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archivio > Articoli su Bordiga>Crescenzo Guarino, Ricordo di Amadeo Bordiga (prima parte)

aggiornato al: 13/11/2007

Roma, 11 agosto 1970

Come avevamo annunciato, presentiamo la prima parte dello scritto di Crescenzo Guarino «Ricordo di Amadeo Bordiga» apparso sul quotidiano «Roma» l'11 agosto 1970.

 

 

Ricordo di Amadeo Bordiga

Nessuno previde meglio il fallimento del comunismo come ideologia universale

Fu nella pittorica “repubblica di Portici” che conobbe un artista esule dalla Russia zarista: quell’incontro accese nel giovane ribelle la passione politica che poi non lo avrebbe più lasciato per l’intera vita

La scomparsa di Amadeo Bordiga sarà un giorno ritenuta fra gli avvenimenti più importanti dell’estate 1970. Più della ennesima crisi del governo italiano confermante non solo la morte di una formula (il “centro-sinistra”), morte avvenuta in realtà da tempo, ma l’incapacità ormai a livello clinico della classe politica italiana di trarre, da quel cadavere, l’unica diagnosi valida. Perfino il dramma degli italiani espulsi dalla Libia è un fatto meno importante della morte di Amadeo Bordiga. Perché egli non era l’ombra di un lontano passato. Ucciso Trotkzy per ordine di Stalin, Bordiga era, come ben sanno i cremlinologi, un personaggio di statura internazionale, rappresentando la più antica accusa vivente al comunismo nell’attuale sua forma.

 

Un accusatore inflessibile

La mai sopita polemica con l’indice sempre teso di Bordiga provava più di mezzo secolo dopo – in base alla sua visione romantica – il pieno fallimento del comunismo sovietico quale ideologia universale profondamente innovatrice. A che vale uccidere uno zar per sostituirlo con un altro che poi non ha neanche lo stile dei monarchi di antica tradizione? Che sono i delitti della polizia dello zar rispetto a quelli di Stalin? Che quei delitti avessero cosi profondamente trasformato la società russa facendone sul piano della potenza e dell’evoluzione tecnico-scientifica il secondo paese del mondo, in un tempo in fondo brevissimo (appena mezzo secolo) con una ramificazione all’estero del comunismo da preoccupare chiunque, questo gli sfuggiva. Ma dell’uomo politico (se veramente si può dare questa qualifica ad uomo tanto lontano dalla capacita di valutare i fatti) altri ha già scritto e scriverà. Un capo che conobbe i massimi esponenti del comunismo – Lenin, Trotzky, Stalin, Kamenev, Zinoviev – e non certo cosi, per caso, superficialmente, ma per lunga ed intensa consuetudine, dando del comunismo una interpretazione tutt’oggi affatto esaurita (come provano nella stessa area slava le numerose ribellioni alla linea ufficiale del Cremlino, cioè al duro tallone sovietico), è tale figura da meritare comunque una poderosa biografia.

 

Perché a Formia

Ci sia concesso invece, quale omaggio spirituale alla dirittura morale di Amadeo Bordiga (pur nel netto ed insanabile contrasto delle idee), un altro ricordo di lui, più familiare. Come apparve a molti di noi che lo conoscemmo nella sua Napoli.

Si è detto che le sue foto erano “rare” e difficile parlare con lui. Può darsi. Ma chi scrive scelse un terreno indiretto su cui era ben possibile ed anzi facile l’incontro: quello dei problemi urbanistici di Napoli. Infatti Amadeo Bordiga è stato per anni presidente del Consiglio dell’Ordine degli ingegneri ed era molto agevole avere colloqui con lui recandosi al vicolo Satriano dove appunto stava, fino a pochi anni fa, la sede professionale della categoria.

Dall’estate del ’67 Amadeo Bordiga si era allontanato da Napoli stabilendosi ad Acquatraversa, oggi frazione di Formia, in piena campagna dove talvolta, nonostante la sua diffidenza nel parlare di politica anche con persone che conosceva, riceveva qualche vecchio amico interrompendo quelle che – come diceva scherzando – erano le sue due uniche occupazioni: allevare polli e coltivare pomodori e lattughe. La scelta della campagna di Formia non era un caso avendovi la prima e la seconda sua moglie (le sorelle de Meo) conoscenze e parentele.

Bordiga era nato a Resina (oggi Ercolano) il 13 giugno 1889. Il padre Oreste vi risiedeva perché Resina è vicinissima a Portici dove egli insegnava dal 1884 estimo ed economia nell’istituto superiore di agricoltura, poi divenuto una delle facoltà universitarie. La sorella di Amadeo, Amalia – elegante scrittrice – ci raccontò una volta alcuni episodi dell’infanzia e giovinezza dell’ingegnere, “il rivoluzionario”, come lo chiamavano gli operai fra cui era rimasto molto popolare.

 

Suor Filomena

A tre anni Amadeo cominciò a frequentare l’asilo delle Figlie della carità di Portici dove allora, non essendo ancora divenuto l’inglese la lingua più importante, secondo la consuetudine della congregazione fondata da San Vincenzo de’ Paoli e Santa Luisa de Marillac, vi erano numerose suore francesi mandate in Italia proprio perché da esse la gioventù apprendesse la purezza dell’accento. Fu cosi che egli, dotato di un talento particolare per le lingue, parlava già speditamente il francese quando si iscrisse al ginnasio. E completò il ginnasio in soli tre anni. Una religiosa delle figlie della Carità (la signora Amalia ne ricordava il solo  nome, suor “Philomene”) ebbe sempre carissimo quel bimbo precoce già suo allievo e continuò ad interessarsi di lui anche molto dopo che aveva lasciato l’asilo. A sedici anni Amadeo era all’università. Sin da bambino amò gli esercizi fisici violenti. Una volta i bufali dell’istituto zoologico sperimentale ruppero gli steccati ed avanzarono al galoppo, a muso basso, per il vialone centrale della reggia di Portici, dove era ed è allogata la celebre scuola agraria. Incurante del pericolo li affrontò da solo con grida energiche e mulinelli di bastone, riuscendo a spaventarli e a farli ritornare indietro. Fondò il “tennis corda fratres” di Portici, organizzando inoltre campionati di nuoto, di remi e dello sport che ha praticato fino a tarda età, il ciclismo. Una volta lasciò allibiti i suoi stessi compagni: si fece legare ad una fune e si calò in fondo al cratere del Vesuvio, durante una pausa dell’attività eruttiva che, riprendendo improvvisa, poteva sorprenderlo ed incenerirlo.

Resina all’inizio del secolo era anche centro di un cenacolo di pittori nella cui scia erano venuti molti artisti russi. In Questa era Napoli (Morano editore), di Carlo Siviero, il più bel libro scritto finora sulla vita artistica della capitale di un tempo nell’Ottocento e nei primi tre decenni del Novecento, vi è un capitolo, il XVI (“Massimo Gorki a Capri – Studenti russi – Il 35 di Favelloni – Il mistero di via Frattina”) dove si parla di quegli emigrati. “I russi, a Napoli , non venivano per diporto: perseguitati dall’ultimo pogrom del 1905 erano scampati alla cattura per vie romanzesche, dopo aver saggiato le galere patrie , le segregazioni, le deportazioni sotto i cieli della Siberia”. Siviero ricorda anche che essi, appena gustato il succo delle nostre vigne, cominciarono a preferire “il Cirò, trasparente come il rubino e il Gragnano vellutato, all’oro vecchio della bevanda nazionale slava”. Fu da uno di questi scrittori russi, in esilio per sfuggire la polizia zarista, che il giovane venne iniziato alla politica, rimanendone contagiato per sempre.

Crescenzo Guarino

 

«Roma» 11 agosto 1970