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archivio > Articoli su Bordiga>Geminello Alvi: Bordiga, una vita da settario contento di esserlo

aggiornato al: 12/09/2007

Il Corriere della sera, 12.10.2003

Inauguriamo questa sezione che riguarda articoli su Amadeo Bordiga apparsi sulla stampa periodica (quotidiani ed altro) con questo bello scritto di Geminello Alvi, apparso su il Corriere della Sera del 12 ottobre 2003.

Bordiga, una vita da settario contento di esserlo

A nessun altro riesce così bene come a certi italiani d'essere settari e al contempo astratti, ovvero irreali, snervanti e però simpatici come fu Amadeo Bordiga che nacque il 13  giugno 1889. Figlio di un insegnante piemontese alla scuola agraria di Portici, si sdegnò subito: Napoli gli parve «fetida metropoli». Ne incolpò con qualche ragione, perchè di ragioni c'è in Italia sempre abbondanza, le clientele massoniche per cui i socialisti anche al Sud erano evoluti in rapaci arpie. E intanto dedicò ai teoremi di Marx la stessa devozione che aveva per l'equazioni differenziali. Ovviamente nel '14 al congresso d'Ancona fu per espellere i massoni e si sentì in simpatia con Mussolini, tra l'altro reciproca. Ma l'anno dopo se ne disgustò e scelse una posizione che «coincideva con quanto Lenin definì disfattismo e negazione della difesa della patria...» Coerente si felicitò per Caporetto. A trent'anni si ritrovò dunque perfetto per divenire capo della frazione astensionista del Psi e si ridisse per la rivoluzione: «La tesi centrale della nostra frazione non era l'astensionismo ma era invece la scissione del partito» L'occupazione delle fabbriche nel dopoguerra, voluta a Torino da Gramsci e gli altri, gli parve troppo poco, comunque un gesto non marxista ma idealista. Dovevano occupare questure e prefetture, non industrie; e infatti Giolitti non assecondò gli industriali che volevano sgombrarle. L'esperimento morì nel ridicolo proprio come Bordiga aveva previsto. Al congresso di Livorno fu quindi molto fiero di aver lui letto la irrevocabile dichiarazione che decise la scissione del partito socialista. Ma vide Gramsci camminare su e giù contorcendosi le mani dietro la schiena indeciso nel retro di quel teatro San Marco dove si fondava il partito comunista il 21 gennaio 1921. Finì male. Il settarismo di Bordiga talora era però pratico: fu per il ritorno dei deputati comunisti dall'Aventino. Inoltre, con perspicacia, si accorse che la formula del socialismo nella sola Russia era una rovinosa follia. Così rifiutò recisamente la vicepresidenza dell'Internazionale comunista che Zinoviev gli offerse. Era chiaro che sarebbe stato rimosso da Stalin e che il sistema in Russia stava evolvendo verso un dispotismo, ma non marxista. S'accorse inoltre di come Gramsci fosse bravo a inventare dottrine per plagiare la borghesia italiana, non per esautorarla. Eppure fu suo amico, era un settario italiano, commosso dai sorrisi che illuminavano gli occhi azzurri del sardo. Con lui finì confinato ad Ustica, a dissentire fermamente ma con garbo, oziando. Non si sorprese che i fascisti gli saccheggiassero la casa. Nel '26 al congresso di Lione, malgrado un intervento di sette ore, fu battuto dalla corrente di Togliatti in una assai dubbia consultazione. Il fondato ricorso di Bordiga all'Internazionale non fu preso in considerazione: a Stalin per dirigere il partito servivano gesuiti obbedienti. Nel 1930, finito il confino, apprese dai giornali d'essere stato espulso dall'Internazionale.
Così per provvedere a sé, e ai suoi, dovette tornare a fare l'ingegnere. Sorvegliato di polizia, ma senza avversioni, perchè giudicava che il socialismo scientifico non concedesse alcun rammarico o altro personalismo. Dalla lettura di Marx dedusse anche che il partito comunista non era più tale: che oramai la sinistra e la destra erano due frazioni borghesi. Nel secondo dopoguerra la calunnia e le prepotenze del Pci evitarono ogni influenza ai suoi seguaci, che del resto erano come Bordiga. E pensavano alla rivoluzione come a una reazione chimica da attendere e che non poteva essere forzata. Napoletanamente e con una prosa enfatica Bordiga deprecava di vedere e sentire «il nome di Marx e di Lenin e le loro tesi possenti, sulle labbra di quelli che ne hanno fatto inaudito scempio». E riconobbe non solo le arpie del Pci ma anche quelle del consumismo. «Il ciclo del capitalismo ha condotto al mostruoso volume di una produzione per nove decimi inutile alla sana vita della specie umana. Ha determinato una sovrastruttura dottrinale che richiama la posizione di Malthus invocando, a costo di chiederli alle forze infernali, consumatori che inghiottano senza posa quanto la produzione erutta». Era abbastanza per piacere agli studenti che però non piacevano a lui. Scrisse: «Propugnare in questo putrescente 1968 l'autonomia di un movimento studentesco non è che una prova ulteriore di quanto affondi nelle sabbie mobili del tradimento e della bestemmia il falso comunismo dei successori di Stalin» Riconobbe nei leader sessantottini le identiche arpie di cui da ottant'anni biasimava gli atti. Ma era marxista e quindi poco badò ad Ariosto che invece aveva capito già prima tutto: «Oh famelice, inique e fiere arpie ch'all'accecata Italia e d'error piena, per punir forse antique colpe rie, in ogni mensa alto giudicio mena». Orlando Furioso XXXIV, 1-4. E invece ribadì: «Attendo, in posizione sempre cocciuta e settaria che entro il '75 giunga nel mondo la nostra rivoluzione, plurinazionale, monopartitica e monoclassista». Morì in attesa, il 23 luglio 1970, ma ammise: «Se fosse cosa attendibile che io dia un giudizio storico sulle mie stesse qualità e qualificazioni, dichiarerei che trovo gradita la definizione di settario...»

Geminello Alvi