Cerca nel sito



 


archivio > Saggi e inediti>Una lettura marxista di due libri su Gramsci (novembre 2012)

aggiornato al: 23/11/2012

novembre 2012
E' con vivo piacere che presentiamo questo scritto (diviso in due parti) che ci è stato inviato da un caro amico e compagno e che riguarda la lettura di due libri su Gramsci editi recentemente. I due libri sono: Franco Lo Piparo,I due carceri di Gramsci, Donzelli editore 2012, e Luciano Canfora, Gramsci in carcere e il fascismo, Salerno Editrice 2012.
La prima parte, inserita oggi, riguarda il libro di Lo Piparo, la seconda che troverà posto nel prossimo inserimento riguarderà il libro di  Luciano Canfora.
Buona lettura!
 
Una lettura marxista di due libri su Gramsci
 
(Prima parte)
 
 
E’ interessante la documentazione sul periodo carcerario di Gramsci, perché durante tale periodo egli rompe politicamente col partito (il fatto ormai è documentato). E’ importante notare come questa rottura avvenga necessariamente sul piano dei rapporti politici e della gestione politica del partito perché Gramsci (tralasciando il periodo del suo transitorio  marxismo che mai assimilò e che usò solo come strumento di potere politico e per la funzione da lui svolta come bolscevizzatore, nell’ambito di una IC degenerante, del partito italiano), mantenne una continuità teorica di pensiero, basandosi  sulle sue radici di fondo ed adattando il suo marxismo ad esse. Quindi alla luce di questa continuità e dei suoi principi (Gramsci non era il “gelido” Togliatti) si trovò costretto a rompere e la rottura poté avvenire solo a livello del potere politico, come documenta tutta la sua traiettoria carceraria fino al desiderio finale del suo ritiro in Sardegna.
 
Si corre il rischio di una sovra semplificazione (nell’attribuire a Gramsci un consapevole e voluto asservimento alle operazioni di normalizzazione staliniana del Partito italiano accennando anche a forse esistenti operazioni coperte)  che, come sovente accade, maschera il contenuto reale perché nel caso evocato appare evidente non vi sia alcuna prova di un volontario consenso di Gramsci ad una simile operazione (che può benissimo essere stata posta in essere a sua insaputa) . Se consenso vi fu (e sono convinto che così fu almeno fino al 1926), si trattò di una convinta adesione ad una linea politica in cui egli venne coinvolto (e che poté tanto più accettare convintamene in quanto si allontanava dal precedente genuino radicamento marxista per acquistare prevalentemente l’aspetto di una lotta politica per il potere) ed a cui partecipò attivamente. Questo fatto però, nonostante la pratica con cui Gramsci e la Centrale lo attuarono, appartiene ad altro livello ed è altra cosa.
Se non fosse stato così ci dovremmo chiedere perché mai Bordiga riservò ed indirizzò a Gramsci (nei cui confronti parve avere sempre un certo condiscendente ed amichevole approccio) le stesse valutazioni spregiative che indirizzò ripetutamente ad altri esponenti centristi inoltratisi ben più e oltre Gramsci sul terreno della dimissione da ogni dignità politica e personale.
 
La teoria del ritardo italiano, quando non se ne vede invece la precocità dell’emersione capitalistica, che porta Gramsci a strane consonanze con Gobetti che negli anni della prorompente attualità della rivoluzione proletaria, intitola il suo giornale Rivoluzione liberale (in analogia con tutti coloro che ancora adesso sono in attesa od in difesa di un liberalismo ormai defunto e che, senza riuscire a vedere coi loro occhi la realtà esterna sono accecati da un fantasma puramente ideologico…proprio loro che si ammantano di anti ideologismo ad ogni passo) o trova evocazione in altri termini nelle argomentazioni fasciste della Grande Proletaria e del posto al sole; quando in effetti l’Italia non aveva e non ha ritardi storici da scontare o minorità ed inadeguatezza di forme sociali da recuperare; ma illustrava proprio all’epoca del suo presunto ritardo, col fascismo, fenomeno moderno, a tutti gli altri stati una prospettiva futura comune che prenderà in breve sostanza  in forme fenomeniche diverse ma in sostanza univoche.
Esemplare nel senso di una lettura corrispondente al nostro inquadramento teorico mi pare utile ricordare lo studio fondamentale pubblicato su Prometeo dal titolo "La classe dominante italiana ed il suo stato nazionale", che presenta la questione in termini rigorosi e conformi alla nostra concezione storica.
 
E’ da sottolineare inoltre che la parentesi marxista di Gramsci oltre ad essere superficiale, mal assimilata e tardiva fu anche transitoria. Infatti malgrado il riconoscimento da lui attribuito alla Sinistra, secondo la testimonianza di Amadeo, che il marxismo non era solo una teoria politica, ma una concezione del mondo, mai si integrò in tale concezione e tornò, come dimostrano ad abbondanza diversi studi recenti (Lo Piparo, Canfora che riprendono fra l’altro con ulteriori considerazioni lavori precedenti), a riabbracciare le sue originali ed iniziali posizioni elaborandole ulteriormente ed abbandonando negli anni del carcere ogni riferimento al comunismo ed anzi staccandosi convintamene da esso.
 
Una volta chiarita l’effettiva realtà storica dei fatti, al di fuori ed oltre ogni “leggenda” costruita per i poco nobili fini di lucrare una rendita politica nel nome di Gramsci, è da dire che di questi protagonisti storici di ormai oltre 90 anni orsono, i giovani han perso ogni memoria e le caratterizzanti posizioni gramsciane sono recuperate ad uso esclusivo e proprio di una ideologia italiana borghese, liberale e democratica, rendendo Gramsci, una ulteriore, fra le già numerose, icona rappresentativa e progressista di padre di una patria a cui la sua elaborazione teorica può essere oggettivamente e razionalmente riferita non essendo mai riuscito ad integrarsi nell’internazionalismo proletario. Ciò proprio (se si vogliono ricordare i maggiori personaggi coinvolti) a differenza di Bordiga, invece, meno noto per scelta propria le cui elaborazioni invece sono assolutamente irriducibili ad ogni trattamento equivalente, in cui viene mantenuta e ricercata la permanenza e la validità di un contributo attuale, necessario e che non rischia di invecchiare.
 
Il libretto di Lo Piparo: “I due carceri di Gramsci – la prigione fascista ed il labirinto comunista” documenta in modo convincente, attraverso una puntigliosa lettura in particolare degli scritti gramsciani in carcere, il suo progressivo distacco dalla concezione programmatica comunista, il suo ritorno alle sue radici originarie ed anche la sua volontà di un effettivo distacco e rottura formale con l’organizzazione politica allora vigente.
Fatto a cui ovviamente il partito togliattiano si oppose in tutti in modi, interessato ad usare Gramsci, contro la sua stessa volontà, al punto da ritenere che la volontà del PCI non fu estranea alla lunga permanenza di Gramsci stesso in carcere.
Il libro documenta la lunga lotta svolta da Gramsci per riacquistare la libertà,  ritirarsi in Sardegna  ed uscire da ogni ruolo politico e pubblico. In questa lotta egli fu costantemente coinvolto in una serie di giochi e manovre svolte dai suoi diversi corrispondenti di cui Gramsci stesso, a giusto titolo, diffidava. Il libretto evidenzia come il partito bolscevizzato dallo stesso Gramsci si rivoltò e lo usò fino alla fine trasformandolo in icona patriottarda di un partito nuovo che invece si inseriva  senza onore nella corrente nazionale di una storia italiana a cui il proletariato è e fu estraneo.
Trascrivo alcuni passi significativi dal libro in questione. “Avanziamo l’ipotesi che nella lettera del 27 febbraio 1933 Gramsci dichiari e renda ufficiale, anche se in maniera criptica, la propria estraneità, filosofica anzitutto, al comunismo come si andava realizzando e – tendiamo a pensare – al comunismo tout court” 17
Lo Piparo articola una identità di significato (nell’interpretazione esopica delle lettere) fra la moglie di Gramsci, Giulia (sulla cui funzione politica molto si è scritto e dubitato) ed il partito in relazione alla intenzione espressa da Gramsci di sciogliere il vincolo matrimoniale. Gramsci facendo questa proposta alla fine in una lettera commenta “E tutta una serie di quistioni coordinate verrebbero risolte. E io rientrerei nel mio guscio sardo” 30 Tale richiesta e possibile rottura allarma molto i corrispondenti di Gramsci al punto che Sraffa (comunista “coperto” e tramite tra Gramsci ed il partito) scrive alla cognata Tania in contatto con Gramsci in Italia durante la sua carcerazione: “E’ evidente che in realtà il legame è di altra natura, ed è affatto indipendente dalla presenza o assenza del “consenso” di Nino”31 Questa corrispondenza viene così interpretata da Lo Piparo: il comunista Gramsci non può sciogliere l’appartenenza al partito col consenso del partito medesimo….La giustificazione del rientro nel guscio sardo non sarebbe stata accettata e la fuoriuscita dal partito sarebbe stata valutata come una scelta anti-partito” 31-32
Inoltre sempre in un linguaggio costantemente e necessariamente esopico Gramsci lascia intendere, dopo la sua lettera dell’autunno 1926 precedente il suo arresto (in cui prende una certa distanza ed esprime un dubbio sull’attitudine del centro moscovita),  dopo la lettera inviatagli da Grieco che solleva la sua diffidenza, un crescente di scostamento dal partito. Estratti da lettere: “ti ho già detto che è incominciata una terza fase della mia vita di carcerato…Esistevano allora delle possibilità…e anch’esse furono perdute, ti assicuro non per colpa mia, ma perché non si volle dare ascolto a ciò che io avevo indicato a tempo opportuno….la mia impressione è di essere tenuto da parte, di rappresentare, per così dire una pratica burocratica da emarginare e nulla più. Inoltre altre cose non credo opportuno scrivertele…Chi mi ha condannato è un organismo molto più vasto , di cui il Tribunale Speciale non è stato che l’indicazione esterna e materiale, che ha compilato l’atto legale di condanna…Devo dire che tra questi condannatori c’è stata anche Julca (e Lo Piparo costituisce una identità fra Julca e il partito come suindicato),credo, anzi sono fermamente persuaso, inconsciamente, e c’è una serie di altre persone meno inconscie. Questa è almeno la mia persuasione, ormai ferramente ancorata perché l’unica che spieghi una serie di fatti successivi e congruenti tra loro”34-38
La maturazione del convincimento di Gramsci tuttavia prosegue. “Ho creduto di doverti scrivere perché mi pare di essere giunto a uno svolto decisivo della mia vita, in cui occorre, senza più dilazioni, prendere una decisione. Questa decisione è presa…Certe volte ho pensato che tutta la mia vita fosse un grande (grande per me) errore, un dirizzone…Questo che ti scrivo è riservato per te e l’avvocato (inteso come Sraffa) che si occupa dei miei affari…le parole non basterebbero da sole ; dovrebbero essere accompagnati da fatti. Credi che ciò mi preoccupa”. 39-44
In altra lettera del 13/7/31 Gramsci scrive: Mi pare che ogni giorno si spezzi un nuovo filo dei miei legami col mondo del passato e che sia sempre più difficile riannodare tanti fili strappati” 48. Nell’isolamento carcerario tuttavia la riflessione di Gramsci sul suo “dirizzone” procede instancabile: “non si tratta di un colpo di testa, ma della fase terminale di un lungo processo, fase necessaria, che solo una incredibile cecità ti ha impedito di prevedere e di apprezzare convenientemente…non so cosa potrà rimanere di me dopo la fine del processo di mutazione che sento in via di sviluppo” 51
Gramsci in quegli anni spera di poter lasciare il carcere, grazie a trattative in corso per canali diplomatici non coinvolgenti il PCI e scrive: “Se la pratica si svolge favorevolmente , tanto meglio; ci sarà, entro certi limiti un passato da dimenticare (dato che certe cose possano essere dimenticate, cioè non lascino tracce permanenti” 52
Contrariamente alla consegna della “discrezione” invece il PCI agisce con campagne stampa e manifestazioni al punto da inasprire e rendere vana la possibilità della liberazione di Gramsci. Gramsci stesso ne è ben consapevole e scrive: “ogni mia iniziativa per reagire alla situazione viene annientata dall’incapacità di esecuzione di quelli che dicono di volermi aiutare…Ciò che poteva essere fatto è stato fatto, ma non bene e non con l’accortezza e la precisione che erano necessarie” 55
Gramsci tuttavia non appare cieco e inconsapevole della manovra che il partito svolge sulla sua pelle: “Potevo prevedere i colpi degli avversari che combattevo , non potevo preventivare che dei colpi mi sarebbero arrivati anche da altre parti, da dove meno potevo sopportarli “ 60
 
L’autore dopo aver documentato questo processo evolutivo in Gramsci, documenta altrettanto incisivamente invece l’utilizzazione sfacciata e mistificatrice  che il PCI fece della figura di Gramsci.
Dapprima opera per tenerlo in carcere o per farlo eventualmente espatriare in URSS dove potrebbe tenerlo sotto controllo, pur sminuendo nella pratica effettiva della vita di partito il ruolo di Gramsci. In effetti l’atteggiamento della dirigenza del PCI verso Gramsci è duplice: da un lato la costruzione di un “martire” per la sua utilizzazione politica e dall’altro  bassamente utilitario e manovristico. In un passaggio l’autore chiosa efficacemente: “Proclamando di essere stato condannato da due Tribunali (fascista e comunista), Gramsci dichiara anche la propria estraneità culturale alle filosofie politiche ispiratrici dei due Tribunali. Il sentimento di estraneità al comunismo realizzato in quegli anni era ricambiato. Togliatti, in una autobiografia scritta nel 1932 per il Comintern, parlando della formazione del gruppo dirigente comunista italiano tra il 1922 e il 1926, non nomina mai Gramsci. Segno inequivoco che per la Terza Internazionale quello che entrò in carcere come segretario del partito comunista d’Italia era diventato ideologicamente sospetto.” 38
Il comportamento del partito riguardo al lavoro teorico svolto da Gramsci in carcere fu scorretto e mistificatorio. Gramsci avrebbe voluto che i quaderni andassero alla famiglia ed invece il partito se ne appropriò e su di essi tessé la tela mistificatrice del Gramsci figura iconica del partito nuovo. L’autore documenta con chiarezza questi aspetti. Togliatti dopo aver espropriato gli eredi naturali (come scrive l’autore a pag. 73) invia una rivelatrice lettera nel 1941 a Dimitrov a proposito proprio dei quaderni: “i quaderni di Gramsci, che io ho già quasi tutti accuratamente studiato, contengono materiali che possono essere utilizzati solo dopo un’accurata elaborazione. Senza tale trattamento il materiale non può essere utilizzato e anzi alcune parti, se fossero utilizzate nella forma in cui si trovano attualmente, potrebbero essere non utili al partito. Per questo io credo che sia necessario che questo materiale rimanga nel nostro archivio per essere qui elaborato”. 73
Dunque i quaderni vengono sottratti alla famiglia, nonostante le proteste documentate di essa ed in questa frase di Togliatti è contenuta tutta la reticenza, la falsità, la parzialità che accompagnarono l’avventura editoriale delle pubblicazioni dei testi gramsciani, sottratti ai naturali diritti economici e editoriali degli eredi a cui Gramsci voleva lasciarli.
Togliatti si appropria dunque dei lavori e li utilizza a suo placito. Contro tale attitudine si levano inutili le proteste famigliari ed in particolare di Tatiana che morrà durante la guerra. La volontà di Gramsci è chiara e ribadita da Tatiana alla sorella Giulia (moglie di Gramsci): “E così la sua volontà è che sia tu a ricevere questi manoscritti, e non la sezione italiana, capisci mia cara? Tu devi ricevere tutto per intero e non affidare nulla a nessuno…” 73 Intenzione ribadita e sottolineata in un’altra lettera di Tatiana: “I quaderni di Antonio saranno una trentina, alcuni di essi di duecento pagine…Non bisogna pensare che un italiano qualsiasi, un compagno ex amico, debba farsi carico di questo lavoro”76.
Successivamente la stessa Giulia che avrebbe dovuto essere la destinataria, custode dei quaderni espone la stessa lamentale in una lettera a Dimitrov: “Ercoli ha deciso senza il consenso della famiglia tutte le questioni concernenti Gramsci. Le cose di Tatiana, ricevute da Frunze dopo la sua morte, sono state esaminate da Ercoli senza chiamare nessuno della famiglia” 94
Dopo essersi appropriato ed aver “elaborato” i quaderni Togliatti ne sovrintende e sorveglia attentamente la pubblicazione curando che essi nel loro aspetto reinterpretato diventino fondativi e consoni all’ideologia del partito nuovo.
L’autore osserva: “I manoscritti del carcere…al Togliatti del dopoguerra si rivelarono progressivamente come formidabile leva di una originale egemonia culturale. I testi gramsciani, soprattutto nella forma e con le modalità con cui Togliatti li andava rendendo pubblici, si prestavano all’operazione: testi nominalmente comunisti (il loro autore era entrato in carcere come segretario del Partito comunista d’Italia) ma tanto polisemici da suscitare curiosità e interesse in chi comunista non era” 114-115
Sarà da ricordare la positiva recensione fatta da B. Croce alla pubblicazione delle Lettere, in cui rivendica Gramsci fra i “nostri”.
Se si può dire che Togliatti falsificò e manovrò i lavori di Gramsci, si può tuttavia arrivare alla conclusione che lo sbocco finale del partito nuovo di Togliatti e sodali costituì il vero approdo reale del pensiero gramsciano: abbandonato in carcere il transitorio periodo comunista, Gramsci approda ad un recupero ed una riappropriazione del suo pensiero liberale iniziale condito dalla sua esperienza politica e questa sua concezione ideologica verrà trasferita nel partito nuovo togliattiano; una postuma astuzia della storia che nel 2012 ormai ha rivelato tutta la insussistenza di questa operazione.
L’autore del libro, invece anticomunista e convinto liberale, recupera appieno l’evoluzione vissuta da Gramsci e ne rivela e rileva il percorso osservando: “Su aspetti teorici strategicamente centrali i testi riscritti (nei quaderni sono presenti rielaborazioni cronologicamente successive) mostrano un cambiamento di paradigma teorico di riferimento” 102.
Dal suo iniziale liberalismo giovanile a Torino degli anni universitari, della frequentazione di Gobetti, dei testi di Croce ed Einaudi che appaiono all’autore “una prefigurazione idealistica e per alcuni versi ancora astratta, del futuro concetto di egemonia e società civile” 111 egli matura successivamente il suo percorso di ritorno in fondo nuovamente ad essi.
Vediamo il Gramsci giovanile “Il liberismo è contro le oppressioni del pensiero, è per lasciare le idee e le opinioni in lotta tra loro: bene inteso senza privilegio….il liberista sa che le leggi sono vane quando non le sostanzia un movimento sociale, un atteggiamento della coscienza, un bisogno sentito; e che nessuna repressione è mai valsa ad abolire le espansioni della vita…Lo spirito del liberalismo vive in coloro che lottano, soli, non avendo altro sostegno che la loro forza… “Il liberalismo, in quanto costume, è un presupposto, ideale e storico del socialismo” 111-112-113
A giusto titolo l’autore osserva come queste formulazioni giovanili matureranno successivamente nei concetti gramsciani di egemonia e società civile e chiosa: “(esse) tradiscono l’origine liberale della nozione di egemonia che sarà elaborata nelle due prigioni” 113. Come elaborazione di tale concezione l’autore prende alcune significative citazioni dai quaderni: “La società civile o egemonia di un gruppo sociale sull’intera società nazionale esercitata attraverso le organizzazioni così dette private, come la chiesa, i sindacati, le scuole, ecc (1931)…una molteplicità di altre iniziative e attività cosiddette private che formano l’apparato dell’egemonia politica e culturale delle classi dominanti (1931)….la società civile, cioè l’insieme di organismi volgarmente detti privati” (1932) pag. 110
In tale modo Gramsci, senza averla mai intimamente abbandonata, rientra a pieno titolo nell’alveo dell’ideologia italiana che probabilmente sente molto sinceramente ma si pone in un quadro che nulla ha di comune con la concezione comunista.
Egli rivendica istituti fondamentali del liberalismo con la sua concezione di un “costume” liberale che lo avvicinano ai giacobini più che ai suoi tempi. “La libertà di stampa è postulato primo del liberalismo; essa può tralignare, ma anche in questo caso serve a distruggere il servilismo nei riguardi dell’autorità come tale” 114.
In ogni aspetto della lotta politica la sua visione è sempre ideologica. L’autore conclude valutando in termini complessivamente favorevoli e positivi l’evoluzione del pensiero di Gramsci ed infine anche l’utilizzazione finale dei suoi testi: “Non è ancora un’articolata filosofia liberale del socialismo, ne è sicuramente l’imprescindibile punto di partenza etico. I quaderni sono l’inizio di una costruzione teorica in positivo che chi entrò in carcere come segretario del ‘Partito comunista d’Italia. Sezione della Terza Internazionale’ non ebbe il tempo di portare al suo pieno svolgimento….Le stranezze della storia. A partire dal 1947, anno della pubblicazione dell’edizione togliattiana delle Lettere, accadde un evento paradossale e imprevedibile: gli scritti del ‘comunista’ Gramsci svolsero il ruolo di oggettivo cavallo di Troia di elementi di liberalismo in un universo di pensiero antitetico al liberalismo. L’astuto Togliatti ne fu l’Ulisse, difficile dire quanto consapevole” 113-114.
E così l’autore tende a salvare ed assolvere capra e cavoli nel quadro della perdurante storia dell’ideologia nazionale.
Da questa ricostruzione si può concludere riaffermando la completa estraneità del partito nuovo edificato dai centristi togliattiani sul lascito gramsciano ad ogni relazione o collegamento col partito sezione della III Internazionale fondato a Livorno. La controrivoluzione si sceglie i suoi e anche le sue forme ideologiche tornando suddita del pensiero dominante: quella della Sinistra fu è e sarà altra storia ed altro programma.
 
novembre 2012