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archivio > Archivio sulla sinistra>Il mondo borghese è uno (il programma comunista, n. 16, settembre 1955)

aggiornato al: 16/04/2009

il programma comunista, n. 16, 9 - 23 settembre 1955

Questo articolo della metà degli anni cinquanta del secolo scorso, di più di cinquanta anni fa quindi, ci riporta al mondo uscito dalla seconda guerra mondiale, alla guerra fredda, alla distensione, alla carenza di materie prime, all' uso del nucleare, ecc.

Oggi, tolto il "socialismo" russo mangiato dalla buona democrazia occidentale, le cose non sono molto cambiate.

Rileggere questo scritto può essere utile a chi non ha mai vissuto o sentito parlare di quei tempi, simili a questi in ogni caso, dominio del capitale, del modo di produzione capitalistico e del lavoro salariato che il proletariato dovrà sradicare.

 

 

Il mondo borghese è uno

 

Negli anni scorsi - ma non lontani - in cui le opposte coalizioni militari e politiche di Oriente e di Occidente si fronteggiavano minacciose, giungendo persino a misurarsi in un conflitto armato, sebbene localizzato, quale fu la furibonda guerra di Corea - cioè negli anni in cui si svolse (l'avevate dimenticata?) la cosiddetta guerra fredda -la nostra posizione di partito fu immancabilmente interpretata dai partiti nemici, secondo il rigido criterio del dualismo politico che si volle porre a base della conoscenza del mondo.

Erano i tempi in cui la nostra esistenza politica era invariabilmente vista dagli avversari come una dissimulata dipendenza da ben più potenti forze politiche giostranti sull'arena internazionale. Erano i tempi in cui per i seguaci dell'atlantismo - democristiani, socialdemocratici, liberali e via dicendo - chiunque non «tifasse»  per il ponte aereo di Berlino o non gioisse per i bombardamenti al «napalm» contro le città coreane «nordiste», non poteva che essere classificato tra i russofili e gli «utili idioti» della politica di Mosca. Al contrario - e grazie allo stesso criterio dualista oggi caduto in disuso - chiunque rifiutasse di applaudire alla impiccagione di Rajk o alla fucilazione di Beria non poteva che essere incluso, a giudizio degli onnipotenti funzionari del P.C.I. e del P.S.I., oggi convertiti al monismo internazionale, nella lista nera degli «agenti dell'imperialismo».

Poiché i Grandi dell'imperialismo hanno sempre ragione, sia che si lancino cartelli di sfida sia che si abbraccino in pubblico, ad avere torto continueremo ad essere noialtri, minimi tra i minimi dei movimenti che «non fanno storia». ma di che ci accuseranno ora non diciamo, ohibò! i colossi della stampa che non riescono a vederci neppure col microscopio elettronico, ma i nostri tirapiedi di sempre, coloro che dalle poltrone  delle federazioni socialcomuniste ci aizzano contro gli agit-prop di fabbrica?

Oggi che la «distensione» o, come altri dice, il «disgelo» affratella i cuori dei Grandi, noi che per tutta la fase della «guerra fredda» siamo stati giudicati «falsi», incorriamo in una ben più tremenda condanna. Quale? Quella che pende sul capo di coloro che, facendosi forti della lezione dei fatti (i quali hanno provato che se c'era qualcosa di falso nel mondo era la conclamata inconciliabilità tra il «mondo libero» e l' «impero moscovita») rifiutano di prestare fede alla sconcia commedia della «distensione». E credono che la «domenica delle palme» celebrata nei consessi ginevrini apra una fase meramente transitoria nella politica internazionale durante la quale le contraddizioni del modo di produzione capitalista, temporaneamente sanate dal dilatarsi dei commerci mondiali, coveranno in profondità.

I governi delle grandi potenze imperialistiche hanno inteso porre le grandi masse - lo si è visto nel corso della conferenza atomica tenutasi nella stessa città di Ginevra  che aveva ospitato la conferenza dei quattro Grandi - davanti ad un dilemma pauroso quanto fantastico, ricattatorio quanto grossolanamente stupido. Dopo che i Salomoni della fisica nucleare radunati a Ginevra hanno interloquito nel grande baccano degli imbonitori della «distensione», la tanto strombazzata  «coesistenza pacifica» dei blocchi non viene posta più, dai maramaldi della stampa, come alternativa alla «guerra fredda». Dopo che gli scienziati atomici hanno dipinto a tinte nerissime l'avvenire che attende la civiltà qualora non si provveda ad addomesticare la energia nucleare, piegandola alle esigenze industriali, il dilemma in cui viene a trovarsi la derelitta umanità è: coesistenza pacifica o ritorno alla preistoria? Né più né meno. Di conseguenza,chi si fa beffe della distensione e ritiene che la conferenza di Ginevra sia null'altro che il «dieci anni dopo» della conferenza di Potsdam, nel corso della quale i vincitori della seconda carneficina mondiale sedettero a spartirsi il bottino, costui non può essere che un nemico della civiltà, un sabotatore della rivoluzione industriale atomica, un fautore della resurrezione della preistoria. Sappiamo, allora, di che saremo incolpati da coloro che inculcano negli operai l'ammirazione fanatica e cretina per la civiltà, per la capitalistica civiltà del profitto!

Alla Conferenza atomica di Ginevra, organizzata dagli Stati Uniti e svoltasi con il concorso dei rappresentanti di settantadue nazioni, tra cui spiccavano in primo piano, oltre i già nominati Stati Uniti, le altre due potenze atomiche dell'Inghilterra e della Russia, gli scienziati riuniti in solenne consesso (insieme con gli industriali, i tecnici e i giornalisti accorsi da tutte le parti del mondo, 4000 persone) emettevano una sentenza di morte a carico della civiltà, la cui esecuzione ritenevano però doversi fissare non prima dell'anno 2100. Perché proprio la fine del primo secolo del 2000 e non un'epoca diversa? Perché i calcoli che hanno riscosso la piena accettazione del congresso atomico stabiliscono che entro l'anno fatale del 2100 le riserve mondiali di energia (petrolio, carbone, combustibili gassosi) risulteranno completamente esaurite. Fin da oggi, perciò, gli scienziati prevedono che attorno a quella data la civiltà industriale dovrà arrestarsi, la storia dovrà subire un inarrestabile movimento a ritroso e la specie umana - almeno la parte di essa che all'epoca godrà della civiltà - sarà risospinta nella calanti tenebre della preistoria. Sembra una favola da fantascienza, sicuramente lo è, ma non siamo noi ad inventarla. Si tratta però, di una lugubre favola a lieto fine. Infatti, la condanna a morte, letta dalla conferenza atomica alla imputata civiltà, non è astretta ai rigidi schemi dell'inappellabilità godendo del ... beneficio della condizionale.

Una via di scampo per la minacciata civiltà esiste, ed è quella che la conferenza atomica, in una orgia di avvenirismo che male si confà al congenito scetticismo borghese, ha additata sicuramente: lo sfruttamento per usi industriali dell'energia nucleare.

Risparmiamo al lettore  la fatica a cui le mirabolanti rivelazioni sui «miracoli dell'atomo» (fino a ieri facevano miracoli soltanto le madonne lacrimanti!) assoggettano il cervello. Non elenchiamo anche noi le stupefacenti (per i gonzi) anticipazioni sulla fotosintesi artificiale e la produzione a prezzo zero della energia elettrica, sugli isotopi radioattivi e la ... taurizzazione delle cellule sessuali umane. Pasti luculliani a base di tali intingoli la «Domenica del Corriere» ne fornirà ai suoi lettori a getto continuo. Per noi basta sapere che gli alimenti prodotti con l'ausilio dei concimi radioattivi o l'energia elettrica scaturente dai reattori o l'eterna giovinezza di quelle certe ghiandole, dovremo comprarceli, come adesso compriamo i finocchi concimati con sterco umano o le fiale (per chi ne ha bisogno) di testosterone. Ci basta sapere che la «civiltà dell'atomo» non meno che la «civiltà del petrolio» continuerà a funzionare,  se  i Grandi continueranno a troneggiare, nelle assurde e infami forme mercantili e monetarie della produzione capitalista. Torniamo, perciò, alla conferenza atomica di Ginevra, che stavamo considerando nei suoi addentellati politici.

La catastrofe terrestre e extra terrestre (perché, a quell'epoca, come il congresso astronautico di Copenaghen ha rivelato, si viaggerà sulle rotte interplanetarie) che attende la civiltà di lor signori, potrà essere evitata, dunque, alla sola insostituibile condizione che l'industria e la tecnologia imparino ad alimentarsi dell'energia atomica. Sentite quello che sull'argomento scriveva l' «Unità», cioè un organo di una della quattro grandi potenze atomiche nel suo numero del 13 agosto 1955:

«Si avvicina il giorno in cui l'uomo si troverà di fronte al dilemma di modificare radicalmente tutta la struttura industriale creata nel corso dei secoli, o rassegnarsi a regredire verso forme di vita che consideriamo sepolte nella più lontana preistoria. La soluzione di questo dilemma è affidata alla energia atomica». Più avanti, il giornale che è in Italia il più pervaso dallo «spirito di Ginevra» gettava un angosciato grido di allarme: «Entro un secolo - hanno detto gli scienziati (a Ginevra) - le ricchezze energetiche di cui l'uomo ancora dispone non basteranno più ad assicurare il progresso della civiltà. Un grave pericolo ci minaccia: la rapida estinzione delle riserve mondiali di energia esauribile (carbone, petrolio, gas naturali) come conseguenza dell'impetuoso sviluppo industriale e dell'aumento massiccio della popolazione nei cinque continenti».

Passaggi di questo tenore, in cui la messianica fiducia nell' «al di là» della rivoluzione industriale atomica si mescola ai lugubri richiami al noto concetto scientifico della esauribilità delle scorte mondiali di energia, se ne trovano a dozzine su tutti i giornali. Al lettore sprovveduto potranno sembrare coinvolgere questioni puramente scientifiche. Invece, da nessuna parte, come dalle volgarizzazioni giornalistiche dei risultati della conferenza atomica, traspaiono i segreti legami che stringono la scienza alla politica, gli scienziati ai capitalisti. L'aspetto politico, che era poi quello predominante della conferenza atomica, veniva posto brutalmente in luce nella parte dell'articolo dell' «Unità» che stiamo esaminando, ove si leggeva testualmente: «Alla base della decisione storica, posta in atto dagli scienziati riuniti nella città svizzera di scambiarsi i più gelosi segreti dell'energia atomica, si possono riconoscere facilmente alcune osservazioni. innanzi tutto la convinzione che nessuno Stato può illudersi di procedere speditamente da solo sulla strada del pacifico progresso atomico, poiché le ricerche condotte in questo campo sono giunte ad un punto oltre il quale lo scambio di esperienze e di informazione diviene non soltanto utile ma indispensabile». E più oltre: «L'avviamento allo sfruttamento pacifico delle scoperte atomiche su scala internazionale ha un prezzo ben definito; la rinuncia alla politica di forza, l'adozione di nuove forme di coesistenza fra gli Stati,  la distruzione delle bombe atomiche. Questi, per sommi capi, le più urgenti questioni che sono in fondo al dibattito in corso a Ginevra».

Vorremmo soffermarci a lungo, se ce lo consentisse lo spazio, su questo passo davvero ripugnante dell' «Unità» che in poche righe riesce a sputare su almeno due delle principali ideologie tradizionali dello stesso stalinismo e a falsare un incontrovertibile dato di fatto, che cioè anche in regime di dualismo politico ed ideologico le grandi potenze sono riuscite da sole, senza scambio di «segreti atomici», a fabbricarsi pile atomiche e, purtroppo, bombe nucleari e termonucleari. Le invenzioni ideologiche poi che l'articolo dell' «Unità» viene a sconfessare ignominiosamente, pur facendo esse parte della dottrina del falso comunismo russo, sono: 1) la pseudo-teoria del «socialismo in un solo paese», giacché l' «Unità» nega che possa esistere uno Stato capace di «procedere da solo sulla strada del progresso atomico»; 2) la teoria lanciata da Zdanov alla costituzione del Cominform secondo la quale il mondo risultava diviso negli opposti campi dell'imperialismo e dell' «antimperialismo», poiché l' «Unità» ritiene possibile e indispensabile la «adozione di nuove forme di coesistenza fra gli Stati». Secondo gli uomini di Mosca, il «comunismo» che dicono essere in «costruzione» in Russia non può svilupparsi senza la collaborazione atomica internazionale, e quindi senza l'apporto dell'imperialismo anglo-americano. Bulganin e Kruscev che oggi inneggiano alla coesistenza considerano, dunque, un cumulo di fesserie l'atto costitutivo del Cominform? Non crediamo di confondere con tali quesiti la spudorata impassibilità dei funzionari socialcomunisti stipendiati per sostenere quello che, volta a volta, fa comodo a Mosca!

«Il mondo è uno» esclamava la «Unità» e intendeva dire che sta diventando «uno», anzi è già diventato «uno» dall'epoca delle ginevrine celebrazioni al nuovo idolo monista scelto a patrone della «coesistenza». Già, «uno» fu pure lo scopo che legò intimamente la Conferenza dei quattro Grandi e la Conferenza atomica, tenutesi, a distanza di qualche settimana, nella stessa città di Ginevra. Ma è successo mai che il mondo borghese si sia spezzato in due? Sicuramente. Ciò accadde ogni volta che la società borghese si divise sulla linea del fuoco della rivoluzione e della guerra di classe. Di tali fenomeni storici, non certamente frequenti, noi conosciamo le date e le sedi: giugno 1848 a Parigi, marzo-maggio 1871 a Parigi, ottobre 1917 a Pietroburgo e Mosca. In tali epoche e luoghi sicuramente il mondo non è stato «uno». Ma dal 1926 circa fino ad oggi su di esso è tornato a regnare assolutisticamente l'ordine sociale e politico garantito dallo Stato borghese. Da allora, sempre, il mondo è stato «uno», anche quando Stalin e Zdanov inventarono quell'aborto nauseante di internazionale che fu il Cominform e dichiararono «diviso» il mondo nei campi della democrazia e del socialismo avanzante da una parte, e del fascismo e dell'imperialismo dall'altra.

Prima delle conferenze ginevrine si poteva, a seconda della polarizzazione internazionale delle proprie antipatie politiche, essere nemico della «storia come è vista a Washington» oppure avversario della «storia come è concepita a Mosca». Dopo i consessi di cui sopra, chi è contrario alla politica dei Grandi, alfine riappacificati, non può essere, anche se non se ne rende conto, che nemico della storia «tout court», e nostalgico del ... paleolitico!

Alla «loro» conferenza, i quattro Grandi, cioè le tre grandi potenze uscite vittoriose dalla seconda guerra mondiale: Stati Uniti, Russia, Inghilterra, a cui la Francia è ammessa a tener compagnia, fecero chiaramente capire, pur tra abbracci e sorrisi melati, che è loro concorde intendimento assoggettare i due miliardi e passa di terrestri all'autorità una e trina dell'imperialismo. Ma toccò alla conferenza degli scienziati atomici, o quali non per nulla sono, per la loro qualifica professionale degli autentici funzionari di Stato, spargere la lieta novella che alle origini della «distensione» o del «disgelo» o del «clima nuovo» che dir si voglia, agiscono non già le insopprimibili necessità economiche che spingono i mastodontici potenziali dei «Grandi» a trovare reciprocamente mercati di sbocco, ma il disinteressato amore che i governi di  Washington, Mosca e Londra nutrono per la specie umana.

Senza la rivoluzione apportata dall'energia nucleare applicata alla industria - hanno detto i savissimi Salomoni atomici - la civiltà corre il rischio di perire per estinzione delle riserve e combustibili naturali. Ma il progressivo addomesticamento dell'energia nucleare può attuarsi - si sono affrettati ad avvertire - soltanto nelle condizioni internazionali stabilite dalla «coesistenza pacifica» dei blocchi da cui deriverà la possibilità  di scambio e di messa in comune delle scoperte teoretiche della fisica nucleare. Capovolgendo il ragionamento, si ottiene che chi è contro la «coesistenza», cioè la dominazione concordata dei Grandi alla scala mondiale, lavora per ciò stesso contro il progresso storico e addirittura congiura per riportare l'umanità nella oscurità della preistoria. Cose non certamente nuove nella bocca della classe dominante che sempre ha identificato la propria esistenza con la esistenza del resto della società e sempre si è servita - per atterrire e turbare le masse sfruttate - della falsa tesi che la sua propria rovina può condurre solo al disgregamento sociale e al ritorno a forme di convivenza inferiori.

Ieri, mentre la «guerra fredda» infuriava con la apocalittica minaccia della distruzione della civiltà, se non addirittura della specie umana ad opera della guerra termonucleare; oggi, mentre la «distensione» tinge il mondo di rosa, con lo spettro dell'anno 2100 in agguato e con la minaccia della estinzione dei serbatoi naturali di ricchezze energetiche, l'imperialismo si prefigge di terrorizzare le masse lavoratrici per averle, inerti e supine, nelle mani. A furia di minacce, l'imperialismo è riuscito a superare questi dieci anni che ci separano dalla seconda guerra mondiale. Con gli stessi metodi del terrorismo psicologico, sempre pronto a convertirsi in aperta repressione armata, esso si appresta sotto la maschera della «coesistenza», a percorrere il periodo testé aperto (quanto durerà?) a termine del quale lo attende lo scoppio delle inestirpabili contraddizioni del modo di produzione capitalista.

Sì. Il mondo borghese è uno, perché unitario è, al di sopra delle rivalità nazionali e delle coalizioni militari, il suo schieramento di fronte alle masse lavoratrici, unitario il suo scopo fondamentale: la conservazione del lavoro salariato. Sfidandosi o accordandosi, guerreggiando «a freddo» o convivendo nello «spirito di Ginevra», Stati Uniti, Inghilterra, Russia e Francia, i vincitori del secondo massacro mondiale, sono sempre stati uniti contro il proletariato, contro coloro che hanno in comune, sia che lavorino nelle fabbriche di Pittsburg o in quelle di Leningrado o di Coventry, la condanna del salariato.

 

il programma comunista, n. 16, 9 - 23 settembre 1955