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archivio > Saggi e inediti>F. Livorsi, La critica del parlamentarismo nel pensiero politico di A. Bordiga (C.E.T., 1995)

aggiornato al: 08/05/2011

Centro Editoriale Toscano, 1995

Uno scritto poco conosciuto di Franco Livorsi apparso in un volume collettaneo della Università di Perugia La rappresentanza politica in Europa tra le due guerre, una quindicina di anni fa, nel 1995.

Ci sembra utile ospitarlo nella sezione "saggi".

Lo scritto vale la pena di essere letto anche se inizia con un errore: se Bordiga guidò il partito dalla sua nascita, non fu mai segretario del partito; il suo primo segretario fu Gramsci eletto a questa carica in una riunione del C.C. dell'agosto 1924.

Nella riproposizione del testo abbiamo omesso le note.

 

Franco Livorsi:

La critica del parlamentarismo nel pensiero politico di

Amadeo Bordiga

 

 

Bordiga primo segretario del partito comunista d'Italia (che dal 1944 si chiamerà PCI), è figura interessante sia nella storia del comunismo di sinistra internazionale, sia nella storia dell'estremismo di sinistra. Egli portò infatti al massimo livello di elaborazione teorica e di potenza d'azione politica pensabili per una posizione di quel genere una linea assai settaria che nel nostro paese, quando fu rappresentata da altri, ebbe comunque un rilievo minore (nella teoria e nella prassi).

La questione del parlamentarismo è, nel pensiero-azione di Bordiga, centrale. La posizione bordighiana in proposito si forma portando alle estreme conseguenze una politica di intransigenza assoluta in materia di alleanze politico-elettorali e di attitudini antiparlamentari che era già stata forte nel Partito socialista italiano, naturalmente nella corrente di sinistra, specie nella fase in cui era stata impersonata da Mussolini direttore dell' «Avanti!». Quel Mussolini fu anzi il primo importante maestro politico e il primo autorevole estimatore della collaborazione ed azione socialista del giovane Bordiga (operante a Napoli, e sin dall'inizio anche nel contesto nazionale). Bordiga era delegato della Sezione di Napoli del PSI al famoso congresso di Reggio Emilia del 1912, in cui su proposta di Mussolini, avvenne l'espulsione dei leader della destra riformista che avrebbero voluto proseguire il confronto unitario con Giolitti anche dopo la guerra di Libia, pur formalmente deplorata: Bissolati, Bonomi, Cabrini e Podrecca, e che, nel caso dei primi tre, si erano macchiati di atteggiamento ritenuto filomonarchico - deploratissimo specialmente nelle Romagne - andando a congratularsi, con gli altri deputati filogovernativi, con il re scampato all'attentato del muratore anarchico D'Alba.

L'eco di quel discorso mussoliniano, soprattutto per l'antiparlamentarismo estremo fu, in Bordiga, sempre grande. Infatti si sente pure nella testimonianza viva rilasciata cinquantadue anni dopo, nella prima parte della sua Storia della sinistra comunista, laddove osserva:

 

Finalmente fu condannata in tutte lettere ogni autonomia del gruppo parlamentare del partito. Mussolini svolse una vivace critica del parlamentarismo e della sopravvalutazione del suffragio universale offerto da Giolitti in contropartita all'impresa libica («il sacco di ossigeno che prolunga la vita dell'agonizzante»), proclamò che l'uso di quest'ultimo «deve soltanto dimostrare al proletariato che neanche quella  è l'arma che gli basta per conquistare la sua emancipazione totale», e disse senza ambagi ch'era il tempo di «celebrare solennemente con un atto di sincerità quella scissione che si è ormai compiuta nelle cose e negli uomini».

Ma il suo forte non furono mai le costruzioni teoriche bensì le posizioni di battaglia. Si scagliò contro la visita al Quirinale: noi non siamo per l'attentato personale, ma gli infortuni dei re sono gli attentati, come le cadute dai ponti quelli dei muratori (D'Alba era muratore). Lesse infine tra applausi frenetici la mozione che espelleva dal partito Bissolati, Bonomi e Cabrini, ma nella fretta scordò una parte delle decisioni di frazione della notte: fu necessario gridargli: E Podrecca? (l'anonimo delegato che lo gridò fu lo stesso Bordiga, n.d.a.) e allora afferrò il lapis e scrisse sul foglietto che tendeva al presidente: «la stessa misura colpisce il deputato Podrecca per i suoi atteggiamenti nazionalisti e guerrafondai», sollevando tra lo sbigottimento dei destri e dei centristi alte acclamazioni.

 

L'idea mussoliniana richiamata del parlamentarismo come «sacco d'ossigeno» della borghesia, anticipa, anche al di là del desiderio del promotore della nuova tendenza, l'astensionismo bordighiano. Non solo: Bordiga è sostenuto da Mussolini, e lo sostiene, nella lotta contro i «blocchi elettorali», cioè contro le alleanze con forze democratico-borghesi pretese di sinistra e naturalmente contro la massoneria (l'adesione alla quale è ritenuta incompatibile con l'appartenenza al PSI per decisione del congresso di Ancona del '14). Lo si coglie in modo esplicito nell'intervento di Bordiga nell'assise in questione, in cui proprio esordendo si augura che «Benito Mussolini vorrà venire a questa tribuna» a «svolgere il punto di vista essenzialmente rivoluzionario secondo il quale la nostra frazione può dare una valutazione moderna alla conquista dei comuni da parte delle organizzazioni politiche proletarie». Il giovane leader del socialismo napoletano, tra l'altro, per l'occasione introduce nel dibattito un'originale argomentazione teorico-politica. Egli, infatti, stabilisce un nesso stretto tra arretratezza sociale di un territorio (com'era quello del  Sud del tempo) e necessità di maggiore intransigenza, rovesciando il teorema dei marxisti tradizionali della Seconda Internazionale e naturalmente dei riformisti, per i quali la borghesia è tanto più contestabile quanto più è moderno il quadro economico-sociale capitalistico, e tanto più da favorire, indirettamente o direttamente, quanto più è arretrata la situazione economico-sociale e dunque necessario lo sviluppo aurorale del capitalismo moderno. L'oratore ritiene infatti che proprio al Sud la linea di alleanza politico-amministrativa con i democratico-borghesi di sinistra, porterebbe alla maggior degenerazione borghese del gracile corpo del socialismo.

Il Mussolini «socialista» già contrappone democrazia e socialismo. Bordiga, sulle colonne dell' «Avanti!», e sul periodico della Federazione socialista di Napoli, fa altrettanto, ma con potenza teorica inimmaginabile negli scritti del pur più maturo direttore. Nota infatti, nel luglio 1914, ponendo un punto fermo del suo pensiero (che per la verità lo distingue da tutte le scuole socialiste, oscillanti in genere tra democrazia parlamentare e democrazia diretta, quanto meno prima del consolidamento del potere sovietico in Russia):

 

Il ritenere come concetti affini le idee democratiche ed il socialismo, il gabellarli come rami usciti dallo stesso tronco e che tendono a ricongiungersi, a crescere paralleli, è, mi si consenta l'espressione, il più deplorevole sabotaggio della propaganda socialista. Non faranno mai tanto male le bugie velenose dei clericali, forcaioli e reazionari,  quanto le untuose declamazioni popolaresche dei democratici in cerca di voti, o degli ex socialisti malati di mania bloccarda (...). Se c'è quindi una negazione completa della teoria e dell'azione democratica questa è nel socialismo.

 

Tuttavia sino all'agosto 1914, anzi sino al 1917, la posizione di Bordiga non si scosta quasi per niente da quella della sinistra «intransigente» egemone nel PSI dal '12 in poi. In essa egli esprime semplicemente un maggiore radicalismo delle posizioni, ma per un leader giovanile del movimento socialista ciò non era e non sarebbe mai stato insolito. Gli accenti cambiano invece dalla fine del '17: non tanto per influenza della rivoluzione d' Ottobre -certo molto forte prima come esempio, e più tardi come fonte di nuova dottrina politica rivoluzionaria- quanto per l'analisi delle ragioni del crollo del socialismo internazionale di fronte alla Grande guerra. Perché persino Mussolini, che pareva a Bordiga e a quasi tutti i socialisti, specialmente giovani, un autentico rivoluzionario, era diventato guerrafondaio? Perché quasi tutto il socialismo internazionale aveva aderito alla Grande guerra, salvo solo i neutralisti svizzeri, gli italiani (nei loro ben noti limiti espressi nella formula di Costantino Lazzari «Né aderire né sabotare») e i russi?

A questa domanda via via se ne aggiunsero altre ugualmente drammatiche: perché il movimento operaio d'Occidente non aveva fatto la rivoluzione come Lenin, nel 1917, in Italia al tempo della rotta di Caporetto, o negli anni immediatamente successivi?

Lenin che si sentiva un marxista ortodosso - anche se per lo storico non lo è - spiegava la mancata opposizione rivoluzionaria del socialismo occidentale alla Grande guerra, e poi la sua mancata rivoluzione socialista, dapprima con il tradimento dei capi (certo non tale da poter portare fuori strada per molto tempo le grandi masse in latente rivolta); poi col ruolo politicamente e sindacalmente forte, nei paesi a capitalismo avanzato della cosiddetta «aristocrazia operaia», ossia degli operai più professionalizzati, più colti, ma anche più riformisti, i quali a suo dire avevano trascinato al collaborazionismo con lo Stato borghese le grandi masse (naturalmente anche in tal caso solo temporaneamente - riteneva - essendo a suo dire ineluttabili le ragioni economiche, e quindi politico-sociali, di negazione del sistema capitalistico-imperialistico mondiale, in quei drammatici frangenti ed anni).

Il comunismo di sinistra internazionale - quello stesso che Lenin diceva «estremismo malattia infantile del comunismo», ma anche reazione comprensibile al riformismo collaborazionista d' Occidente - diede invece un'altra spiegazione (della mancata guerra alla guerra e della mancata rivoluzione europea). Da Gorter a Pannekoek, da Bordiga a Korsch, esso pose la questione dell'assuefazione delle grandi masse ai modi di vivere e di pensare vigenti nei paesi a capitalismo avanzato e di tradizione democratico-parlamentare. Stabilì un nesso stretto tra rottura psicologico-collettiva col sistema «borghese» e rivoluzione, prospettando perciò la necessità di un'azione extraistituzionale autonoma delle masse proletarie, ritenuta decisiva per la lotta risolutiva tra classe operaia e capitalismo.

Bordiga, diversamente da tale comunismo di sinistra, il quale nella sfera teorica si chiama anche «marxismo occidentale», non era né un marxiste tendente all'idealismo soggettivo o quanto meno al neoempirismo, né tantomeno un libertario, un teorico della democrazia diretta, un fautore del protagonismo operaio nel processo rivoluzionario, ma semmai era un teorico del ruolo delle minoranze nella storia, un ultraleninista (anche ante litteram), un fautore della dittatura giacobino-marxista, rivoluzionaria. Ciononostante egli condivideva l'analisi del comunismo di sinistra internazionale, del marxismo occidentale, sulla mancata opposizione rivoluzionaria alla Grande guerra e sulla mancata rivoluzione del primo dopoguerra. La ragione di quella mancata opposizione rivoluzionaria alla guerra, e di questa mancata rivoluzione proletaria europea, era anche per lui eminentemente sovrastrutturale, seppure incentivata da dati strutturali. Andava ricercata nella corruzione parlamentare del movimento operaio, denunciata in termini che per taluni aspetti -diciamo nella pars destruens- ricordano Sorel (un autore che del resto conosceva bene, e che per questo specifico aspetto comprendeva).

Se tale premessa, sulla ragione soggettiva - o meglio intersoggettiva, a livello pure proletario - della prassi rivoluzionaria mancata, era vera, la vecchia linea socialista di sinistra, intransigente, ed anche bolscevica - (della negazione delle alleanze con forze democratico-borghesi accompagnata  dall'uso tattico, propagandistico, piuttosto che strategico o addirittura di governo, di elezioni e parlamento) - non poteva bastare più. Quella visuale era risultata troppo permeabile al cosiddetto «opportunismo», ossia alla tendenza a piegare sempre i principi alle contingenze facendo di necessità virtù. In ogni caso era stata già provata ed aveva mancato l'obiettivo rivoluzionario sia di fronte ai massacri della Grande guerra (ritenuta borghese) sia di fronte alla grande crisi del capitalismo, o comunque degli Stati tradizionali, verificatasi in Europa a Grande guerra conclusa. O per ragioni tattiche o per ragioni strategiche ci si doveva spingere, secondo Bordiga, sino alla negazione radicale  dell'elezionismo e del parlamentarismo. Al proposito è molto interessante, e anche divertente, l'articolo di Bordiga L'illusione elezionista, pubblicato sul suo settimanale napoletano, e di frazione, nel febbraio 1919.

Egli mette allora espressamente in discussione l'identificazione tra conquista del potere e conquista dei «pubblici poteri» con la scheda stabilita nel PSI sin dal 1892. Su quella base l'approssimarsi o allontanarsi del potere socialista era stato fatto coincidere, dice,  con i flussi elettorali del PSI. La presenza di socialisti capaci in Parlamento avrebbe dovuto mutare il sistema in senso collettivistico e rivoluzionario, introducendo gli avversari del sistema borghese nelle istituzioni. Ma per tale via la rivoluzione socialista e proletaria invece di avanzare aveva finito per diventare un pezzo da museo. E Bordiga, con il senso di un'allegra e giovanile scoperta «estremistica», notava con fine ironia:

 

Povera rivoluzione proletaria in berretto da notte e pantofole con un tantino di reumatismo e qualche dente caduto!

Il regime borghese, malgrado lo sventramento e la imbottitura di questa pericolosa polpa rivoluzionaria pronta a scoppiare e capace di mandare in frantumi la vecchia crosta, non soffriva anzi si rafforzava. I bollenti rivoluzionari nell'ambiente borghese parlamentare si ammansivano, si addomesticavano; dopo un poco di tempo l'uno di essi diveniva riformista, l'altro forcaiolo, il terzo ministro e così di seguito.

 

Perciò poneva già due punti fermi: uno era quello che poi avrebbe chiamato «schematismo dottrinario» (qui espresso con la formula: «in mancanza della realtà del potere la teoria è guida dell'azione»); l'altro era il richiamo alla necessità di fare la rivoluzione per poter costituire un nuovo Stato, espresso, qui, quando ancora Stato e rivoluzione di Lenin non era conosciuto, con le seguenti parole:

 

E' assolutamente paradossale la concezione che le attuali forme politiche che furono create dalla borghesia per la propria dominazione di classe, possano proprio esse divenire gli organi di una funzione assolutamente opposta.

Se la borghesia dovette, abbattendo il vecchio regime, creare nuove forme statali, a maggior ragione dovrà fare ciò il proletariato.

Ben più profonda è la trasformazione sociale prodotta dalla conquista del potere da parte del proletariato, che, abolendo la proprietà privata, distrugge automaticamente senz'altro la classe borghese costituita precisamente dai proprietari privati dei mezzi di produzione.

 

Perciò Bordiga, nel 1919, fonda una piccola corrente, nel PSI, detta «frazione comunista astensionista». Egli pone in alternativa, nell'anno della grande ondata elettorale a sinistra in cui il PSI triplicherà la propria rappresentanza parlamentare, «preparazione rivoluzionaria e preparazione elettorale».

Tutta l'attenzione delle masse in ebollizione, a suo dire, dovrà essere concentrata non sulle elezioni, ma sulla rivoluzione. Dapprincipio egli sperava che tale rivoluzione fosse voluta anche dalla maggioranza «massimalista» del suo partito.

Astensionismo da un lato, ed epurazione del PSI dall'ala riformista dall'altro, erano per lui i due momenti centrali della preparazione rivoluzionaria. Per ottenere il secondo risultato, ossia il «partito rivoluzionario», senza il quale non si dà o non può vincere nessuna rivoluzione, era disposto a fare un compromesso con i suoi compagni sulla questione dell'astensionismo (rinunciandovi obtorto collo). Ma l'antiparlamentarismo ossessivo restava, in ogni caso, sua convinzione di fondo.

In materia di antinomia tra parlamentarismo e la politica rivoluzionaria, si faceva pure sentire la sua classica mentalità logico-matematica, da ingegnere (qual era), come emerge, efficacemente, nella polemica con Bombacci al congresso di Bologna del PSI del 1919: sulla possibilità di demolire la casa dello Stato parlamentare dall'interno (come in realtà verrà poi fatto da destra sia da Mussolini che da Hitler). Comunque portava, in materia di rivoluzione dall'interno dello Stato parlamentare, argomentazioni degne di essere meditate. Diceva infatti:

 

Tu, permettimi compagno Bombacci, dici che andrai in parlamento per demolire la casa che già minaccia di cadere. Io completo in questo senso il tuo paragone: la casa si demolisce in due modi, o sostituendo pezzo per pezzo tutte le sue parti senza causarne il crollo disastroso, ed allora si può operare al di dentro. O facendo crollare la casa con una mina, ed allora si sta fuori per non restare sotto le macerie dopo aver posto la mina. (Applausi). Un esercito, compagni, può avere un Pietro Micca, ma guai per quell'esercito che avesse uno stato maggiore di Pietro Micca. Oh! altro che auto-evirazione, sarebbe il suicidio!

 

La polemica sul parlamentarismo ebbe un'eco molto interessante al congresso dell'Internazionale comunista del 1920: quello in cui furono formulati i documenti fondamentali del Comintern e in cui vennero stabilite le condizioni di adesione dei partiti (i famosi «ventun punti», tra i quali campeggiava la richiesta di Lenin - resa più perentoria da un emendamento fatto approvare da Bordiga col suo appoggio - dell'esclusione a termine dei riformisti da ogni partito aderente, in funzione della formazione di organizzazioni comuniste chiaramente fatte per la rivoluzione, e per la connessa dittatura del proletariato). Bordiga, alleato di Lenin su tale terreno, che proibiva ai massimalisti - diciamo alla corrente di centro dei partito socialisti - di coesistere con i riformisti e di tergiversare in materia di preparazione rivoluzionaria, si trovò invece in nettissima collisione con Lenin stesso in materia di parlamentarismo. Ciò emergeva già nel piccolo perspicuo libro di Lenin distribuito ai delegati, L'estremismo malattia infantile del comunismo  (che tanti anni dopo Bordiga si studierà di opporre al comunismo ritenuto riformista dei togliattiani). Ma emerge anche meglio nelle discussioni congressuali. Molto interessante appare, in materia, il discorso del relatore ufficiale sul problema (Bucharin), che esemplifica con efficacia le possibilità di un uso strumentale, agitatorio, rivoluzionario, dei Parlamenti, e nega l'inevitabilità di integrazione nel parlamentarismo qualora si opti tatticamente per esso. Egli enuncia una tattica parlamentare - effettivamente praticata dai bolscevichi nella Duma di Stato (il Parlamento cetuale [sic!] consentito, seppure boicottato da destra e talora da sinistra, tra il 1905 e il 1914) - che si potrebbe dire della politica-spettacolo, o dei gesti di denuncia clamorosi. Nota infatti:

 

Il compagno Bordiga sostiene l'impossibilità tecnica e materiale di utilizzare il parlamento: ma bisognerebbe dimostrarla. Che nella Duma zarista noi ci trovassimo in condizioni migliori che i nostri compagni, oggi, alla camera italiana, nessuno ha osato dirlo. Perché negare a priori che un'azione rivoluzionaria in parlamento sia possibile? Provate, prima di negarlo; provocate degli scandali, fatevi arrestare, organizzate un processo politico in grande stile. Voi non avete fatto nulla di tutto ciò (...).

La questione cardinale è lì: è la questione del partito. Se avete un partito veramente comunista, non temerete mai di mandare uno dei vostri uomini nel parlamento borghese, perché egli agirà come un rivoluzionario ha il dovere di agire. Ma se il vostro partito è un miscuglio in cui il 40% è composto da opportunisti, è certo che questi elementi si intrufoleranno nei gruppi parlamentari, dove si trovano più a loro agio (non a caso sono quasi tutti dei parlamentari), e voi non potrete assolvere i vostri compiti di comunisti rivoluzionari in parlamento.

 

E' pure importante, in proposito, tutta la discussione diretta Lenin-Bordiga. Il leader bolscevico, differentemente dal Bucharin di quel tempo, non era un «comunista di sinistra». Era piuttosto uno «scienziato della rivoluzione» o uno sperimentalista rivoluzionario, che faceva dipendere l'orientamento sui Parlamenti dal fine della conquista socialista, o comunista, del potere. Si poneva, nell'assise, come una sorte di autorevolissimo pedagogo rivoluzionario - da tutti riconosciuto come tale in quanto stratega e leader della prima grande rivoluzione socialista continentale, vittoriosa, del mondo dando sul parlamentarismo lezioni di metodo politico. Per niente intimorito dalle parole, andava ben oltre il discorso, pur da lui accreditato più volte, di un mero uso propagandistico del Parlamento (fatto lì, come si è visto, in termini abbastanza radicalizzati, da Bucharin). Diceva infatti:

 

Il compagno Bordiga (...) Non sa forse che ogni crisi rivoluzionaria è stata accompagnata in Europa da una crisi parlamentare? (...) Lo stesso mezzo che la borghesia utilizza nella lotta deve essere adoperato - s'intende per fini del tutto diversi - anche dal proletariato. Voi non potete contestare che sia così; ma se volete contestarlo, dovete prescindere dalle esperienze di tutti gli avvenimenti rivoluzionari del mondo.

 

Poi, replicando all'idea di Bordiga, che sosteneva l'uso rivoluzionario dei sindacati ma non del Parlamento (a suo dire borghese e corruttore per natura), notava:

 

Voi avete detto che anche i sindacati sono opportunisti e che anch'essi rappresentano un pericolo; ma d'altra parte avete detto che per i sindacati bisogna fare un'eccezione perché sono organizzazioni operaie.

 

Affermando ciò Bordiga voleva differenziarsi dal punto di vista comunista di sinistra libertario, di cui si è detto, spesso fautore della fondazione di sindacati puramente rivoluzionari, in alternativa a quelli esistenti. Poiché riteneva il sindacato tradeunionista in sé, Bordiga era invece orientato ad usarlo come storicamente si presentava. Ma Lenin negava che si potesse fare un discorso per il sindacato e un altro per il Parlamento: o la logica dell'intransigenza assoluta. e del connesso settarismo sterile, valeva per entrambi, o non valeva per nessuno dei due. Tutte le istituzioni erano infatti interclassiste, almeno parzialmente. Perciò Lenin, contro Bordiga, notava:

 

Anche nei sindacati vi sono elementi molto arretrati: una parte della piccola borghesia proletarizzata, degli operai arretrati e dei piccoli contadini. Tutti questi elementi pensano veramente che i loro interessi siano rappresentati nel parlamento; bisogna lottare contro questa convinzione per mezzo del lavoro nel parlamento e dimostrare con i fatti la verità alle masse. Le masse arretrate non imparano attraverso teorie, ma attraverso esperienze.

 

Nell'appendice al suo Estremismo malattia infantile del comunismo, distribuito nella stessa occasione congressuale, Lenin aggiungeva che la questione di lavorare tra elementi borghesi si poneva persino nei soviet dopo la rivoluzione, essendo anch'essi un sistema di rappresentanza, che rifletteva pure posizioni, ritenute minoritarie, niente affatto proletarie.

A questo punto del discorso già richiamato Lenin, con folgorante intuizione, metteva a nudo il tratto proprio di ogni estremismo nella storia:

 

Voi - diceva infatti - sostituite la vostra volontà rivoluzionaria alle condizioni che determinano l'orientamento politico di tutte le classi della società contemporanea.

 

E, in relazione alla necessità di utilizzare il Parlamento tatticamente, ma dando alla parola tattica un senso ben più ampio e impegnativo di quello caro alla tradizione socialista o comunista di estrema sinistra, notava:

 

Come mostrerete alle masse effettivamente arretrate e ingannate dalla borghesia il vero carattere del parlamento? Come smaschererete tale e tal'altra manovra parlamentare, la posizione di tale o tal'altro partito, se non entrate nel parlamento, se siete fuori dal parlamento? (...) Ma è possibile immaginare un'altra istituzione alla quale tutte le classi siano interessate in egual misura che al parlamento? Un'istituzione simile non può essere creata artificialmente. Se tutte le classi sono spinte a partecipare alla lotta parlamentare, vuol dire che gli interessi e i conflitti si riflettono effettivamente nel parlamento. Se fosse subito possibile organizzare dovunque e d'un tratto uno sciopero generale per abbattere di colpo il capitalismo, la rivoluzione sarebbe già avvenuta in diversi paesi. Ma bisogna tener conto dei fatti, e per ora il parlamento è ancora un'arena della lotta di classe.

 

Il giovane Bordiga, alquanto frastornato dalla nettezza del punto di vista del leader carismatico indiscusso del comunismo mondiale, incassò il colpo, anche per tesaurizzare l'assenso manifestatosi in materia di rottura con i riformisti e di connessa fondazione di un partito comunista di sinistra in Italia. In modo telegrafico, a livello di dichiarazione di voto, fece però due affermazioni importanti.

 

L'argomento che bisogna risolvere il problema pratico di un'azione parlamentare comunista sottoposta alla disciplina del partito, perché anche in periodo post-rivoluzionario dovremo organizzare e utilizzare ai nostri fini un materiale umano tratto dagli ambienti borghesi e piccolo-borghesi, questo argomento potrebb'essere invocato anche per giustificare l'utilità di avere dei ministri socialisti in regime di dominazione borghese.

 

Era perfettamente vero, con grande scandalo di uno come lui e dei suoi, che venivano da una «sinistra intransigente» italiana che da sempre aveva identificato l'essere rivoluzionari con il non fare alleanze, blocchi elettorali, né tanto meno governi, con gruppi democratico-borghesi. Era comunque così vero che sin dal congresso dell' Internazionale comunista del 1922, sempre tatticisticamente, ciò fu ammesso. Si parlò allora, nelle deliberazioni congressuali, di una politica per il «governo operaio», che poteva essere ora sinonimo di dittatura del proletariato, ora di partecipazione persino dall'esterno a governi amici capaci di preparare la crisi risolutiva dello Stato, in vista della dittatura del proletariato. Era un latino incomprensibile per intransigenti, massimalisti ed estremisti di ogni ordine e grado, ma inevitabile per chi concepisse la politica in termini decisionistici e di movimento, sia pure al fine di costituire uno Stato nuovo. Bordiga inoltre disse:

 

(...) Io mi limito a dichiarare che conservo le mie opinioni sulla questione che ci occupa. Sono più che mai convinto che l'Internazionale Comunista non riuscirà a concretare un'azione che sia nello stesso tempo parlamentare e veramente rivoluzionaria.

 

E anche questo, almeno in parte, era vero, ma anche inevitabile, malgrado il dottrinarismo di Bordiga.

Il centralismo democratico, il monolitismo rivoluzionario, la necessità di aderire alle mozioni congressuali di maggioranza e di farle proprie, obbligavano Bordiga a rinunciare, pubblicamente, al proprio astensionismo (tanto più che egli, come si è visto, in quel congresso dell'Internazionale Comunista del 1920 aveva vinto sul terreno fondamentale per la sua linea: quello che rendeva inevitabile la nascita del PCd'I in quanto imponeva, ai partiti aderenti che non lo avessero ancora fatto, l'esclusione dei riformisti attraverso un congresso straordinario).

Bordiga non poteva più riproporre l'astensionismo, ma la sua piccola corrente, rigidamente organizzata del '19, era proprio perciò in grado di attrarre a sé, o comunque di egemonizzare, tutti quelli che nel PSI erano favorevoli alla rottura con i riformisti: dal gruppo dell' «Ordine Nuovo» di Gramsci all'ala massimalista di sinistra di Gennari e Bombacci, sino ai socialcomunisti di Marabini e Graziadei.

E' tuttavia interessante notare che proprio nella vasta orazione che Bordiga pronuncerà al congresso di Livorno del PSI del gennaio 1921 per giustificare la scissione comunista. la questione della negazione del parlamentarismo risulterà centrale (anche senza la pregiudiziale astensionista).

Egli si studia allora di spiegare, in termini per l'ultima volta fraterni verso tutti i suoi antichi compagni, la ragione dello scacco del socialismo internazionale di fronte alla Grande guerra: negata dai socialisti del mondo quando non c'era e generalmente accettata quando si era manifestata davvero. Rapporta tale opzione per la guerra nazionale piuttosto che per la rivoluzione sociale alla graduale parlamentarizzazione del movimento socialista internazionale, parlamentarizzazione che agiva proprio in senso anti-ciclico, come elemento di superamento piuttosto che di scatenamento e strumentalizzazione della crisi del capitalismo. Notava infatti, davvero con accenti da «marxista occidentale»:

 

Sì, il capitalismo attraverso all'analisi che noi marxisti ne facevamo appariva destinato a soccombere: lo sviluppo di certe sue intime contraddizioni appariva destinato a rimanere incapace di rappresentare più oltre un certo punto il sistema possibile di produzione di cui l'umanità poteva avvalersi. Ma nello stesso tempo il capitalismo e la società borghese elaboravano nel proprio seno degli elementi di conservazione, degli elementi di equilibrio alle condizioni della loro crisi, delle anti-tossine che ogni organismo elabora per combattere le tossine che ne minano l'esistenza.

 

A tale scopo, dice  Bordiga con un ragionamento che, certo suo malgrado, ricorda persino il Marcuse de L'uomo a una dimensione, «si era fatto diventare il movimento proletario un coefficiente di equilibrio e di conservazione del regime borghese». E ciò sarebbe stato possibile grazie a opzioni, sollecitate dalla volontà di conquistare spazi sociali e politici nel sistema, così enunciate:

 

(...) abbandonandosi da un lato - e i due fatti sono insopprimibili - nel campo dottrinario la critica fondamentale delle ideologie democratico-borghesi, che è il punto di partenza del marxismo, dall'altra parte non si veniva più a creare l'antitesi fra il proletariato gerente di nuove ideologie, di nuove forze e di nuovi sistemi, di nuovi istituti, e tutto il meccanismo democratico proprio del sistema capitalistico: al posto di questa fondamentale antitesi rivoluzionaria  veniva a sostituirsi una contradicenza, un comparteggiamento fra il principio ideologico e il sistema rappresentativo della democrazia borghese, e la funzione del movimento proletario, inteso non ancora come lo slancio supremo e autoritario della classe verso il suo destino, ma come i piccoli tentativi di gruppi, di gruppetti e di categorie di impossessarsi di limitati interessi.

 

Per l'occasione il giovane leader del nascente PCd'I faceva quindi una vera analisi storico-teorica volta a dimostrare che il parlamentarismo si basa su una logica del compromesso, che da tattico si fa strategico, che sostituisce la logica degli scontri parziali in vista dello scontro finale (sul terreno della lotta quotidiana sindacale come istituzionale, nel rapporto tra operai e padroni come nella vita «democratica» dello Stato). Diceva infatti:

 

Il campo sindacale da una parte, il campo parlamentare dall'altra erano i guidatori del meccanismo congegnato per raggiungere quell'effetto, per dare al proletariato quelle piccole soddisfazioni e quei piccoli miglioramenti e per arrivare a questo risultato avevano inevitabilmente dovuto poggiare la loro macchina in modo tale da essere in continuo contatto, in continua discussione, in continua transazione con la borghesia, in accordi continui nel campo sindacale che tendevano sempre più a incanalarsi nella via della collaborazione politica, del possibilismo, di accordo nell'amministrazione stessa della pubblica cosa e nell'intervento stesso dei rappresentanti del proletariato nel meccanismo del potere governamentale borghese. ecco perché non fu possibile nel 1914 arrestare questa macchina (...) e quindi il Partito socialista e le Organizzazioni proletarie delle più grandi parti del mondo divennero i migliori strumenti che  il capitalismo avesse potuto immaginare e desiderare per condurre le folle proletarie, senza resistere, al sacrificio della guerra nazionale.

 

Il ragionamento è anche convincente: più di quello economicistico, e infatti perdente in Occidente, prospettato da Lenin, e già richiamato per spiegare la mancata guerra nel '14-18 e la mancata rivoluzione nel dopoguerra in Europa occidentale. E tuttavia è un ragionamento pervaso da una tale idea della potenza universale della democrazia borghese, sul terreno sociale e istituzionale, da convertirsi in una sorta di dimostrazione della sua invincibilità. Tale invincibilità condanna il nemico del compromesso permanente, che vige a livello sindacale e parlamentare, alla ricerca di un terreno che stia al di là di tutto ciò: terreno che almeno in tempi in cui non sia all'ordine del giorno uno scontro armato spontaneo tra le classi, si risolve in un isolamento catacombale che può interessare il settario e l'utopista per elezione, ma che certamente non può interessare i rappresentanti veri di qualsivoglia grande classe sociale. Questi anzi, possono persino trarre dal ragionamento di Bordiga conclusioni riformistiche, prendendo atto del carattere storicamente determinato della logica del compromesso sociale. In tal caso, tuttavia, debbono pure interiorizzare le ragioni che condussero le socialdemocrazie a optare per le grandi guerre e a non fare le rivoluzioni.. Debbono cioè comprendere le ragioni del «social-patriottismo», anche se non accettarle necessariamente.

In un modo o nell'altro pare insomma che si ponga, a Occidente, un'alternativa secca tra settarismo e logica del compromesso sociale-politico, per tutte le classi, partiti e movimenti in lotta. La prima logica - quella del settarismo - testimonia per le rivoluzioni, ma non le prepara e non le guida; la seconda logica - riformista - volendolo o non volendolo le esclude.

Il carattere antinomico della scelta per il riformismo o per la rivoluzione è ben compreso e spiegato da Bordiga. Quello che egli non riesce a dimostrare è l'efficacia storica dell'essere settari. Poiché detesta democrazia «borghese», compromesso sociale, socialdemocrazia e riformismo non meno di quanto deplori capitalismo detto di Stato, burocratismo, stalinismo e comunismo coevo, e persino fascismo (anzi di più), Bordiga è costretto a scegliere una tragica solitudine politica ed esistenziale per la quale la storia, anche successiva, non ha avuto nessuna pietà.

 

 

Questo scritto è tratto da:

"La rappresentanza politica in Europa tra le due guerre" (a cura di Carlo Carini), Centro Editoriale Toscano, 1995, pp 307 - 326.