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archivio > Lettere di Bordiga>26. Articoli di "Prometeo" sulla guerra di Spagna (Prometeo, n. 145, 30 maggio 1937)

aggiornato al: 08/04/2010

Prometeo, n. 145, 30 maggio 1937

Nel precedente inserimento (n. 25) che riguardava gli scritti di Prometeo sulla guerra di Spagna e in cui si riportavano sempre articoli tratti dal n 145 (30 maggio 1937),  in una nota si parlava della morte di Gramsci e di Berneri; ora su di loro compaiono  due scritti più meditati.

Ambedue questi articoli  sono poco noti ma ambedue validi e degni di interesse.

L'ultimo articolo è dedicato all' "ordine" che regna a Barcellona, l'ordine dei cimiteri e della controrivoluzione trionfante con il repulisti fatto dallo stalinismo nei riguardi dei comunisti di opposizione, di trotzkisti ed anarchici.

 

 

26

 

 

Il martirologio proletario.

 

 

Antonio Gramsci

 

Morto, assassinato dal fascismo, a Gramsci tocca, come è stato il caso per tanti altri, di essere una seconda volta ammazzato coi commenti dei suoi apologisti. La stampa centrista e di Fronte Popolare - dal «Grido del Popolo» al «Nuovo Avanti», e «Giustizia e Libertà» - si è gettata sul cadavere di Gramsci speculando, snaturando, svisando, ai fini della loro funzione controrivoluzionaria, il suo pensiero e la sua opera.

Abbiamo già espresso il nostro giudizio su Gramsci, anni or sono, quando il centrismo inscenò una campagna per la liberazione del «capo» del proletariato italiano, campagna che doveva languire in seguito quando fu palese che Gramsci era stato salvato dalla galera, dalla ignominia finale in cui era degenerata quella corrente di cui era stato l'ispiratore massimo fino a quando, caduto prigioniero del nemico di classe, doveva lentamente, dopo undici anni di torture fisiche e morali inaudite, spegnersi in una clinica dove era stato trasportato quando i suoi giorni erano ormai contati. Non abbiamo nulla da modificare. Sostenemmo allora e lo sosteniamo oggi, che l'unica forma proletaria di commemorar gli scomparsi, gli è di denunciare anche gli errori e le colpe, la parte negativa e caduca della loro opera, acciocché questa non debba offuscar la parte vivida e duratura della loro azione che diviene parte integrante del patrimonio del proletariato per le sue lotte emancipatrici del domani. E a Gramsci colpe, incomprensioni, debolezze non sono mancate. E per la sua stessa origine sociale e per l'epoca in cui si è inserito nel movimento operaio italiano.

Intellettuale - aveva studiato filosofia a Torino - subì l'influenza culturale di quella filosofia idealistica che doveva portare Gobetti, suo fratello spirituale e altra vittima del fascismo, verso l'utopia di un liberalismo rinnovato e rivoluzionario.

Politicamente fu influenzato ai primordi, come tanti altri, dal revisionismo di Salvemini che vedeva il superamento della crisi socialista nella soluzione del problema meridionale. E Gramsci, sardo di nascita, fu fautore di un federalismo che propugnò anche nelle file del partito.

Appartenente a quella generazione che venne al movimento traverso la guerra - Gramsci fu in un primo tempo interventista come lo riesuma Tasca lanciando la freccia del Parto - ma poi scosso dalla rivoluzione di Ottobre, di cui del resto all'inizio neppur lui comprese il significato, cercò legarsi più intimamente alla classe lavoratrice, ciò che gli fu facile in quella Torino che era la vera capitale proletaria d'Italia.

Ma capo del proletariato italiano non lo fu mai, né lo sarebbe potuto diventare. Anche per le sue condizioni fisiche che non mancavano di ripercuotersi sulla volontà e la decisione, doti indispensabili per un capo. E vediamo infatti subir dal 1921 al 1923 la influenza della personalità di Bordiga, dal 1923 al 1926 l'influenza dei dirigenti della I.C. «dopo Lenin».

Capo per noi è chi esprime, in una data fase storica, le aspirazioni e gli interessi della classe operaia. Bordiga fu il «capo» del proletariato italiano del dopo guerra unicamente perché seppe, per primo, affermar la necessità del partito di classe per condurre il proletariato alla vittoria.

«Capo» per i comunisti significa una funzione in una data tappa della lotta emancipatrice del proletariato, non un grado acquisito a vita. E il «capo» della rivoluzione italiana potrà anche non essere Bordiga. Ma questi lo fu nel 1919-1923 e non Gramsci, che anche più tardi, nel 1924, doveva al momento della crisi Matteotti, prendere di  nuovo una posizione non corrispondente all'imperativo dell'ora col suo «Antiparlamento».

Così Torino, centro obiettivamente il più favorevole, - e dove la maggioranza della sezione era con noi, cogli «astensionisti» - non facilitò a Gramsci la concezione della necessità del partito di classe, cui non doveva pervenire che alla metà del 1920, mentre Bordiga a Napoli, centro obiettivamente il più sfavorevole, vi era arrivato dai primordi del 1919. Ritardo che fu fatale per la rivoluzione in Italia.

Una volta fondato nel 1921 il P.C. Gramsci, come abbiamo detto, fu con Bordiga né si associò alla opposizione, del resto larvata, dei Bombacci o dei Tasca.

Fu solo più tardi, alla fine 1923 e primi 1924, che a Mosca, Gramsci fu l'artefice magno del centrismo italiano che facendo blocco colla destra, pure partorita a Mosca, del Tasca doveva dare al partito italiano, mentre i suoi fondatori erano in galera, quella orientazione che doveva farne una delle pedine della controrivoluzione in atto.

E Togliatti «che non si decide come è un po' sempre nella sua abitudine» come Gramsci stesso lo ha caratterizzato, si decideva questa volta a diventar il «capo» dei nuovi traditori dopochè i Gramsci, i Terracini, gli Scoccimarro erano caduti nelle grinfie del fascismo.

E ciò ce lo spieghiamo. Non per nulla Grieco «vice capo» ha scritto nello «Stato Operaio» a proposito di Togliatti «che l'avversione a Bordiga e al bordighismo è stata sempre profonda, direi quasi fisica». L'avversione al «bordighismo», cioè alla lotta classista del proletariato.

E non esitiamo affermare che Gramsci avrebbe forse saputo, con un riconoscimento in pieno degli errori del passato, unica forma di riabilitazione proletaria, colla quale per esempio Serrati seppe riscattarsi dalle colpe del 1920, ricongiungersi al proletariato rivoluzionario. La lettera del gennaio 1924, che cita Tasca, non contiene la confessione dell'errore che fece nel 1919-20 il gruppo dell' «Ordine Nuovo» di non propugnare quella creazione immediata del partito di classe, che noi, gli astensionisti, prospettavamo dal 1919, quegli «astensionisti» di cui si dimentica troppo spesso questa posizione fondamentale sottolineando invece la tattica contingentale dell'astensionismo elettorale?

E nell'altra lettera che nell'ottobre 1926 Gramsci indirizzava alla I.C. non si contengono critiche alla politica del centrismo che stava iniziando la  «campagna» antitrozchista. Critiche, le uniche, che furono a farle i centristi italiani della prima ora i Gramsci, i Terrracini, gli Scoccimarro, mentre toccava solo agli epigoni i Togliatti, i Grieco, i Di Vittorio di prostituirsi davanti al pilota del tradimento.

Nell'ottobre Gramsci veniva arrestato e l'anno dopo condannato a 20 anni. Il calvario si iniziava.

Per concludere, per quanto gravi siano stati gli errori del passato, Gramsci li ha riscattati e a iosa, col suo lento martirio di undici anni. E Tasca, che nelle colonne di «Giustizia e Libertà» e del «Nuovo Avanti!» ha cercato anche lui speculare sul morto per difender il suo opportunismo inveterato, potrebbe, dato che ne possiede la copia, pubblicar la lettera con cui Gramsci, all'indomani di Livorno, respingeva la proposta di Mosca di tentare una subdola campagna per eliminar Bordiga dalla direzione di quel partito che esso aveva fondato protestando che giammai si sarebbe prestato a simili manovre.

Sarebbe una degna commemorazione del grande Estinto.

 

 

Camillo Berneri.

 

 

Una delle vittime del massacro di Barcellona è stato adunque Camillo Berneri.

Guerra di classe” che dirigeva Berneri a Barcellona – e nella quale il 1° maggio comparve un suo articolo che può essere considerato come il suo testamento politico – dà questi dettagli sulla sua tragica fine.

La mattina del martedì 4 maggio verso le ore 10 si presentarono alla porta dell'appartamento sito al 1° piano, 2, Plaza del Angel, due individui portanti un bracciale rosso. Furono ricevuti dai compagni Berneri e Barbieri ai quali dissero di non sparare, dato che in faccia vi erano degli amici dai quali non avevano nulla da temere.

I due nostri compagni risposero che essendo essi degli antifascisti accorsi in Spagna per difendere la rivoluzione, non avevano nessuna ragione per sparare su degli operai antifascisti: dopo di che i due uscirono e furono, dalla finestra, visti rientrare nei locali del palazzo in faccia, sede dei sindacati dell’U.G.T.

Verso le ore 15 dello stesso giorno si presentarono alla porta dell’appartamento cinque o sei individui, muniti come quelli del mattino, di bracciale rosso ed altrettanti muniti di casco d’acciaio e di moschetto, che si dissero autorizzati ad eseguire una perquisizione.

Visto che frugavano minuziosamente dappertutto, la compagna Tantini presentò agli intervenuti tre moschetti, adducendo che questi gli erano stati affidati in momentanea custodia da compagni militi discesi in licenza dal fronte di Huesca.

Ottenute le armi, poliziotti ed ugetisti uscirono. Solo due di questi ultimi restarono per portare a termine la perquisizione. Furono così sequestrati dei documenti nella camera di Fantozzi ed alcuni libri e carte nella camera di Mastrodicasa. Nella camera di Berneri, visto che il materiale [da] trasportare era troppo voluminoso, ne presero solo una parte, dicendo che sarebbero ritornati poi con una vettura.

Uscendo, avvertirono i nostri compagni di non uscire e di non andare alla finestra, nel qual caso rischiavano di farsi fucilare.

Interrogati in merito, i perquisitori risposero di essere stati informati che nell’appartamento trovavansi degli anarchici italiani armati.

Nel pomeriggio del mercoledì, verso le ore 18, si presentarono la solita dozzina, fra militi dell’U.G.T. con bracciale rosso e poliziotti armati, più uno vestito in borghese, che dichiararono in arresto Berneri e Barbieri.

A questo momento il compagno Barbieri domandò ragione dell’arresto. Gli fu risposto che ciò avveniva in quanto trattatasi di elementi controrivoluzionari. A tale affermazione, il Barbieri rispose che durante i suoi venti anni di militanza anarchica era la prima volta che gli veniva rivolto simile insulto. A ciò il poliziotto rispose che appunto in quanto anarchico era un controrivoluzionario. Irritato, il Barbieri domandò allora all’insultatore il suo nome, riservandosi di domandargliene conto in altra occasione. Fu allora che il poliziotto, rovesciando il bavero della giacca, mostrò la targhetta metallica portante il numero [incomprensibile] (numero rilevato dalla compagna di Barbieri che trovavasi presente).

La compagna Tantini, anch’essa presente, protestò allora per il fatto che mentre le armi erano state da essa consegnate, essa veniva lasciata in libertà mentre Berneri e Barbieri, a carico dei quali non era stato trovato nulla, venivano arrestati. Poi, tanto essa che la compagna di Barbieri domandarono di poter seguire gli arrestati, al che i poliziotti risposero che se necessario sarebbero ritornati a prenderle.

La mattina del giovedì, verso le ore 9.30, si presentarono alla porta dell’appartamento due individui portanti il bracciale rosso, dicendo che erano venuti per rassicurare le due donne che i due arrestati dei giorni avanti sarebbero stati messi in libertà a mezzogiorno; dopo di che uscirono.

Come è risultato poi dalle fiches dell’Ospedale Clinico, Barbieri e Berneri furono condotti morti all’Ospedale nella notte dal mercoledì al giovedì, raccolti dalla Croce Rossa: il primo sulla Rambla ed il secondo nella Piazza della Generalità.

Stralciamo da “Giustizia e Libertà” questi dati biografici di Berneri:

Nato a Lodi, nel 1897, aveva fatto i suoi studi a Firenze e si era laureato in lettere e filosofia. Studioso infaticabile, spirito aperto ai problemi culturali, politici e sociali,  egli aveva militato fin dalla giovinezza nelle file libertarie. Era stato carissimo ad Enrico Malatesta, che ne stimava grandemente l’ingegno, la preparazione, la sicurezza e lo slancio della fede.

Scrittore facile e nutrito, collaborò assiduamente in Italia a “Pensiero Sociale” e alla “Umanità Nuova”. Alcuni suoi articoli apparvero anche su “Rivoluzione Liberale” di Gobetti.

All’estero, diede la sua opera di propaganda giornalistica a “L’Adunata dei refrattari”, a “Studi Sociali” e ad altre pubblicazioni anarchiche. Egli fondò e diresse “Guerra di classe”.

Dopo la morte di Malatesta e di Luigi Fabbri, Berneri era indubbiamente per forza d’intelletto, una delle personalità più eminenti del movimento libertario italiano.

Assunse subito nella lotta contro il fascismo, una posizione d’intransigenza attiva. A Firenze, partecipò animosamente alle più audaci forme di propaganda clandestina. In esilio, continuò la battaglia: fatto segno alle provocazioni del fascismo ed ai rigori delle autorità francesi. Tenne testa fermamente all’una ed alle altre: subì galera, espulsioni, con inflessibile fermezza, traendo dalle prove subite nuovo incitamento all’azione.

Subito dopo la sedizione di Franco, Berneri andò in Spagna. Poiché le sue condizioni fisiche non gli consentirono di dare stabilmente la sua opera al fronte – partecipò peraltro coraggiosamente alla battaglia di Monte Pelato – egli si dedicò al lavoro di propaganda e di organizzazione politica. Sostenne [parola incomprensibile] dalle colonne di “Guerra di classe”, anche nei confronti di altre tendenze dell’anarchismo iberico, la tesi dello sviluppo integrale rivoluzionario della situazione creata dalla guerra, affermando un rapporto di subordinazione della vittoria di questa ai risultati di quella.

Inserito nella vita politica catalana, sembra egli fosse uno degli animatori del gruppo “Gli amici di Durruti”.

 

 

 

 

 

L’ordine regna a Barcellona

 

 

Barcellona proletaria ha rivissuto le tragiche giornate di luglio 1936. Ma non sono i mercenari di Franco che sferrano questa volta l’attacco, ma bensì i suoi degni compari, quelli del governo “antifascista”. Il personale repressivo cambia, ma il fine resta identico: salvaguardare con tutti i mezzi gli interessi del capitalismo spagnolo. I proletari che seguono la scia del Fronte Popolare si rendono difficilmente conto degli ultimi avvenimenti e della loro importanza e significazione di classe; noi, che abbiamo energicamente smascherato il tranello dell’antifascismo e la sua natura controrivoluzionaria, la falsa demagogia della rivoluzione libertaria stamburata ai quattro venti dagli anarco-sindacalisti, i tragici avvenimenti non sono che il risultato conseguente della situazione che si era voluto creare, dopo le giornate di luglio, stornando gli operai dalla loro lotta, quella di classe, per gettarli sui fronti della guerra capitalista. E questa situazione non poteva avere altro sbocco che nel massacro degli operai rivoluzionari.

La provocazione del governo catalano è una farsa indiscutibile. Bisognava finirla con i mezzi termini e con il collaborazionismo ufficiale dei dirigenti della C.N.T. e della F.A.I.. O con la borghesia o col proletariato. Non si può restare a cavallo su una barricata di classe. I vari Garcia Olivier che dai seggi ministeriali pretendevano aver fatta la rivoluzione proletaria, i burocrati della C.N.T. che tanta carta hanno sciupato per mettere in marcia la … nuova società, si sono dimostrati quelli che sostanzialmente erano dei ministri e dei servi della borghesia.

Certamente la grande massa, in buona parte, credeva alle formole della guerra prima, la rivoluzione dopo; alla unità “antifascista” ed alla conquista delle rivendicazioni “graduali”, col benestare placido della generosa democrazia. Il laboratorio “teorico” dell’anarco-sindacalismo aveva scoperto queste ibridi formule e le metteva quotidianamente nei cervelli dei proletari. Ma le leggi naturali che determinano il processo della spietata lotta fra sfruttati e sfruttatori, hanno dimostrato che con il potere capitalista e la rivoluzione proletaria non si scherza. Ed il colpo di mano è stato rude. Il governo di Valenza ha diretto l’attacco, quello di Barcellona lo ha sferrato. Ancora una volta gli operai hanno energicamente reagito, dando prova di un profondo istinto di classe. Dopo aver riafferrato la loro potente arma, lo sciopero generale, hanno rovesciato le fallaci illusioni della collaborazione e della unità antifascista, e con le armi alla mano si sono scagliati contro le forze repressive dello Stato capitalista.

Ma come nel luglio, il tradimento di tutte le organizzazioni li colpiva alle spalle, mentre i mercenari dell’antifascismo, militi del P.S.U.C. e guardie repubblicane, passavano alla repressione ed al massacro feroce. Come Franco, il governo dell’antifascismo deve soffocare nel sangue ogni velleità di classe delle masse sfruttate, per impedire a queste di comprendere il tragico inganno in cui caddero vittime il 18 e 19 luglio. Ed il mercenario, il sicario della democrazia, il centrista in testa, sorpassa quello fascista per “far regnare l’ordine”, l’ordine capitalista. Ed è questo ordine che oggi regna a Barcellona.

I fatti. 3 maggio. – In base ad un decreto precedentemente votato dal governo catalano concernente il controllo degli uffici pubblici, le forze di polizia attaccano la centrale telefonica di Barcellona ancora occupata dai militi della F.A.I.. Risposta da parte degli assaliti, battaglia accanita.

4 maggio. – L’effervescenza delle masse operaie è enorme. Per radio viene lanciato l’ordine dello sciopero generale malgrado le importanti forze di polizia, rinforzate dai mercenari del P.S.U.C. e della sinistra catalana, gli operai dominano la situazione in città e nei più importanti centri della Catalogna. Il POUM prende parte attiva alla rivolta proletaria.

5 maggio. – I dirigenti della F.A.I. e della C.N.T. si affannano per disarmare gli operai in lotta. Le due organizzazioni, malgrado l’opposizione interna,  e contro la volontà della classe proletaria, ordinano la ripresa del lavoro. Alla radio si determina il fronte unico della disfatta, gli appelli sono identici: capitolare di fronte alle forze repressive dello Stato capitalista. Garcia Olivier, ministro giunto da Valenza, si prodiga nella sua parte di pompiere. Nel pomeriggio i dirigenti sottoscrivono la resa degli operai, ma la lotta continua.

6 maggio. – Di fronte all’abbandono dei capi, gli operai sfiduciati si ritirano dalla lotta, restano nuclei isolati di combattenti. La situazione si capovolge, le forze reazionarie iniziano la loro infame bisogna.

Il generale Pozas, inviato dal governo di Valenza, dirige l’opera di “pacificazione”. I militanti della F.A.I. Ascaso e Berneri sono fra gli assassinati.

Il 7 maggio l’ordine capitalista regna in Catalonia. Il colonnello Menedez viene nominato alla pubblica sicurezza. Entrano in Barcellona 80 camion con cinquemila guardie d’assalto di rinforzo. Perquisizioni, arresti, assassinii. Il consiglio generale della U.G.T. decreta l’espulsione dai suoi ranghi dei dirigenti del POUM per aver partecipato alla insurrezione contro i poteri della repubblica.

Lo stesso consiglio definisce la difesa proletaria un movimento “fascista”.

8-9-10 maggio. – La Generalità emette un decreto per l’applicazione della censura sulla stampa. Continuano ad arrivare numerosi rinforzi da Valenza per mantenere l’ordine. Continuano le perquisizioni, gli arresti, gli assassinii.

11-12 maggio. – La C.N.T. in un equivoco manifesto parla di provocatori e di elementi incontrollati. Il governo di Valenza pubblica un decreto sul disarmo e sulla detenzione di armi ed esplosivi. I detentori saranno ritenuti come dei sedizioni e condannati in base agli articoli del codice militare.

13-14 maggio. – “Solidaridad Obrera” lancia un appello di unità alla U.G.T. “sorella”, mentre continuano gli arresti e la soppressione fisica dei militanti della F.A.I. e del POUM. Il decreto sul disarmo è pubblicato dallo stesso giornale senza un rigo di commento. Un altro appello per la guerra e per tutti gli sforzi diretti al fronte sono lanciati dalla C.N.T.

L’“Avanguardia”, organo della Generalità, comunica che le armi raccolte in seguito al famigerato decreto nella Catalonia, sono di 1590 fucili, 14 mitragliatrici, ecc.. Il delegato all’ordine pubblico, il señor José Echevarria Novar, comunica a mezzanotte del 14 che l’ordine e la tranquillità regnano in tutta la Catalonia.    

Ancora una volta, adunque, il proletariato catalano è stato inchiodato al ceppo della disfatta senza condizioni. Malgrado il piano meticolosamente preparato dagli Azana, Caballero e Companys, il cerchio non aveva potuto chiudersi al collo degli operai, se non fosse venuta in aiuto la trinità composta dai Garcia Olivier o da Federica Monseny. Nemmeno il pudore delle apparenze hanno potuto determinare questi “terribili” rivoluzionari in livrea di ministri, a dimissionare dai posti che li avevano resi complici dell’assassinio premeditato dei migliori dei loro militanti colpevoli di credere sul serio alla rivoluzione, e di avere pagato di persona l’errore precedentemente commesso. La guerra “contro il fascismo”, si continua a gridare, nemmeno la sanguinosa esperienza ha messo questi eunuchi della politica in condizioni di intravedere la via della rivoluzione: Companys, il 4 maggio, vistosi in pericolo, chiama rinforzi al fronte, magnifico esempio di solidarietà capitalista. Purché gli operai non vincano, venga Franco, noi sguarniremo il fronte: ma gli operai che si difenderanno dal massacro dei “fratelli antifascisti” saranno tacciati da “vili”, da elementi torbidi, da irresponsabili, da elementi della 5a colonna, ed i dirigenti prenderanno parte a questa ignobile messa in scena. Si dirà che oggi è la Russia, la Francia, l’Inghilterra, che dietro il paravento del governo di Valenza hanno domandato la repressione delle forze operaie quale garanzia per l’apporto alla guerra. È vero, ma questo lo era anche ieri, lo è stato fin dall’inizio, nel momento in cui le masse operaie vennero incuneate nel fronte del capitalismo sotto il manto dell’antifascismo.

Per la seconda volta avete avuto tutto il proletariato con voi, forza terribile ed irresistibile, per la seconda volta avete avuto il proletariato catalano che vi ha indicato la via da percorrere fino in fondo e lo avete tradito ricacciandolo sui fronti del capitalismo, cimiteri della classe proletaria.

Ora basta, l’ora del crollo dell’anarco-sindacalismo è sonata, come quella della burocrazia sindacale, il posto di tutti questi transfuga è nel seno della borghesia e non fra il proletariato. Le masse sapranno fecondare nel loro sangue ed al prezzo dei più grandi sacrifici l’arma per dirigere le loro lotte future: il partito di classe.

Il mostro capitalista fino ad ieri poteva disporre di tre tentacoli: il fascista, il democratico, il sovietico. Oggi può disporre di un quarto, dell’anarco-sindacalista. Salutando invece i caduti sul fronte della lotta di classe a qualunque scuola essi appartengano, essi non appartengono a nessuno degli organismi che tradiscono, essi rappresentano la garanzia che la classe proletaria sa e vuole battersi per la sua liberazione sociale, per la rivoluzione comunista.

 

 

 

Prometeo, n. 145, 30 maggio  1937