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archivio > Archivio sulla sinistra>Il futuro che sognano i borghesi... (il programma comunista, n. 11, 17 -24 giugno 1966)

aggiornato al: 10/09/2009

il programma comunista, n. 11, 17 - 24 giugno 1966

Questo simpatico, ironico e lucido articolo, diviso in due parti di cui riproponiamo ora la prima, scritto nel 1966, ci prospetta il futuro del 2000, quello in cui ora viviamo, ridicolizzando le fantasiose prospettive del mondo borghese di quaranta anni fa e mettendo in evidenza con quaranta anni di anticipo il mondo di oggi, un mondo di " crisi, concorrenza sfrenata, guerra, sfruttamento spietato, asservimento completo del proletariato".

Alla prossima puntata la seconda parte non a caso intitolata: "Il futuro del capitalismo è fatto di lacrime e sudore".

 

Il futuro che sognano i borghesi è un'estensione del loro infame presente

 

«Taluni profeti sono in atmosfera da «grande millennio». Emmanuel Mesthene di Harvard, direttore di un programma di studio decennale su tecnologia e società, commissionato dalla IBM con fondo di 5 milioni di dollari, ritiene che, per la prima volta dall'età d'oro della Grecia, l'uomo occidentale abbia «riconquistato  la sua forza», e sia giunto, giustamente, a credere di poter realizzare qualsiasi cosa. Il mio presentimento - dice Mesthene - è che l'uomo abbia finalmente espiato il peccato originale, e possa ora aspirare alla felicità». E Bertrand de Jouvenel propone di presentare alla televisione vari tipi di futuro, indicendo un referendum tra il pubblico su «il futuro di vostra scelta» ( Mondo Economico, 5 marzo 1966).

Secondo alcuni studiosi delle prospettive di sviluppo dell'umanità da oggi al duemila non è escluso che fra qualche anno i cittadini di molte nazioni vengano chiamati alle urne per scegliere il futuro di ... loro gradimento. Radiose ed ultime prospettive del principio democratico! E se non vi fosse una maggioranza sicura? Potremo avere un futuro monocolore, di coalizione, centrista, monocolore-pendolare, centro-sinistra, gollista, anti-gollista, laburista, etc, etc. Cittadini, scegliete il futuro in cui volete vivere. Una crocetta , e il gioco è fatto!

Serie proposte  di tal genere vengono ospitate in «seri» giornali: Time del 25 - 2 e Mondo economico, Fortune del febbraio e Mondo Economico del 12 - 3. Seguiamo un po' lo sviluppo degli articoli per addolcirci la bocca con lo zucchero che leccheremo nel duemila.

 

Lo zucchero che leccheremo nel futuro

 

Apprendiamo: 1) che queste previsioni sono fondate sul grande sviluppo della tecnologia dal dopoguerra ad oggi: cibernetica, energia atomica, satelliti artificiali, le basi della notissima seconda rivoluzione industriale esaltata da tutti i leccapiedi degli americani; 2) che esistono grandi imprese specializzate nello studio del futuro, finanziate, guarda caso, dalle più grandi compagnie statunitensi. Così la «Tempo», sostenuta dalla General Electric con sette milioni di dollari l'anno; così la fondazione Ford che stanzia un milione e 400 mila dollari; così la IBM con 5 milioni di dollari; così la Rand Corporation che riceve15 milioni l'anno dell'aviazione militare, e così altri centri situati presso alcune grandi università.

La professione di futurista sembra dunque «rendere»: il futurismo è, pare, un'industria attiva. Ma apriamo bene gli occhi e trasportiamoci nel duemila. Troveremo, fra le molte mirabilia, anche queste: trasporti assicurati a mezzo di missili, basi lunari, viaggi su Venere e Marte, coltivazioni degli oceani, organi corporei artificiali, sconfitta delle più pericolose malattie, controllo della personalità a mezzo di farmaci, simbiosi tra cervello umano e calcolatori elettronici, e via di questo passo.

Apprendiamo pure che 9/10 della popolazione U.S.A. vivranno in immense super-città, e sentiamo che «anche l'ottimismo dei medici è limitato dalla consapevolezza che si potrà avere un aumento degli incidenti e della generale tragedia dell'urbanesimo». Ma altre prospettive si aprono: cucine completamente automatiche, acquisti compiuti per mezzo della televisione, automi casalinghi per i lavori domestici. Infine, le scoperte più promettenti: «la società sembrerà, quindi, in confronto ad oggi, inattiva. Secondo una stima, soltanto il 10% della popolazione lavorerà, mentre il rimanente dovrà di fatto essere pagato per rimanere in ozio. (...) Già oggi - afferma John Fischer della «Tempo» - stiamo razionando il lavoro. Nel 1984 l'uomo dedicherà il primo terzo della sua vita, vale a dire fino ai 25 anni, all'apprendimento; solo il secondo terzo al lavoro; e l'ultimo terzo a godere i frutti del suo lavoro. Non ci sarà lavoro abbastanza per tutti. Nel duemila le macchine produrranno tanto, che tutti negli USA saranno ricchi indipendentemente dal lavoro. Con i benefici dell'assistenza sociale anche le famiglie non occupate avranno secondo una stima, un reddito annuo di 30-40 mila dollari (valore 1966). Un problema enorme sarà l'impiego del tempo libero, ed Herman Kahn prevede una società orientata verso il piacere caratterizzata da completa degenerazione». Vi sono alcune preoccupazioni marginali che offuscano il paese di bengodi dianzi descrittoci: «taluni prevedono foscamente una società guidata da una piccola elite, che sovrasterà una moltitudine di esseri amorfi tenuti in stato di euforia da farmaci e da circensi, più o meno come nel «nuovo mondo» di Huxley, (...) Da ultimo vi è lo spettro dell'ozio di massa, vale a dire la paura che l'automazione della produzione e della distribuzione elimini la necessità del lavoro umano. Alcuni autori considerano questo un problema principalmente economico; altri un problema principalmente sociale e psicologico, affermando che senza il lavoro per occupare il grosso delle ore di veglia, gli americani potrebbero  considerare la vita senza significato.. Quello che temiamo di affrontare - scrive il prof. David  Riesman, uno dei primi ad aver sollevato il problema - è qualche cosa di più della completa distruzione: è la completa insensatezza».

Altri invece ritengono probabile un aggravarsi delle tensioni attuali: «I mutamenti politici e sociali sono assai più difficili da prevedere di quelli tecnologici. I «futuristi» stanno esaminando seriamente tutti i tipi di problemi preoccupanti: la possibilità che i paesi sottosviluppati non riescano a recuperare il ritardo sul baluginante futuro; la minaccia di guerra, (di cui gli esperti della Rand danno un 20% di possibilità); le prospettive di un super governo».

Sono queste, con i loro lati positivi e negativi, in cui tuttavia predomina sempre il feticismo del progresso tecnico, le diverse prospettive fra le quali gli elettori chiamati a votare per il loro futuro potranno scegliere.

Se abbiamo iniziato riportando le mirabili previsioni che gli scienziati aprono per gli anni del futuro, non è certo perché vi crediamo. E' per dimostrare nei fatti come il capitale abbia asservito completamente la scienza, cosicché l'unica prospettiva che essa sappia offrire è una estensione parossistica della società attuale. La scienza è divenuta propagandista del capitalismo nella sua versione più infame: quella benesserista e progressista.

In questo radioso mondo del futuro noi sentiamo non solo presenti, ma vieppiù rinforzate le catene dell'oppressione sociale del proletariato, l'alienazione completa dell'uomo, la disumanizzazione completa della vita. L'imperativo del duemila non sarà, come dice Mesthene, il ritorno all'Ellade, ma la conferma del primo comandamento del capitale: «business is business», gli affari sono affari.

Questi scienziati prevedono il domani come semplice estensione quantitativa dell'oggi: super-città, super-strada, super-fabbrica, super-mercati; è la demente corsa al «colossale» fine a se stesso, che obbedisce non alla «programmazione» dei governi ma alle intime leggi del capitalismo: produrre per profittare. Nelle dorate città dei futuristi, risolte tutte le contraddizioni, liberati da ogni schiavitù, gli uomini gemeranno sotto la più infame tirannia: quella delle merci.

Si potrebbe ancora giocare un po' con la critica alle previsioni ed anche alle preoccupazioni degli scienziati che intascano  i lauti stipendi del dipartimento di stato o della Ford, della General Electric o della IBM. Ma perché arrovellarsi con le loro contorte apologie per dimostrare che, infine, il mondo che essi auspicano sarà sempre travagliato dalle tensioni disumane del capitalismo giunto all'ultima sua fase? Bontà loro, questi scienziati danno un 20% di probabilità a un'altra catastrofe mondiale!

 

Il futuro che noi assegnamo al futuro borghese

 

Per demolire le fanfaronate pseudo-scientifiche bisogna affrontare il problema alla radice superando l'orizzonte della critica all'oggi e richiamandosi a testi classici del nostro movimento. Gli scienziati guardano «avanti»; noi pazienti archeologi, riscopriamo testi che molti cercano di dimenticare. Tutti gli zelatori di oggi sono stupefatti del recente, clamoroso sviluppo tecnologico: «negli ultimi 50 anni la tecnologia si è sviluppata più rapidamente che nei precedenti 5.000». Essi restano attoniti dinanzi al fatto di questo sviluppo, ma è necessario ricercare le basi sociali, le ragioni storico-economiche che lo hanno determinato, e il significato che esso ha per le prospettive future. Per gli ammirati, sbalorditi, esterrefatti dai mutamenti, dalle novità, apriamo il Manifesto del Partito Comunista (Editori Riuniti 1962 pag. 60): «La borghesia non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione, quindi i rapporti di produzione, quindi tutto l'insieme dei rapporti sociali.

«Prima condizione di esistenza di tutte le classi precedenti era invece l'immutata conservazione dell'antico modo di produzione. Il continuo rivoluzionamento della produzione, l'incessante scuotimento di tutte le condizioni sociali, l'incertezza ed il movimento eterni contraddistinguono l'epoca borghese da tutte le altre. Tutte le stabili e arrugginite condizioni di vita, con il loro seguito di opinioni e credenze rese venerabili dall'età, si dissolvono, e le nuove invecchiano prima ancora di avere potuto fare le ossa. Tutto ciò che era di stabilito e di rispondente ai vari ordini sociali si svapora, ogni cosa sacra viene sconsacrata e gli uomini sono finalmente costretti a considerare con occhi liberi da ogni illusione la loro posizione nella vita, i loro rapporti reciproci».

Il Manifesto  prosegue esaminando la genesi storica della classe borghese: «Abbiamo però veduto che i mezzi di produzione e di scambio sulla cui base si eresse la borghesia, furono generati in seno alla società feudale. A un certo grado dello sviluppo di questi mezzi di produzione e di scambio,  le condizioni nelle quali la società feudale produceva e scambiava vale a dire l'organizzazione feudale dell'agricoltura e della manifattura, in una parola i rapporti feudali di proprietà non corrispondevano più alle forze produttive già sviluppate. Quelle condizioni, invece di favorire la produzione, la inceppavano. Esse si trasformavano in altrettante catene. Dovevano essere spezzate, e furono spezzate».

Si constata ora che: «Sotto i nostri occhi si sta compiendo un processo analogo. Le condizioni borghesi di produzione e di scambio, i rapporti borghesi di proprietà, la moderna società borghese, che ha evocato come per incanto così potenti mezzi di produzione e di scambio, rassomiglia allo stregone che non può più dominare le potenze sotterranee da lui evocate. Da qualche decina d'anni la storia dell'industria e del commercio non è che la storia della ribellione delle moderne forze produttive contro i moderni rapporti di produzione, contro i rapporti di proprietà che sono le condizioni di esistenza della borghesia e del suo dominio. Basti ricordare le crisi commerciali, che nei loro ritorni periodici sempre più minacciosamente mettono in forse l'esistenza di tutta la società borghese. Nelle crisi commerciali viene regolarmente distrutta una gran parte non solo dei prodotti già ottenuti ma anche delle forze produttive che erano già state create. Nelle crisi scoppia una epidemia sociale che in ogni altra epoca sarebbe apparsa un controsenso: l'epidemia della sovrapproduzione. La società si trova improvvisamente ricacciata in uno stato di momentanea barbarie; una carestia, una guerra generale di sterminio sembra averle tolto tutti i mezzi di sussistenza; l'industria, il commercio sembrano annientati, e perché? Perché la società possiede troppo civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio. Le forze produttive di cui essa dispone non giovano più a favorire lo sviluppo della civiltà borghese e dei rapporti della proprietà borghese; al contrario, esse sono divenute troppo potenti per tali rapporti, sicché ne vengono inceppate; e non appena superano quest'impedimento gettano nel disordine tutta quanta la società borghese, minacciano l'esistenza della  società borghese. I rapporti borghesi sono diventati troppo angusti per contenere le ricchezze da essi prodotte. Con quale mezzo riesce la borghesia a superare la crisi? Per un verso, distruggendo forzatamente una grande quantità di forze produttive; per un altro verso, conquistando nuovi mercati e sfruttando più intensamente i mercati già esistenti. Con quale mezzo dunque? Preparando crisi più estese e più violente e riducendo i mezzi per prevenire le crisi. Le armi con cui la borghesia ha abbattuto il feudalesimo si rivolgono ora contro la borghesia stessa». In luogo dell'ipocrita «popolazione nazionale» che, secondo i progressisiti, si spartisce un anodino «reddito nazionale» qui vivono classi che lottano, vi è una prospettiva rivoluzionaria che si afferma necessariamente, vi è un programma per la classe oppressa.

L'apologia dello sviluppo si rivolge contro i propri apologeti: le forze di produzione cozzano contro le forme in cui sono cristallizzate. Le contraddizioni del capitalismo si sviluppano in modo disastroso su scala mondiale: crisi, concorrenza sfrenata, guerra, sfruttamento spietato, asservimento completo del proletariato alla borghesia ed al suo stato. Ciò procede ineluttabilmente fino al momento in cui il punto di approdo non sarà quello segnato dalla mezza classe di oggi: un deforme ritorno alla classicità ellenica; ma la negazione violenta del capitalismo, la rivoluzione proletaria e l'instaurazione della dittatura comunista. «Lo sviluppo della grande industria toglie dunque di sotto ai piedi della borghesia il terreno stesso sul quale essa produce e si appropria i prodotti. Essa produce innanzi tutto i suoi propri seppellitori. Il suo tramonto e la vittoria del proletariato sono ugualmente inevitabili» (pagina 75).

Queste frasi vennero scritte nel 1847 prima che nascessero i lussuosi centri studi di oggi; ma la previsione storica dei marxisti basata su fondamenta reali seppe fare di più, molto di più. Agli scrittori di Time e Fortune , ai cultori delle moderne accademie, ai teorizzatori della razionalizzazione, dello sviluppo senza crisi, del progredire della tecnologia al servizio della umanità dedichiamo alcuni passi del potente capitolo di Marx: Macchine e Grande Industria (in Capitale. Ed. Rinascita - Roma '56, p. 71 e segg.).

Ecco il poderoso inizio: «John Stuart Mill dice nei suoi principi di Economia Politica: «è dubbio se tutte le invenzioni meccaniche fatte finora abbiano alleviato la fatica quotidiana d'un qualsiasi essere umano». Ma questo non è neppure lo scopo del macchinario, quando è applicato capitalisticamente. Come ogni altro sviluppo della forza produttiva del lavoro, il macchinario ha il compito di ridurre le merci più a buon mercato ed abbreviare quella parte della giornata lavorativa che l'operaio usa per se stesso, per prolungare quell'altra parte della giornata lavorativa che l'operaio dà gratuitamente al capitalista; è un mezzo per la produzione di plus-valore». Ed in nota Marx chiosa: «Il Mill avrebbe dovuto dire - è dubbio se tutte le invenzioni meccaniche  fatte finora abbiano alleviato la fatica quotidiana di un qualsiasi essere umano che non sia nutrito da lavoro altrui, perché le macchine hanno indiscutibilmente aumentato il numero dei distinti oziosi».

Prima conclusione: le macchine dunque non sono al servizio della umanità tutta, ma di una ben localizzata classe: la borghesia e servono per sfruttare ed asservire il proletariato. Seguiremo, nella prossima puntata, con numerose citazioni, il potente passo di Marx lungo lo sviluppo di questo capitolo che riguarda così da vicino le presuntuose previsioni degli attuali lacchè del capitale.

 

(continua)

 

il programma comunista, n. 11, 17 - 24 giugno 1966