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archivio > Archivio sulla sinistra>Glorie del capitalismo: figli come capitali, (il programma comunista, n. 10, maggio 1953)

aggiornato al: 30/12/2008

il programma comunista, n. 10, 21 maggio - 4 giugno 1953

A fine anno un magnifico articolo di il programma comunista del 1953: evitiamo i commenti, non ne ha bisogno.

 

Glorie del capitalismo

Figli come capitali

 

Non potremmo essere sicuri, come fermamente lo siamo, della distruzione rivoluzionaria del capitalismo, se uno, uno solo, settore dei suoi ordinamenti sociali risultasse sano, non affetto dalla tabe dissolutrice che irreparabilmente divora il nostro nemico. Ciò ben sanno i laudatori dell'ordine costituito, e perciò si arrovellano a pretendere che nella generale dissoluzione, almeno un baluardo della conservazione si salva: la famiglia, cioè gli ordinamenti giuridici e le tradizioni del costume che presiedono, sotto il capitalismo, alla funzione della riproduzione della specie umana. Fatica sprecata! Ipocrisia ributtante, quando accadono fatti così stridentemente contrari alla natura umana come quello recentemente successo nella Mecca del capitalismo mondiale, nel libero paese degli Stati Uniti.

I giornali ne hanno parlato diffusamente, ma si sono limitati naturalmente a rappresentare l'orrendo misfatto di un uomo che massacra di botte la propria figlioletta fino a provocarne la morte, e ciò solo per schifosi calcoli affaristici, come un caso eccezionale della criminologia. In realtà, la piccola Kathy Tongay, la nuotatrice prodigio, che abbiamo visto prodursi in meravigliose acrobazie subacquee in un film interpretato dalla campionessa di nuoto Esther Williams, è morta assassinata dal proprio padre perché la base della famiglia, sotto la dominazione della borghesia, è la stessa su cui si innalza tutto il mostruoso cavalletto di tortura su cui il capitalismo lega gli uomini: il salario, lo stipendio, la compravendita forzata dell' energia vitale, della forza di lavoro. Comodo, soprattutto ipocrita, addossare a mister Tongay la responsabilità dello strazio e della morte della figlia. Egli ha ucciso la piccola, sottoponendola ad allenamenti stremanti, appunto come impresario ed allenatore di un «numero» sensazionale, produttore di profitti rilevantissimi. La stampa borghese ha insistito naturalmente nella presentazione del «Padre degenere seviziatore della propria creatura». Ma è chiaro che i rapporti intercorrenti tra la «bimba prodigio» Kathy, nuotatrice di eccezione, e mister Tongay, suo aguzzino e assassino, cessavano di essere quelli naturali tra padre e figlia, degenerando disumanamente in esosi rapporti tra l'imprenditore proprietario di un capitale e lo strumento di produzione. E forse che il modo di produzione capitalista ha di mira il benessere delle forze vive della produzione? La piccola Kathy aveva tratto dalla nascita un patrimonio di agilità e di armonie fisiche che, se fosse vissuta in un diverso regime sociale,  avrebbe costituito solo un «capolavoro della Natura»; sotto la dominazione della borghesia, che oramai ha mercantilizzato persino lo sport, doveva trasformarsi in capitale generatore di profitti. Necessariamente doveva avanzare un imprenditore sfruttatore che vi accampasse sopra il proprio diritto. Allora la versione dello sconcio fatto è un'altra: «Mister Tongay ha sperperato il proprio capitale». Che il «capitale» fosse sua figlia è una cosa del tutto fortuita.

La giustizia americana ha incriminato mister Tongay dell'assassinio della piccola Kathy, sua figlia. Le carte dei giudici istruttori sono in regola. Esiste il referto del medico legale: «24 ore prima del decesso, avvenuto improvvisamente, la bimba era stata battuta in maniera estremamente brutale». Esistono le testimonianze del maestro di nuoto della piscina di Treasure Island dove la «nuotatrice prodigio» e il suo fratellino Bubba conducevano i loro quotidiani allenamenti, il quale ha dichiarato che alla vigilia della morte la bambina presentava contusioni sul corpo. A Miami si apprendeva che mister Tongay obbligava i propri figlioletti a reggersi a galla con i polsi e le caviglie legate. Non basta. Quattro anni prima, un altro suo bambino era morto a diciotto mesi e l'autopsia aveva rivelato che la morte era dovuta a emorragia cerebrale provocata da una lesione alla testa. I coniugi Tongay  all'epoca si difesero sostenendo che il piccolo era precipitato per le scale, ma alla luce dei metodi stakhanovisti di allenamento applicati alla piccola Kathy. è lecito revocare in dubbio la deposizione dei coniugi-impresari. Se la percossa è un danno fisico, la multa erogata dal sorvegliante del capitalista nella fabbrica, in quanto limita i consumi dell'operaio, è una forma di costrizione e di punizione fisica, è la traduzione in linguaggio capitalista del colpo di sferza dell'aguzzino degli schiavi. Mister Tongay, nella impossibilità di applicare multe alla piccola Kathy, desiderosa di essere bambina e niente affatto «prodigio» la sottoponeva a violente bastonature. Agiva da padre? No, da capitalista, da impresario. La giustizia americana, la più ipocrita e feroce del mondo, condannerà mister Tongay in quanto assassino. Ma se fa così, non si intende che la condanna va estesa ai Ford, ai Morgan, a tutta la classe degli imprenditori? Mister Tongay potrà sempre pretendere di avere il diritto di usare della vita di esseri che in fin dei conti egli e la sua degna consorte hanno messo al mondo. Non così i suoi colleghi commercianti in automobili, frigoriferi, scatolette, anziché in «numeri di varietà».

Il solito imbecille dirà che mister Tongay non è tutto il mondo. Certamente non accade tutti i giorni che un uomo commetta delitti simili a quelli da lui commessi. Ma che dovremo attendere che una epidemia di «casi Tongay» si verificasse per accorgerci della assurdità dei rapporti familiari propri della società borghese? Ognuno di noi, in quanto marito e padre, in quanto moglie e madre, in quanto figlio, sente, sia pure senza sapersi spiegare le cause sociali della crisi, la decadenza della famiglia, l'inconciliabilità delle forme di matrimonio e delle esigenze dell'allevamento dei figli con i rapporti di produzione borghesi. La famiglia è un gruppo di esseri che vive su un salario, o uno stipendio, ecco il matrimonio imposto dal capitalismo! E come si può pretendere che il regime del salario, dello sfruttamento, così violento, così feroce, da cui derivano costumi sociali improntati alla sopraffazione materiale, alla coercizione, alla menzogna e al servilismo abietto, possa essere circoscritto alla fabbrica, cioè al campo della produzione dei beni, e rimanere fuori dalla sfera della riproduzione, del matrimonio, di quella che Marx chiama la «produzione dei produttori»? La verità, l'amara verità, è che gli uomini se producono i beni economici in condizioni indegne persino delle bestie, in eguale ambiente di schiavitù e di coazione svolgono la funzione riproduttiva, la perpetuazione della specie. Allora è chiaro che se di mister Tongay ne esistono fortunatamente pochi, tutti quanti viviamo nello stesso rapporto familiare, senza di cui il delitto di Mister Tongay sarebbe inconcepibile, impossibile.

Tipi di famiglie che non si fondarono sul salariato sono storicamente esistiti. A scorno dei porci borghesi, il matrimonio di tipo borghese non è un dato eterno nella evoluzione storica della specie umana. Un tempo gli uomini non hanno neppure saputo immaginarne l'avvento; vivevano in forme matrimoniali mille volte migliori e più aderenti alla natura umana. Si intende che parliamo della epoca precedente non solo il capitalismo, ma tutto il ciclo immenso della civiltà, cioè della lunga epoca della divisione in classi e della dominazione politica dello Stato. Un esempio ci viene dalla stessa terra di mister Tongay, da una collettività semibarbara che la luminosa civiltà capitalistica del dollaro doveva spietatamente schiacciare: la tribù pellerossa.

Una scrittrice americana Mary Sandoz, insegnante all'Università di Wisconsin che ha vissuto tra gli indiani Sioux e Chevenne, ha descritto in alcuni libri i loro costumi, o meglio quel che rimane dei costumi dei loro padri. Su «Selezione» del luglio 1952 apparve un suo articolo che qui ci interessa citare perché illustra i metodi di allevamento dei bambini seguiti dai pellirosse. Chiamata a vedere un bambino da poco nato, la scrittrice assistette ad un avvenimento che in nessuna clinica pediatrica, nonostante la boria dei nostri scienziati e pedagoghi, vedrete ripetersi.

«Nell'interno scuro di una vecchia tenda fumosa - racconta Mary Sandoz - una donna indiana stava china sul neonato che teneva in grembo. Al rumore che facemmo entrando agitate e curiose, la faccina rosso-bruna della bambina si increspò tutta. La madre strinse delicatamente il nasino tra il pollice e l'indice, e posando sulla bocca la palma della mano, soffocò il grido in silenzio. Quando il bimbo cominciò a contorcersi per respirare, allentò un po' la stretta, ma soltanto un po' e al primo accenno d'un altro grido impedì di nuovo il passaggio dell'aria, canterellando a mezza voce una canzone chevenne  perché il bambino cresca bello di membra e saldo di corpo e di cuore».

Da bambini sapevamo dello straordinario stoicismo degli Indiani, della loro capacità di affrontare i più atroci supplizi senza emettere un solo grido, e tanto meno versare una lacrima. Ma non sapevamo che erano le madri indiane ad impedire ai loro bimbi, diciamo così, di apprendere a piangere. Né manca una spiegazione materialistica della meravigliosa pedagogia (nonostante la mancanza di filosofi nella tribù) seguita dagli Indiani. Un bimbo spaventato che gridava mentre il nemico si avvicina di notte al villaggio, o i cacciatori attaccano una mandria di bisonti, poteva mettere in pericolo la esistenza fisica della intera tribù. Nella epoca del radar e delle armi telecomandate, il pianto dei bambini viene considerato... una ottima ginnastica respiratoria!

Un altro passaggio dell'articolo della scrittrice americana amica degli indiani ci interessa. Scrive costei: «Sapevo che questo bambino non sarebbe mai stato toccato da una mano punitrice. Lo avrebbero reso capace di far fronte alle accresciute esigenze del suo mondo senza ricorrere a punizioni fisiche. Mi ricordavo la severa disapprovazione sui volti dei Sioux quando nell'impeto della collera mio padre ci picchiava. Questi indiani considerano ancora i bianchi come un popolo brutale che tratta i propri bambini come nemici che conviene blandire, punire o vezzeggiare come fragili balocchi. Essi credono che i bambini trattati a quel modo siano destinati a crescere deboli e immaturi, soggetti a scoppi di ira senza ritegno in seno alla famiglia. Ci fanno notare la crescente indisciplina e violenza dei nostri giovani, così spesso rivolta contro i più anziani di loro, cosa sconosciuta tra gli indiani». Chiaro che se la piccola Katy non fosse soggiaciuta alle sevizie, divenuta adulta, avrebbe trattato il feroce padre come meritava. Come sarà stato allevato dai genitori mister Tongay? Non certamente alla maniera indiana, non certamente da un uomo e da una donna, ma da due schiavi del salario, o dello stipendio o peggio, del profitto.

Un altro brano dell'articolo da cui appare come la civiltà allenta nell'uomo il legame con la natura: «Quando il bambino indiano cominciò a camminare nessuno gli gridava: «No, No!» tirandolo via dal rosso allettante del fuoco. «Bisogna imparare dal morso della fiamma a lasciarla stare». Quando il bimbo indiano ebbe un mese e mezzo già conosceva l'acqua. «Deve andare al fiume prima che si dimentichi il nuoto», mi disse la madre, sicura che quell'abilità fosse concessa dalla nascita ai piccoli di tutte le creature senza distinzioni: al cucciolo, al puledro, al bufaletto, al bambino. Il bambino nuotava già bene prima di saper camminare, perciò non c'era pericolo a lasciarlo giocare sulla sponda del placido fiume».

Katy Tongay è morta perché non nuotava come sarebbe piaciuto al padre, desideroso di pubblicità e di contratti con le case cinematografiche. Mister  Tongay pretendeva di insegnarle il nuoto, legandogli polsi e caviglie! Quante cose il capitalismo pretende di insegnare agli uomini, mentre riesce solo a farne dei mostri, man mano che distrugge in essi la loro natura umana, trasformandoli in incoscienti ingranaggi della macchina produttiva.

 

il programma comunista, n. 10, 21 maggio - 4 giugno 1953