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archivio > Lettere di Bordiga>Lettera di Bordiga a Riccardo Salvador (Napoli 23 novembre 1952)

aggiornato al: 02/05/2008

Napoli 23 novembre 1952

Riccardo Salvador, a cui speriamo di poter dedicare una nota biografica meno telegrafica ed essenziale di questa in un prossimo futuro, nacque a Piovene Rocchette (Vicenza) all'inizio del secolo scorso. Riccardo che aveva cominciato presto il suo lavoro di operaio aderì, con il fascismo già al potere, al Partito Comunista d'Italia. Condannato a una pesante pena detentiva fu  scarcerato nel 1936. Allo scoppio della seconda guerra mondiale ritornò a Schio; finita la guerra, nel 1947, già in contatto con il Partito Comunista Internazionalista, emigrò in Svizzera dove riprese il suo lavoro di operaio. Qui con altri compagni (italiani e spagnoli) formò il «gruppo di Winterthur» ( dal nome della cittadina vicina a Zurigo) del Partito. Dalla Svizzera, a nome degli altri compagni,interpellò Bordiga che  rispose  con una lettera datata 29 ottobre e poi con questa che riproponiamo.

Riccardo ritornò in Italia nel 1966 e di lì a poco diede vita alla sezione di Schio del Partito Comunista Internazionale; in quegli anni di "contestazione" e ribellismo fu esempio, ai giovani che si avvicinarono al Partito, di dirittura morale e politica e di militanza comunista.

Riccardo Salvador è morto, a più di novant'anni, a Schio nell'autunno del 1993.

L'intero scambio epistolare tra Salvador e Bordiga (lettera di Bordiga a Salvador del 29 ottobre 1952, lettera di Salvador a Bordiga dell' 11 novembre 1952 e lettera di Bordiga a Salvador del 23 novembre 1952) è stato ripubblicato su «Il Comunista» n. 39, Nov.93/Feb.94.

 

 

Napoli 23 novembre 1952

 

Carissimo Salvador e altri compagni,

                                                           rispondo ora che trovo un poco di tempo (e l'argomento ne vorrebbe molto, ma è buona trama per qualche Filo) alla vostra dell'11.

Rilevo subito un passo della vostra: ripeto con tutta convinzione quello che chiamate "errore" di Marx il quale credette che la classe operaia dovesse dare gli elementi capaci di impossessarsi della filosofia e della scienza proletaria. Marx esattamente disse: il proletariato è l'erede della filosofia classica tedesca (leggete: critica moderna). Questo è un fatto storico e non scolastico, o culturale: è un inseparabile aspetto dell'avvicendarsi delle classi alla testa della società e della lotta rivoluzionaria.

Potrei scherzare sulla vostra tesi e chiudervi in quello che si chiama dilemma cornuto: o Marx ha ragione e allora avete torto. O voi siete giunti a rettificare un errore filosofico di Marx e siete più filosofi di lui, dunque... ha ragione lo stesso. Ma non si tratta di scherzare. Un'altra buona idea della vostra lettera, che ho molte volte avuta, è la cronaca dell'opportunismo italiano e perchè no internazionale. Un poco risponde a questo il settore "ieri" dei fili del tempo, che alcuni compagni volevano abolito.  Ebbene tra i tanti fatterelli potrei narrare di una polemica al congresso giovanile socialista di Bologna 1912 tra i "culturisti" che volevano, con Tasca, ridurre il movimento dei giovani ad una scuoletta, e gli "anticulturisti" che a mio mezzo gli rivendicavano piena funzione politica e in prima fila lotta contro la destra riformista del tempo. Sono sempre stato antiscolastico e anticulturista, e sempre mi hanno definito, fin proprio da allora, maniaco della rigidità dottrinaria e delle premesse teoriche. Contraddizione in me? No, complessità dialettica del problema, e impossibilità a ridurlo in pillole.

Dunque i lavoratori non devono fare corsi di filosofia o di altro, ma devono solo combattere per la propria classe. Mi ricordo che allora, al solito sfiorando sottigliezze nell'uso di termini esatti, si disse che io contrapponevo alla cultura di Tasca la "fede" e il "sentimento" socialista. In un certo senso è così: ma sarebbe altro grave errore vedere in questo uno slittamento fuori dal sano materialismo. Quello che volentieri derido è la "coscienza" chiesta ad ogni singolo combattente di classe: vedi riunione di Roma e relativi schemi della praxis marxista; prima agire da rivoluzionario, poi capire e dissertare; perciò al posto dell'individuo (soldato o maresciallo) abbiamo il partito di classe. Che cosa volle allora dire Marx? Meglio renderlo più difficile e meno commestibile che alterarne la portata.

La borghesia rivoluzionaria "ereditò" dalle classi dominanti del regime feudale la cultura e la filosofia, monopolio soprattutto della chiesa, e allineò il materiale rivoluzionario della critica antiautoritaria, colla quale si spinse audacemente innanzi nel campo delle scienze naturali e della critica al dogma, finché la fiamma rivoluzionaria antifeudale non fu esaurita. Ma chi allora erano "borghesi"? La classe feudale li disprezzava come "vili meccanici", erano mercanti, bottegai e piccoli capi di manifatture, abili tecnici talvolta, ma digiuni di filosofia teoretica. I Galilei i Diderot e d'Alembert etc. venivano in genere dalla nobiltà e talvolta dallo stesso clero: fatto secondario, anzi sintomo del venire di tempi rivoluzionari, ma forgiarono armi potenti mentre i sanculotti analfabeti spiantavano la Bastiglia. E' dunque giusto dire che la borghesia ereditò la direzione intellettuale della società e fondò la filosofia critica. Ma mentre in Inghilterra e in Francia le conseguenze rivoluzionarie furono spinte all'estremo sociale, in Germania il lavoro teoretico fu formidabile, quello politico nullo o quasi: già al tempo di Marx la borghesia tedesca è caduta nella impotenza e tocca al proletariato ereditare i compiti della critica, rimasta sul terreno filosofico, e attuarla nella storia abbattendo gli istituti feudali, e quelli borghesi.

Questo compito appartiene storicamente alla intiera classe e al suo partito che conduce la lotta in teoria e in azione (critica colle armi). Chiunque sta in questo campo ha "ereditato" quel compito di classe, filosofeggi o tiri revolverate. Nel senso storico definisce il proletariato lo stare in questo campo: un operaio che sta nei partiti opportunisti svolge compito borghese, io quello che faccio lo faccio da proletario. Il resto non conta due soldi.

Non ripetiamo la baggianata che gli operai non arrivano a capire. Non importa. Voi non avete pratica degli intellettuali e non sapete abbastanza quanto sono vuoti fessi vili e difficili a spostarsi un millimetro dai pregiudizi dominanti. Da quaranta anni ho imparato a fondo quanto più facilmente un uditorio operaio afferra tesi audaci radicali e in controsenso alle idee tradizionali, laddove i benpensanti magari con diverse lauree rispondono enunciando fesserie giganti e pietose. Ho quindi deposto per sempre la preoccupazione che gli operai non capiscano. Appunto perchè liberi dalla vita scolastica e con un metodo che tiene più dell'istinto che del raziocinio, essi si portano sul piano della loro dottrina di classe, e agiscono di conseguenza.

Trovo giusto il distinguere tra chiaro e facile: il semplicismo conduce inevitabilmente a trascurare alcuni aspetti del problema, e quindi semplicizzare vale sempre travisare, mentre senza deformazioni una esposizione più chiara val meglio di una meno chiara. A ciò non vedo altro rimedio che battere i chiodi; come sempre dico, ossia ripetere molte volte le esposizione di una data tesi, provare con vari metodi di presentazione, fino al parlare figurato o allo scherzo, ma non vedo come si possa fare di più, tenuta anche presente la famosa semisecolare raccomandazione: se sei troppo lungo tutti si stancano!...

Qualche volta ho preso un mio articolo e ho detto a giovani compagni di tradurlo in lingua più accessibile: l'esperimento è sempre stato disastroso, anche trattandosi di redattori intelligenti e colti: talvolta mi facevano dire tutto l'opposto.

Comunque una divisione del lavoro ci può, come vi scrissi, essere. Io mi sono assunto di custodire, come meglio posso, il rigore.

Quello che  per esempio ho scritto qui è molto sintetico e coinvolge un po' tutte lo nozioni del materialismo marxista. Quali profondi equivoci in materia perfino tra i più sapienti e non opportunisti seguaci della nostra teoria! Prendi ad esempio le lunghe trattazioni che ho dovuto dedicare a mettere bene in linea la formola famosa nostra: abolire la proprietà privata! Ho fatto vedere che Marx in tutte lettere disse che il capitalismo ha abolito la proprietà privata e dei prodotti e dei mezzi di produzione! Marx non era chiaro? Che fortuna che non se ne sia troppo preoccupato!

Abbiatevi tanti saluti affettuosi. Verrà uno di voi a Forlì?

 

Amadeo