qualche piccola briciola che le permetta di vivere ancora sulla sfruttamento del proletariato e non divenire essa stessa proletariato sfruttato da una borghesia vincitrice, e quella di porre davanti ai proletari italiani la conquista di queste briciole come una meta comune di fronte alla quale il dovere della unione sacra più che mai si impone. Attraverso questa seconda azione, che è l'unica importante - la prima avendo effetti solo nei confronti della seconda, dal momento che i vincitori non si «persuaderanno» mai a concedere più di quanto sia stabilito nei loro piani, i quali d'altronde già prevedono la concessione delle briciole proprio perché si ritiene indispensabile di avere ovunque una borghesia avida e aguzzina, - la classe borghese dirigente riesce a deviare il proletariato dalle sue mete e ad aggiogarlo al suo carro propinandogli tutto l'armamentario di «patria», «giustizia», «democrazia», «pace», «lavoro per tutti», «solidarietà nazionale» ecc., ecc., che già servì a farlo combattere in guerra e ora deve servire per fargli sopportare lo sfruttamento di questa spodestata e inviperita borghesia nostrana.

I partiti «proletari» di oggi, questo fetido prodotto delle penetrazione opportunistica borghese nelle file del proletariato, sono lo strumento più efficace e più ripugnante di questa azione.

Ogni tappa della riaffermazione borghese è da loro stessi presentata al proletariato come una luminosa meta da raggiungere nella via del socialismo: e le «tappe» devono susseguirsi continuamente se si vuole che la delusione che consegue al raggiungimento di ognuna di esse non abbia a «degenerare» pericolosamente. Dopo la lotta antifascista, dopo quella per la democrazia, per la costituente, per la repubblica oggi abbiamo quella per la pace.

E il proletariato, che ha pagato finora col suo sangue e con la sua miseria sempre crescente, pagherà anche questa volta; pagherà in qualunque caso: pagherà le riparazioni ai vincitori, farà fruttare le briciole concesse  da questi ai suoi sfruttatori. Noi diciamo ai proletari: siate contro la conferenza della pace, siate contro coloro che gridano perché essa è «ingiusta».

L'ingiustizia è in tutto il sistema, è identica nello sfruttamento delle borghesie sconfitte come in quello delle vincitrici; la differenza è solo nella misura delle loro ricchezze che comunque derivano dal lavoro e dalla fame dei proletari: soltanto questo per noi ha un significato; soltanto per il rovesciamento di questo sistema noi dobbiamo lottare.

 

Prometeo, n. 2, agosto 1946