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archivio > Biografie>Antonio Natangelo, un militante esemplare (il programma comunista, n.4, 1959)

aggiornato al: 22/05/2008

27 febbtraio-10 marzo 1959

Antonio Natangelo che qui vogliamo ricordare fa parte di quegli uomini di un'altra razza e di un'altro tempo prodotti e temprati dal fuoco della lotta, uomini che iniziarono la loro battaglia comunista ne «Il Soviet» con la Frazione astensionista del PSI,  furono poi con il Partito Comunista d'Italia delle origini e, dopo la seconda guerra mondiale con il Partito Comunista Internazionalista e  la sinistra comunista  fino alla fine.

Di lui nel sito si trova già traccia: in una lettera di Amadeo Bordiga (a Michele Fatica) del 1969 dove viene definito "nostro ottimo compagno" e in una sua lettera che ricordava la morte di Ottorino Perrone e la loro comune battaglia nel Comitato sindacale milanese nel 1926.

Natangelo era un operaio napoletano. Fu a Torino durante la prima guerra mondiale, disertore sotto il falso nome di Antonio Belfiore, rifiutando di partecipare al massacro mondiale; ritornò quindi a Napoli riprendendo il suo posto in fabbrica. Un suo articolo "Ciò che pensa un operaio" trovò posto in "Il Soviet" (24 aprile 1921). Partecipò poi al IV Congresso dell'Internazionale Comunista e conobbe Lenin.

 Nel 1924 era a Milano, operaio all'Alfa Romeo. Licenziato lavorò qualche mese nella redazione de  «L'Unità». Rispedito con il foglio di via a Napoli ritornò nel 1926 nella città lombarda dove fu al fianco di Ottorino Perrone nel Comitato sindacale Milanese.

Mantenne le posizioni della sinistra comunista nel periodo peggiore dello stalinismo e del fascismo e, alla fine della guerra, fu elemento attivo nella ricostruzione della Frazione di sinistra dei comunisti e socialisti italiani a Napoli e poi nel partito Comunista Internazionalista a Firenze.

Antonio ("Totò" come era chiamato da tutti) Natangelo morì nei primi mesi del 1959.

Riproduciamo qui il necrologio che venne scritto nel giornale del partito «il programma comunista», il suo breve articolo su «Il Soviet» ed il suo articolo su «Prometeo» del 1924 dove parla del suo incontro con Lenin.

 

 

 

Antonio Natangelo, un militante esemplare

 

Il suo volto sereno, specchio di una forza tranquilla e di una inconcussa fiducia nella vita, non ci verrà più incontro alle riunioni; la sua voce calda e la sua mano fraterna non saranno più lì a rincuorarci; la sua gaia, impetuosa loquela di solido militante alieno da scoramenti e da incertezze non racconterà più ai giovani le battaglie del passato per riaccendere nel buio del presente la fiamma di un entusiasmo che nulla, neppure l'approssimarsi della morte, poteva mai spegnere. Ma chi potrà, fra i compagni, dimenticare, il suo retaggio di semplice fermezza, di naturale fedeltà ai principi, di comunicativo entusiasmo nella lotta?

A quei principii e a quelle lotte, egli era venuto perchè spinto dalla sua condizione di operaio: non aveva avuto bisogno di «scegliere» il suo posto, era andato là dove un sicuro istinto di classe sospinge il proletariato. E c'era rimasto - ecco tutto. Qualcuno lo ricorda, ancora «sbarbatello», predicare un marxismo che aveva assorbito non dai libri, ma dall'aria in cui era cresciuto ragazzo e in cui doveva vivere uomo; e farlo con la stessa fiamma e con la stessa sicurezza di quarant'anni dopo. Era la sua vita; non avrebbe potuto concepirne altra.

Giovanissimo allo scoppio della prima guerra mondiale, non aveva voluto uccidere né farsi uccidere per gli interessi della borghesia e, oscuro militante e operaio metallurgico, si era segretamente trasferito dalla nativa Barra a Torino: si chiamava, primo ma non ultimo nome adottivo, Antonio Belfiore. Finito il massacro era tornato a Napoli e, ancora una volta, non aveva avuto esitazioni: tornitore alle Officine Aeronautiche Meridionali, aveva ripreso a battagliare nella FIOM; socialista di sempre , aveva aderito alla Frazione Astensionista. La tempesta rivoluzionaria infuriava a Mosca e Berlino, a Monaco e Budapest; serpeggiava, invano arginata da pompieri socialdemocratici e da sbirri governativi, nelle file della classe operaia italiana; l'Ottobre non era un evento di un paese lontano, ma un fatto tangibile in mezzo al quale il militante di ogni nazione si muoveva e che lo attirava irresistibilmente sul suo fronte, quello e quello solo. Poteva, il «Totò» che ai compagni di lavoro narrava l'epopea dell'Ottobre  con la stessa lucida fiamma di chi rivive la sua stessa esistenza, non unirsi alla Sinistra subito, due anni prima di Livorno? La sua tempra di militante si era formata alla lotta contro i riformisti; non da allora aveva imparato a riconoscere l'abisso invalicabile fra rivoluzionari e democratici. Aveva avuto loro contro nei grandi scioperi del '19; invano, segretario della FIOM napoletana, aveva lottato perchè l'occupazione delle fabbriche, nel '20, non si risolvesse sotto la loro guida in una bruciante disfatta. O di qua o di là: lo stesso dilemma degli operai di tutto il  mondo era il suo, ma per lui già risolto.

Nelle file del Partito Comunista d'Italia, a Napoli o a Milano, alla Motomeccanica o alla Fiat, nei Congressi dell'Internazionale (chi di noi dimentica di averlo sentito narrare il suo incontro con Lenin?) o nelle assemblee della Fiom, alla Conferenza del '24 o in seno al Comitato Sindacale del PCI nel '26 (di cui egli stesso, commemorando Ottorino Perrone, ricordava un anno fa le burrascose vicende), al suo posto di lavoro in fabbrica, o in galera, o alla macchia, nel cupo decennio anteguerra o il giorno che lo ritrovammo a Firenze pronto a ritessere le file della vecchia Sinistra, nel '45 o nel '58, sempre Totò è rimasto sulla breccia, seminando se non poteva lottare, martellando la parola se non poteva più martellare l'acciaio, giovane, entusiasta, fedele, devoto, instancabile, come chi non ha mai tradito, costi quel che costi.

Vecchie querce, diceva. Lo ricorderemo così.

 

il programma comunista, n. 4, 27 febbraio - 10 marzo 1959

 

 

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Ciò che pensa un operaio

 

 

Dobbiamo parlare schiettamente ai compagni che ancora in buona fede si fanno rimorchiare dal carro social-democratico. Ormai la storia insegna la verità a noi operai che usciamo dalle tenebre della incertezza e comprendiamo la necessità di liberarci da tutto il marciume della social-democrazia.

E' evidente ormai che  il partito della social-democrazia è divenuto un sito da villeggianti. Vi ritornano uomini che se ne ... stropicciano della disciplina e che hanno per meta l'opportunismo, la cura affannosa, egoistica della loro posizione individuale; vi ritornano e vi emergono coloro che non hanno mai veramente e sinceramente pensato alla grande famiglia degli oppressi, alla inevitabile rivolta degli oppressi contro gli oppressori.

 Così vediamo qui il caso Lucci, il caso Bovio,  e quello di tanti altri che un tempo uscirono dal partito per andare a collaborare coi giornali, e con i partiti borghesi, ed unendosi alla massoneria. Altrettanto fanno gli «unitari» che considerano la III Internazionale come l'Albergo dell'Allegria: vanno e vengono, entrano ed escono a seconda la stagione, a seconda della loro comodità personale.

La medesima incertezza ha il partito socialista sul terreno della reazione fascista.

L' «Avanti!» predica la pacificazione d'animo verso la borghesia reazionaria che distrugge giornalmente le forze proletarie.

Qual è intanto il contegno di codesti messeri di fronte alle elezioni?

Nelle scorse elezioni siamo andati nelle piazze con la «Falce e martello», col nome del grande maestro Lenin.

Ora domandiamo; con qual coraggio i social-democratici si presenteranno nella prossima lotta elettorale col cambiamento del programma e con altro simbolo? Se facciamo un buon esame di coscienza della situazione nazionale ed internazionale, vedremo che i social-democratici in tutto il mondo, si pongono sul terreno della controrivoluzione. Al contrario, si constata che solo il partito comunista ha assunto il compito di condurre i lavoratori di tutti i paesi per la grande lotta della Rivoluzione sociale. Solo i comunisti si trovano sul terreno della Terza Internazionale che non fa delle chiacchiere ma fatti. Ecco perchè i lavoratori debbono, anche in questa occasione elettorale battersi per i comunisti i quali solo sono quelli che non tradirono mai la causa del proletariato.

 

Natangelo Antonio

 

IL SOVIET, anno IV, n. 8, Napoli 24 aprile 1921

 

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Come vidi Lenin

 

Lo scritto che segue è dovuto ad un operaio metallurgico della Provincia di Napoli che ebbe la fortuna di vedere Lenin in occasione di un Congresso Internazionale. Noi lo pubblichiamo integralmente, adattandone soltanto la grafia, perchè da questo scritto senza pretese, semplice e quasi ingenuo meglio traspaia quale nuova alba di fede e di speranza la parola del maestro scomparso abbia acceso nel cuore di milioni e milioni di operai.

 

La morte improvvisa del caro compagno Lenin mi ha riempito di dolore come solo avrebbe potuto farlo quella del mio più caro congiunto. Io, modesto operaio metallurgico, ho avuto la insuperabile gioia di stringergli la mano quando, dopo un lungo viaggio attraverso l'Europa, arrivai nel paese della luce per partecipare al IV Congresso Mondiale Comunista, quale delegato del P.C.I. Con la più profonda commozione e sorpresa vidi in quella occasione convenire in un sol posto i rappresentanti dei proletari di tutto il mondo; fin dal lontano Giappone, dall'Africa, dalla Cina, dalle Americhe e dall'Australia. Uomini di tutti i paesi, di tutte le lingue, di tutte le razze, perfettamente sconosciuti l'uno all'altro, ardevano tuttavia tutti della medesima fede; tutti eravamo decisi a lottare per il comune ideale per svincolarci dallo stesso nemico; tutti aspettavamo frementi il momento in cui tutto il mondo sarebbe stato come una grande famiglia, non da altra passione arsa se non da quella del lavoro e dell'amore. E il sognatore e l'animatore di questo grande piano di avvicinare e stringere in un unico blocco i lavoratori di tutto il mondo, sotto la bandiera della III Internazionale, era Lenin. Perchè se Marx ha indicato la via Lenin è stato colui che ha spianato la strada e creato un grande faro che guiderà il proletariato nella lotta contro la società borghese: la Repubblica dei Soviet.

Io non potrò mai dimenticare il nostro grande compagno quale mi apparve quando, durante una seduta del Congresso venne a parlarci della gigantesca opera compiuta dalla Rivoluzione. Mai come quel giorno la sala delle riunioni, era stata così gremita di delegati. Tutti volevano vedere, o rivedere, Lenin. Io contemplavo pieno di meraviglia quella sala che era quella in cui fino ad alcuni anni prima gli zar di Russia si erano riuniti coi loro bestiali e feroci ministri per studiare nuovi mezzi e nuove armi per sempre più opprimere il popolo. Ora in quella sala si riunivano i rappresentanti dei lavoratori di tutto il mondo per studiare i mezzi e fucinare gli strumenti per la liberazione della classe operaia. Eravamo 2000 delegati, parlanti le lingue più diverse ed appartenenti a 64 diverse nazioni. Altro che la fallita Internazionale dei vari Ebert, Mac Donald e Turati! E tutti, nell'attesa, mormoravano, come un richiamo o una invocazione, le parole: tovarich Lenin. Tutti attendevamo con ansia, ma egli entrò senza alcuna pompa, così che molti, fra i quali io, non ce ne accorgemmo. Ad un tratto me lo vidi quasi di fianco: parlava col compagno Bordiga. Sorrideva del sorriso semplice di un fanciullo e vestiva dimessamente. In testa aveva un piccolo berretto da viaggio. Avevo fatto tanta strada per vederlo ed ora che mi era così vicino non potetti trattenermi. Gli corsi vicino per dirgli tutta la mia commozione. Ma egli non poteva intendermi. Allora gli afferrai una mano per baciargliela. Non feci a tempo perchè egli intuendo quello che io volevo fare mi prese la mia fra la sua e me la strinse sorridendo. Bordiga allora gli disse che io ero un operaio metallurgico ed un entusiasta comunista. Egli allora mi strinse di nuovo la mano e di nuovo mi sorrise. Se anche avessi potuto farmi intendere da lui non avrei nemmeno potuto parlare. Avevo gli occhi pieni di lacrime. Dentro, il cuore pareva volesse scoppiarmi. Sentivo rinascere in me l'entusiasmo con cui, quattro anni prima, avevo indotto una mia sorella a dare ad una sua figliuola nata da pochi giorni il nome di Lenin. Ricordo: sul Municipio ci fecero un mondo di ostacoli. Dicevano che non essendo un nome italiano quel nome non si poteva dare. Ma, e tutti i nomi tra canini e scimmieschi (Bob, Tom, Mary, ecc.) con cui i signori chiamano i loro figli, erano forse italiani? Io tenni duro, e la mia nipotina si chiamò Lenin. Ora, nel mio paese, i piccoli Lenin si contano a decine. Pensavo a tutti questi bambini, ed avrei voluto poterli mostrare a lui per dirgli: in questi tu ti rinnovi.

Ma ecco entrare il compagno Zinovief. Al suono del campanello tutti presero il loro posto. Lenin salì alla tribuna: Duemila gole intonarono l'Internazionale, poi uno scroscio di applausi, acclamazioni in tante lingue diverse, e su tutto quel frastuono un nome che aveva un solo suono in tutte le lingue, così come suscitava un solo sentimento in tutti i cuori: Lenin!

Io non sentivo, non vedevo più. Le mie mani non erano più le mie mani. Esse continuavano ad applaudire, come fossero percorse da una corrente.

Quando Lenin cominciò a parlare si fece il più profondo silenzio. Sofferente e tuttavia sempre sorridente, gli occhi lucenti come due stelle, fissi nei nostri occhi, egli è penetrato in noi: è noi stessi. Io ero un modesto operaio e non intendevo il tedesco. Pure ebbi continuamente la impressione di capire tutto ciò che egli diceva. Erano il suono della sua voce, il suo gesto, il suo sguardo che entravano in me e mi ripetevano nella mia lingua ciò che egli diceva. Certo, egli diceva ciò che io stesso pensavo. La sua grandezza non sta forse nell'aver egli letto nell'animo di 150 milioni di uomini e averne compreso i dolori, e i bisogni, i desideri e le aspirazioni?

Anche io lo capivo perchè egli capiva me. Io lo contemplavo, estasiato in silenzio. E il sole che a Mosca non si vede quasi mai quel giorno volle venire a baciare sulla fronte il nostro Lenin, sole della classe operaia.

Le note dell'Internazionale accolsero la fine del suo discorso che a me era sembrato così breve. Poi se ne andò, solo, senza seguito. Eppure quando si moveva lo zar che era uno stupido, come ho letto in un libro borghese, tutta una fiumana di uomini era costretta a muoversi.

Ora egli è morto e noi siamo rimasti orfani. Ma egli è carne della nostra carne, sangue del nostro sangue: egli è penetgrato in noi: è noi stessi. Come i cristiani fecero per Cristo ogni operaio gli ha innalzato un tempio. Egli vive nei nostri cuori. E vivo è il leninismo che continuerà inesorabilmente il suo processo storico e toccherà le città, e toccherà i borghi e quando l'ora sarà venuta scrollerà il mondo per farlo migliore.

In cima al Kremlino, o miei compagni operai e contadini d'Italia e del mondo, c'è un immenso orologio che suona l'ora internazionale. Regoliamo, o compagni, i nostri orologi sull'ora del Kremlino!

A. Natangelo

 

PROMETEO, n. 2, 15 febbraio 1924