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archivio > Articoli su Bordiga>Renato Mieli, Bordiga il dogmatico (Il Giornale, 21 marzo 1975)

aggiornato al: 02/06/2011

Il Giornale, 21 marzo 1975

Questo articolo, che è una recensione al libro Russia e rivoluzione nella teoria marxista pubblicato dalla casa editrice  Il Formichiere nel 1975 (con prefazione di Giorgio Galli che riproporremo fra non molto nel sito), era accompagnato da una "manchette" in cui era scritto «analisi e previsioni del profeta inascoltato» è opera di Renato Mieli (1912 - 1991) padre del tuttora in attività Paolo Mieli.

Al di là dei luoghi comuni riferiti a Bordiga che lo pervadono ("visione schematica", "marxismo scolastico") l'articolo rappresenta una documentazione che può anche essere letta in modo piacevole.

 

 

Bordiga il dogmatico

 

Del suo  fondatore il Pci preferisce parlare il meno possibile per una ragione evidente; perché sarebbe imbarazzante nominarlo senza ricordare, al tempo stesso, che egli venne espulso dal partito, alcuni anni dopo la fondazione. Ma non è questa la sola ragione, Ve n'è un'altra, forse più sottile; ed è che sarebbe difficile spiegare, oggi, come mai Amadeo Bordiga riuscì ad imporsi allora agli altri dirigenti comunisti, dominando uomini di statura intellettuale superiore, come Gramsci e Togliatti.

 

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Che fosse un capo carismatico lo riconoscono, più o meno, tutti. Aveva poche idee, ma indubbiamente una grande carica di volontà ed un forte ascendente personale sul gruppo che si staccò dal Partito socialista per fondare quello comunista al Congresso di Livorno del 1921. Tuttavia la sua visione schematica della realtà politica, interpretata secondo i canoni di un marxismo scolastico, avrebbe dovuto suscitare un naturale rigetto da parte dei giovani intellettuali che gli furono vicini. Invece, quel primitivismo, che alcuni anni dopo essi condannarono, sembrava fatto apposta allora per piacere proprio a loro.

Quell'estremismo infantile, verboso e inconcludente, li eccitava, li faceva sentire rivoluzionari (anziché visionari, quali erano). Passato però il momento dell'ebbrezza, quando si accorsero che il sogno era finito, scoprirono finalmente che Bordiga non era altro che un dottrinario, incapace di cogliere ciò che poteva esservi di vivo nel mondo reale, e lo sconfessarono. Ma era ormai troppo tardi per porre riparo agli errori che, sotto la sua guida, erano stati compiuti: il fascismo era già alle porte e di lì a poco avrebbe definitivamente chiuso ogni discorso.

Oggi le riflessioni di Bordiga sulla Russia e rivoluzione nella teoria marxista ci appaiono un cimelio storico tanto sono lontane, anche nel linguaggio, dai nostri tempi. Eppure questo libro, di non facile lettura anche se poco voluminoso, non è poi tanto vecchio. Infatti è una ristampa di un suo scritto del 1954. Ma, costruito come è, in chiave di interpretazione deterministica della storia, che riduce tutti gli sconvolgimenti della nostra tempestosa epoca a non essere niente altro che le conseguenze inevitabili dei nostri modi di produzione, ci sembra irreparabilmente invecchiato fin dalla nascita. E, leggendolo, si finisce col capire, in fondo, coloro che dopo pochi anni non lo vollero più alla testa del Partito comunista.

La sua preoccupazione, infatti, ripensando a tutto ciò che è accaduto nell'Unione Sovietica, non è di spiegarsi come mai quel socialismo sia risultato, alla prova dei fatti, una negazione degli ideali con cui era stato concepito, bensì di dimostrare che tutto era andato esattamente come aveva detto e scritto Marx. Francamente, tanta devozione ai testi sarà anche commovente, ma non è certo illuminante.

 

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Nonostante ciò, Bordiga, sia pure attraverso le lenti di Marx, riesce a vedere la Unione Sovietica con maggiore chiarezza degli altri dirigenti comunisti della sua epoca. Egli riscopre, infatti, una parte della teoria marxista che, dopo la Rivoluzione russa del 1917, era stata cautamente dimenticata ed ignorata per risparmiare al movimento comunista, facente capo a Mosca, ulteriori turbamenti e complicazioni: le tesi cioè che Marx ed Engels svilupparono sul "modo di produzione asiatico", ben diverso e nettamente distinto da quello del capitalismo occidentale. In polemica con i populisti, i quali sostenevano che in Russia sarebbe stato possibile instaurare una società socialista, senza passare preliminarmente per uno stadio capitalistico, i marxisti ortodossi e lo stesso Lenin prima della Rivoluzione affermarono con vigore il contrario. E Bordiga, allineandosi ad essi, anticipa di qualche anno in queste sue riflessioni la conclusione a cui arriverà Wittfogel nella sua approfondita analisi storica e sociologica del "dispotismo orientale".

Egli si accorge, infatti, che la Russia è sempre stata nei secoli, un paese costituito da una miriade di comunità contadine, ad economia di sussistenza, sparse su un immenso territorio e sottoposte ad un potere centrale autoritario di tipo militare. «Un tale completo isolamento dei piccoli comuni l'uno dall'altro, che è uguale in tutto il Paese, ma che è contrario al comune interesse», egli dice, citando Engels, «è la base naturale del dispotismo orientale e dalle Indie fino alla Russia questa forma di società, dove ha dominato, lo ha sempre prodotto e ha sempre trovato in lui il proprio completamento».

 

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Così ragionando, Bordiga vede una perfetta continuità nella storia russa dallo zarismo allo stalinismo. Non vi è stata, né poteva esservi, con la Rivoluzione d'Ottobre, una rottura di tale continuità. Perché ciò potesse avvenire sarebbero state necessarie, a suo giudizio, non una, ma almeno due rivoluzioni. La prima per trasformare la struttura della società russa in modo da farla diventare una società basata sul salariato nelle città e nelle campagne; e la seconda per passare da questa società, così trasformata, ad un'altra di tipo socialista. Se si è creduto di poter abbreviare i tempi, con la scorciatoia di un passaggio diretto da ciò che restava delle comunità rurali tradizionali ad una forma di socialismo agrario poco ortodosso, si è sbagliato grossolanamente. Quel "socialismo" di cui Stalin è stato l'artefice, altro non sarebbe, per lui, che una forma di comunismo primitivo. Su questo Bordiga non ha dubbi. «La dottrina che da essa possa partire un tipo di rivoluzione sociale che prescinda dal proletariato industriale e dal salariato rurale», egli scrive, ragionando con un suo consueto rigore deterministico, «e quindi da uno svolgimento capitalista, che sarebbe così saltato, ha questa risposta: NO, se i contadini russi devono fare questa rivoluzione da soli, FORSE se si verifica la rivoluzione PROLETARIA nell'Occidente capitalistico, contemporaneamente o immediatamente successiva all'abbattimento dello zarismo. Questa è la sola ipotesi per la quale possa evitarsi che allo zarismo succeda in Russia un potere borghese capitalistico».

Ora, poiché non vi è stata, né allora né dopo, la rivoluzione proletaria in Occidente, la conclusione di Bordiga è perentoria: nell'Unione Sovietica si è instaurato non un sistema socialista, bensì una forma di capitalismo di Stato. Quindi la rivoluzione, prevista da Marx, resta ancora da fare.

Dopo di che è superfluo chiedersi quale sia stato il seguito di questa critica di un dottrinario marxista incorreggibile. E come poteva finire? Con la sua estromissione dal movimento comunista di ispirazione sovietica: non c'era altra soluzione.

 

Renato Mieli

 

Il Giornale, 21 marzo 1975