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archivio > Archivio sulla sinistra>L' Ordine Nuovo 1919 - 1920, (il programma comunista, n. 22 e 23, dicembre 1954)

aggiornato al: 28/11/2008

il programma comunista, n. 22 e 23, 1954

Riproponiamo un articolo di critica dell'ordinovismo e delle posizioni di Gramsci del lontano 1954. Di Gramsci in questi giorni, in mancanza di meglio, è riapparsa la notizia di una sua pretesa conversione religiosa in punto di morte.

Come scrive Simonetta Fiori su La Repubblica del 26 novembre: «Gli ultimi giorni di Gramsci sono diventati ormai un genere letterario. Dopo "l'omicidio per avvelenamento", il "suicidio", il "tentativo di sequestro da parte di Stalin" - tutte ipotesi formulate nel corso degli ultimi anni - ora è la volta della "conversione"».

Ci pare una leggenda come pure però una leggenda è la sua appartenenza, come teorico, al marxismo. Ideologicamente Gramsci fu di formazione idealistica ed extramarxista e fu usato, lui consenziente, dall'Internazionale Comunista per condurre la battaglia contro la Sinistra: una volta adempiuto il suo compito fu lasciato marcire e morire in galera.

Del nuovo interesse per il passato di Gramsci è testimonianza anche il libro di Giancarlo Lehner, senatore berlusconiano, La famiglia Gramsci in Russia, su cui ci sarebbe parecchio da dire e dove assistiamo, in un rovesciamento dei termini, (l'anticomunismo dell'autore è rivolto visceralmente contro Stalin e Togliatti - che dell'anticomunismo furono maestri - ) ad una riabilitazione di Bordiga «Bordiga, fondatore del PCI, in seguito espulso, insultato e calunniato da Togliatti e dagli altri stalinisti, diverrà una sorta di appestato, il nostro Trockij, sul quale i comunisti italiani faranno a gara nel rovesciare addosso le più infami etichette. Del resto Stalin per primo aveva pubblicamente affermato di considerare Bordiga un blasfemo rompiscatole. (p. 63) » e ad una descrizione idilliaca dei rapporti tra Bordiga e Gramsci.

Su questo libro ritorneremo e, se magari qualcuno volesse farne una recensione, saremo lieti di ospitarla.  

 

L' «Ordine Nuovo» 1919-1920

 

Gli scritti di Gramsci si leggono sempre col rispetto per chi, faticosamente e lealmente, si sforza di uscire dall'involucro di una cultura e di una formazione idealistica, per avvicinarsi all'interpretazione della vita e della storia propria del marxismo. Ma il rispetto non altera il fatto che tutto il pensiero di Gramsci ha continuato a girare nell'orbita di un'ideologia extramarxista. La recente edizione della produzione 1919-20 sull' «Ordine Nuovo» ne è la più schiacciante conferma, forse ancor più chiara oggi che la si vede in una prospettiva lontana.

La prima cosa che colpisce è la completa assenza di Gramsci e del suo gruppo dal processo di formazione del partito di classe che, svoltosi in tutto il 1919 e 1920, dovrà sboccare, al gennaio 1921, nel congresso di Livorno e nella fondazione del P.C.I. Più o meno interventista nel 1915, riaccostatosi al movimento socialista negli ultimi anni di guerra, Gramsci – che pochi giorni dopo la rivoluzione di ottobre aveva scritto un articolo sull' Avanti! per dimostrare che l'Ottobre bolscevico rappresentava una sconfitta del ... Capitale di Marx! – venne via via avvicinandosi al moto e all'ideologia rivoluzionaria del proletariato sotto la spinta e il fascino degli avvenimenti, ma senza la percezione della loro portata e del loro significato storico. In questi due anni cruciali non si trova uno scritto che palesi la partecipazione di Gramsci e del suo gruppo al dibattito che pur infuriava in seno al partito socialista, e che già al Congresso di Bologna aveva visto la Frazione Astensionista, col suo «Soviet» gettare le basi organizzative e teoriche del nuovo partito; e bisognerà arrivare alla nota mozione «Per un rinnovamento del Partito socialista» al Consiglio nazionale del maggio 1920 – relazione che Gramsci scrisse ma che altrettanto notoriamente rifletteva il pensiero della sezione torinese, in grande maggioranza «astensionista» – per trovare un documento, l'unico, che rechi un contributo a quella battaglia. Assente a Bologna, assente a Mosca, assente sulla scena italiana della formazione organizzativa e ideologica del partito di classe, Gramsci osserva gli avvenimenti e li commenta; ma invano si cercherebbe negli scritti dell' «Ordine Nuovo» l'impostazione rigorosamente marxista, la saldezza e sicurezza ideologica, propria degli organi in cui si espresse, in quel primo dopoguerra, il grande moto culminante nella Terza Internazionale dei lavoratori.  Persino nella forma, il Gramsci 1919-20 ricorda Sorel, anch'egli avvicinatosi sotto la suggestione dell'ora al «fenomeno» della rivoluzione russa ma non al bolscevismo, non al marxismo.

Questa assenza ha ragioni non contingenti, ma profonde. Come Gobetti, sebbene su un piano più alto e diretto, o come per un altro verso Sorel, Gramsci entra nella corrente della lotta rivoluzionaria del proletariato non per averne abbracciato gli interessi o i programmi,  ma per aver creduto di trovarvi la soluzione dei suoi problemi intellettuali. Vi cerca la formazione dell'Uomo nuovo, di una nuova coscienza, di un nuovo mondo; tutto ciò non si esprime nel programma del Partito di classe, non si esprime neppure nella lotta generale di classe del proletariato: Gramsci lo ripete mille volte, egli vede e cerca non il salariato – cioè appunto la classe che il capitalismo genera dal suo seno come forza antitetica, e che si organizza come tale nel Partito – ma vede e cerca «il produttore», l'operaio che, nell'ambito della stessa fabbrica capitalista, è stretto ai suoi compagni di lavoro da un legame obiettivo, e alla fabbrica e alla macchina da un rapporto vitale permanente. Già qui, già ora, nella stessa società capitalistica, sorge, a guisa di piccola isola, la società nuova; ogni consiglio di fabbrica sorto è una «vittoria del comunismo»; è in questa organizzazione che «aderisce plasticamente al processo produttivo», che si realizza non solo l'unità di lotta, ma lo stesso potere della classe rivoluzionaria. Così, la concezione generale della lotta di classe si frantuma in un mosaico di «stati d'animo» e di «psicologie» corrispondenti al quadro limitato della fabbrica, anzi del reparto, e delle sue lotte parziali: l'esperienza del Soviet russo, organizzazione che abbraccia proletari di tutte le provenienze e professioni, decade al livello di un organismo aziendale, il Consiglio di Fabbrica, e questo non è soltanto un organismo di battaglia, è «il più idoneo organo di educazione reciproca e di sviluppo del nuovo spirito sociale, che il proletariato sia riuscito ad esprimere dall'esperienza viva e feconda della comunità di lavoro... [Nel Consiglio] la solidarietà operaia è positiva, è permanente, è incarnata anche nel più trascurabile dei momenti della produzione industriale, è contenuta nella coscienza gioiosa di essere un tutto organico, un sistema omogeneo e compatto che, lavorando utilmente, che producendo disinteressatamente la ricchezza sociale, afferma la sua sovranità, attua il suo potere e la sua libertà creatrice di storia».  Un organismo, dunque, dal quale nasce spontaneamente, «automaticamente», l'ideologia comunista, che non ha bisogno del supporto del Partito se non come di uno strumento pragmatico di collegamento, che non ha bisogno di un programma e di un'ideologia perché la crea esso stesso, ed è, non solo in potenza, ma in atto, una prima realizzazione della società nuova, della «libertà creatrice di storia». Per dirla ancora con Gramsci: «Ogni consiglio di operai industriali o agricoli che nasce intorno all'unità del lavoro... è una realizzazione comunista»!

 

(continua)

 

La portata di questo orientamento, e il suo carattere extramarxista, risultano appieno se si confrontano le formulazioni del gruppo dell'Ordine Nuovo con quelle classiche del «Che fare?» di Lenin, su cui si costruì non soltanto la teoria ma la pratica e l'organizzazione del partito di classe e dell'Internazionale Comunista (e che, val la pena di ricordarlo, aveva per bersaglio lo economismo non soltanto dei sindacalisti ma degli aziendisti). Per l'ordinovismo, il centro del movimento proletario è l'azienda (per dirla con Lenin, l'arena «dei puri rapporti fra operai e padroni»): per Lenin, cioè per il marxismo, è la «sfera dei rapporti di tutte le classi e strati della popolazione con lo Stato, il dominio dei rapporti di tutte le classi fra loro». Per l'ordinovismo la formazione di un'ideologia comunista e di una coscienza di classe è il prodotto automatico dell'associazione dei proletari per azienda e per reparto: per Lenin il quadro della lotta economica – e la lotta aziendale è forzatamente lotta economica – «è troppo ristretto», «la coscienza politica di classe non può essere apportata all'operaio che dal di fuori, cioè dal di fuori della lotta economica, dal di fuori della sfera dei rapporti fra operai e padroni». Per l'ordinovismo la formazione della coscienza di classe, del programma di classe e quindi del partito di classe è un prodotto della «spontaneità» di gruppi di lavoro plasticamente aderenti al processo di produzione: per Lenin, «non può essere questione di una ideologia indipendente, elaborata dalle stesse masse operaie nel corso del loro movimento»: il partito si forma attraverso una «lotta implacabile contro la spontaneità»: inchinarsi alla «spontaneità» è «ricondurre il ruolo della socialdemocrazia (si ricordi che socialdemocrazia era allora termine equivalente a partito di classe) a quello di semplice serva del movimento operaio in quanto tale», e il movimento operaio abbandonato a se stesso scivola inevitabilmente «sotto le ali della borghesia»: «senza teoria rivoluzionaria niente movimento rivoluzionario»: «solo un partito guidato da una teoria di avanguardia può svolgere il ruolo del combattente di avanguardia». Gramsci ha un bel riempire lo schema del consiglio di fabbrica di obiettivi e contenuti che vanno oltre il tradunionismo, in polemica (e qui giustamente) contro il professionalismo gretto della burocrazia sindacale, assegnandogli una funzione che potremmo chiamare di «levatrice dell'operaio come produttore»; ma dal «quadro ristretto» dell'azienda non si sale, più che dal quadro ristretto del mestiere inquadrato sindacalmente oltre il livello dei «rapporti fra operai e padroni», oltre il livello del tradunionismo. Anzi, peggio ancora: se il sindacalismo chiude la lotta proletaria nell'ambito della lotta economica e della riforma sul terreno delle contrattazioni salariali, l'aziendismo lega l'operaio ad una sorta di fedeltà al reparto, alla «sua macchina», come tanto spesso ripete Gramsci (frase ahimè, fatale!), al suo piccolo campanilismo di operaio della Fiat, della Montecatini, della Snia Viscosa, non lo mette neppure a contatto di quella lotta generale delle classi che, bene o male, inevitabilmente si riflette nel sindacato di mestiere e nella tradizionale camera del lavoro. E' far torto alla memoria di Gramsci osservare come questa teoria dalla quale il suo artefice principale faticosamente si sollevò sotto la spinta del movimento, ma che doveva riapparire con tutta la sua fatale influenza nei momenti di controrivoluzione, portava diritto alle teorie odierne dei produttivisti, dei collaborazionisti di classe, dei cavalieri erranti della nostra fabbrica, della nostra produzione, delle nostre attrezzature industriali?

Il rapporto era così capovolto: non l'ideologia del partito di classe che va portata entro il chiuso dei «rapporti fra operaio e padrone» per spezzarne il cerchio, e saldare la lotta dell'operaio sul terreno economico-aziendale alla lotta generale di classe per l'abbattimento degli organo centrali del potere borghese: ma dal chiuso di piccole isole aziendali germoglia il programma, (un programma non codificato da un secolo di lotte proletarie e da difendere strenuamente e rabbiosamente contro ogni «rimpicciolimento alla scala del tradunionismo», contro il pericolo di «rifugiarsi sotto le ali della borghesia»), sale via via fino a permeare l'intero tessuto della classe: è il reparto, non il partito, il depositario del programma e di quella unica forma di «coscienza» che noi marxisti possiamo concepire. Non dall'esterno ma dall'interno dei «rapporti fra operaio e padrone», non dal ferreo inquadramento teorico ma dalla spontaneità, non dal centro del movimento proletario ma dalla periferia, è il cammino dell'Ordine Nuovo: e il richiamo a una «teoria dei produttori» è una scappatoia di marca chiaramente idealistica (e infatti soreliana) per riempire di qualcosa che non può dare il perimetro dell'azienda. La quale è un'azienda capitalistica: e agli ordinovisti non si pose neppure il quesito se una «coscienza direttiva» della classe operaia potesse mai formarsi modellandosi sulla schema di un'organizzazione per aziende e a scopi di profitto che  la rivoluzione comunista è destinata a spezzare e a ricostruire su basi completamente diverse. Oggi – a conferma del  «Che fare?» – gli ex ordinovisti chiamano gli operai a difendere la ... loro siderurgia, la loro industria pesante, la loro Fiat, la loro galera dorata (e spesso nemmeno dorata).

Volete qualche citazione? «Muovendo da questa cellula, la fabbrica, vista come unità, come atto creatore di un determinato prodotto, l'operaio assurge alla comprensione di sempre più vasta unità... Allora l'operaio è produttore , perché ha acquistato coscienza della sua funzione nel processo produttivo, in tutti i suoi gradi, dalla fabbrica alla nazione, al mondo: allora egli sente la classe, e diventa comunista»: che è proprio l'inverso dell'impostazione leninista e l'esatto equivalente del bersaglio degli strali del «Che fare?». Ovvero: «Amalgamati intimamente nelle comunità di produzione, i lavoratori sono automaticamente portati a esprimere la loro volontà di potere alla stregua di principii strettamente inerenti ai rapporti di produzione e di scambio. Cadranno rapidamente dalla psicologia media proletaria tutte le ideologie mistiche, utopistiche, religiose, piccolo-borghesi: si consoliderà rapidamente e permanentemente la psicologia comunista, lievito costante di entusiasmo rivoluzionario, di tenace perseveranza nella disciplina ferrea del lavoro e della resistenza contro ogni assalto aperto o subdolo del passato... Il partito comunista non può avere competitori nel mondo intimo del lavoro».

Ci si stupirà che Gramsci metta sullo stesso piano l'insegnamento di Lenin e quello di Daniel de Leon, e che, mentre si riunisce a Mosca il II Congresso dell'Internazionale, i suoi occhi si volgano agli IWW americani? Ci si meraviglierà – cosa di cui Gramsci si stupisce e si addolora – se da quel II Congresso venne la condanna dell'aziendismo ordinovista (e nel difendersi, Gramsci ricade nella confusione fra Soviet e consiglio di fabbrica?) Era nella logica di due posizioni non soltanto diverse ma antitetiche.

 

il programma comunista, n. 22, 28 novembre - 10 dicembre e n. 23, 10 - 30 dicembre, 1954