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archivio > Archivio sulla sinistra>Il peso specifico dell'oro di Dongo (battaglia comunista, n. 7, 1-15 aprile 1947)

aggiornato al: 16/07/2008

battaglia comunista, 1-15 aprile 1947

Sull'oro di Dongo si sono scritti, e si continuano a scrivere libri, più o meno clamorosi, fantasiosi o interessanti (quando non interessati). Non vogliamo aggiungere una nuova voce alle varie ipotesi sulla fine del denaro, su dove sia andato a finire quel "bottino di guerra".

Ci basta offrire ai nostri lettori questo bell'articolo pubblicato da  battaglia comunista nell'aprile del 1947.

 

 

Il peso specifico dell'oro di Dongo

 

Viviamo nell'epoca classica delle regie politiche, e quella conosciuta nel ventennio mussoliniano era troppo retorica e monotona per poter assumere una linea e uno stile; quella democratica di oggi mostra quasi sempre di non avere pregi maggiori, anche se qualche eccezione deve essere fatta. L'arte, ad esempio, con cui il partito nazionalcomunista ha saputo in genere gabbare il prossimo, e attraverso una finta strategia è riuscito a portare innanzi occultamente l'episodio di Dongo mantenendo quasi sempre l'iniziativa di fronte ad interessati avversari politici anche per ciò che concerne la precisazione di episodi, di protagonisti e di responsabilità, quest'arte, diciamo, è davvero degna di nota, ha uno stile che va oltre il successo del momento, oltre il dilettantismo per caratterizzare l'epoca della democrazia progressiva.

Oggi è di scena uno dei comandanti partigiani, il colonnello Valerio. il quale parla in prima persona come colui che vuole ad ogni costo far sapere di sé e delle sue grandi imprese anche a chi praticamente se ne frega, e dice alto e forte «Io ho ucciso Mussolini!». Episodio questo che ormai non interessa gran che e sembra quasi senza eco.

Nell'affare di Dongo l'accento cade piuttosto sul tesoro di Mussolini, dei suoi gerarchi e del governo di Salò.

Il partito di Togliatti ha creduto di precisare soltanto ora alcune responsabilità e di farsene giustamente un merito. Ne preciserà forse delle altre quando lo crederà o vi sarà costretto, e sarà allora interessante osservare se ulteriori precisazioni di responsabilità del partito o dei suoi uomini maggiori avranno lo stesso tono e manterranno lo stesso stile. In altre parole si vedrà se verrà rivendicato il diritto di disporre in modo esclusivo e unilaterale, che è quanto dire come partito, dei beni di Mussolini con lo stesso titolo, con la stessa sicurezza e diremmo quasi con la stessa pubblicità con cui si è disposto della sua vita.

Non ha comunque importanza formulare a questo proposito il dubbio che la regia nazionalcomunista farà forse a meno di questa seconda esibizione di responsabilità. Quel che importa in tutto questo è la constatazione che se ciò avverrà, sarà la prova evidente che chi ha avuto nelle giornate di aprile la forza e la volontà per l'azione diretta e violenta, questa forza mantiene tuttora per difendere questo suo operato.

Non trattasi insomma d'una questione di diritto o di morale, ma di un atto politico risolto allora come oggi sul piano di modificati rapporti di forza.

Ed è ciò che realmente conta nel giudizio obiettivo dell'operare degli uomini. La dialettica storica non va alla formulazione d'un giudizio morale allorché si esaminano le ragioni per le quali è stato possibile allo spiantato di Predappio accumulare tesori spremuti giorno per giorno al mal retribuito lavoro del popolo italiano. E queste ragioni risiedono nel fatto che il proletariato era stato battuto di fronte al problema del potere non tanto dalla ripresa del capitalismo, quanto dalla incapacità e dal tradimento della sua stessa forza di guida, rappresentata allora dal Partito Socialista.

Il proletariato di fronte alla borghesia fascista aveva perduto la sua battaglia prima ancora di poter porre il problema - e neppure questo aveva potuto fare - della preparazione d'un organismo di combattimento. In una parola i rapporti di forza erano stati rovesciati dalle mutate condizioni obiettive del conflitto di classe, e Mussolini e le sue forze armate avevano libera la strada del potere, mentre il proletariato veniva esposto ai rigori d'una durissima dominazione di classe, e per i suoi combattenti migliori si aprivano le strade della deportazione, delle galere e dell'esilio.

Che in questa situazione Mussolini e i suoi accumulassero ricchezze su ricchezze, necessarie del resto ad una politica di nepotismo, a garantire abbondantemente l'esistenza del loro partito e la continuità e la sicurezza del loro governo, è cosa che rientra nei fatti della più banale amministrazione. Solo che la dabbenaggine dei gerarchi aveva creato in un mondo di cartapesta il mito della indistruttibilità del regime e della cuccagna eterna: non era nel loro preventivo una guerra lunga e tanto meno la sconfitta.

E quando tutto questo è avvenuto, e doveva avvenire perché era nella logica del contrasto imperialista, i rapporti di forza si sono ancora capovolti in danno questa volta di coloro che erano passati alla storia come gli esperti per eccellenza della tecnica della violenza.

Dongo rimane perciò l'episodio classico, la documentazione viva e brutale di questo capovolgimento maturatosi nel seno stesso della esperienza fascista e le cui menti direttive era facile individuare in quella borghesia spregiudicata che nei confronti del fascismo aveva saputo rinnovare la tattica accorta del limone spremuto, buttato a tempo nel pattume. Al moto partigiano, pur così ricco di mordente e di fermento di classe, doveva essere affidato il compito, da parte di sì subdolo mandante, di inesauribile esecutore materiale.

La borghesia terrorizzata dalla sconfitta offriva ai vincitori e all'ira popolare l'offa d'un Mussolini che la paura fisica aveva invigliacchito e reso ridicolo.

E il tesoro? Che n'era del tesoro che doveva essere alla base d'una sempre possibile ripresa della lotta fascista in Italia?

La stampa gialla, che in tutta questa campagna a sfondo scandalistico va mostrando all'evidenza la tendenza verso un ritorno al fascismo, magari ad un fascismo democratizzato, punta decisamente il dito accusatore sul moto partigiano e per esso sul partito che del partigianesimo era stato il maggior artefice, il Partito Comunista Italiano.

Questa stampa appare troppo interessata e risentita e dà l'impressione di chi, avendo subito un grave furto, cerca nella denuncia indiretta, sottile e ricattatoria un mezzo di rivincita; soprattutto quando tale furto brucia più d'una beffa per essere stato attuato da un simile concorrente sul piano della lotta politica.

Sapere l'oro di Mussolini almeno nelle mani della democrazia cristiana, poco male sarebbe; ma sospettarlo in mano a Togliatti manda in bestia anche il più mite e arrendevole dei borghesi neofascisti.

Tuttavia, ci meraviglierebbe non poco se quanto è nel sospetto di questi signori non fosse realmente accaduto. Checché si dica, il diritto che nasce dalla forza era ed è tuttora dalla parte del nazionalcomunismo; la guerra, nel sommergere i fascisti, ha spostato l'asse della fortuna politica verso gli uomini della guerra democratica; e se questi si fossero accontentati dell'atto di giustizia sommaria sui gerarchi, lasciandosi scappare l'affare del tesoro, avrebbero dato al mondo un saggio anticipato di quella fatua e bacchettona mediocrità che li ha distinti poi sul piano delle lotte parlamentari e governative.

Ma non lo crediamo. Pensiamo invece che in tutto questo affare dell'oro di Dongo la stupidità borghese cammini di pari passo con la sua decrepita senilità. Non si è capito che se in realtà l'oro fosse controllato dagli uomini di Togliatti ciò potrebbe costituire il danno temporaneo di questo o quel borghese, ma potrebbe risultare in definitiva a fondamentale beneficio di tutta la borghesia come classe.

Vero è che le rivoluzioni si fanno anche con l'oro; ma è altrettanto vero che con l'oro si fanno assai più spesso le controrivoluzioni.

E poiché il movimento della ricchezza è segnato nella storia dallo spostamento dei rapporti di forza tra le classi come nell'ambito d'una stessa classe, va detto crudamente che la direttiva di marcia del moto nazionalcomunista esprime una costante che dalla guerra democratica va alla ricostruzione capitalista e dal governo punta al potere dello stato con l'aiuto non importa se della Santa Madre chiesa cattolica apostolica romana; e lungo questa linea l'oro di Dongo non può che identificarsi con le forze della conservazione.

Noi piuttosto avremmo voluto, potendo, che le ricchezze carpite dal fascismo al proletariato fossero tornate al proletariato attraverso il suo partito di classe per aiutarlo nell'immane, rivoluzionaria opera della sua liberazione.

E questo certo non sarà.

 

 

battaglia comunista, n. 7,  1-15 aprile 1947