Il Manifesto, 10 luglio 1999
Ospitiamo questa volta un articolo-recensione di Maria Grazia Meriggi a due libri cui lavorò Luigi Cortesi , come autore del primo e curatore del secondo.
Di Luigi Cortesi, storico di estrazione piccista, possiamo dire che dimostrò un certo interesse per la verità storica e quindi per Amadeo Bordiga e la Sinistra comunista pur senza condividerne le posizioni. Cortesi morì nel 2009 a ottanta anni abbastanza isolato, forse anche per la sua onestà intellettuale, dall'ambiente culturale italiano.
L'ala sinistra del partito
Sono presenti in libreria in questi giorni due volumi di felice, programmatica inattualità. Sono Le Origini del PCI di Luigi Cortesi (Franco Angeli) e Amadeo Bordiga nella storia del comunismo (ESI) a cura di Luigi Cortesi con saggi di Michele Fatica, Luigi Gerosa, Alexander Hobel, Antonio Ca' Zorzi, Arturo Peregalli, Giorgio Galli, Liliana grilli, Nicola di Matteo. Dunque tutti studiosi che, da osservatori compartecipi o da intellettuale militanti, hanno contribuito a situare Bordiga ― fuori dal mito negativo che lo colloca nell'estremismo di derivazione massimalista o peggio lo accusa di resa al fascismo ― nella storia del comunismo, del bolscevismo "pianta d'ogni clima" e della classe operaia italiana. Il merito di questa operazione era di storicizzare e relativizzare la tradizione comunista italiana e la ricerca di una nazionalizzazione democratica, ma per molti decenni comunque conflittuale della classe operaia italiana, interpretando ― il che non significa "giustificando" ― l'insensibilità di Bordiga per la lotta armata partigiana e spiegando quindi il residuo influsso di quello che Cortesi ha chiamato il "livornismo" su importanti gruppi di militanti operai e giovani che nell'insurrezione antifascista avevano scommesso come su una prima tappa di una rottura rivoluzionaria che si alimentava non più di un'analisi rigorosa ma del precipitato di esperienze illegali. E che avevano, inoltre, sperimentato ― caso clamoroso la Fiat ― un brevissimo periodo di sospensione della disciplina e della gerarchia sperando di fare i conti con i "committenti" capitalistici del fascismo.
Il primo, fondamentale momento di questa riacclimatazione del primo decennio di vita del PCd'I nella sua storia è certamente da attribuirsi a Giorgio Galli che in due successive edizioni uscite da Schwartz (la prima con Bellini, nel 1953 e poi nel 1958) della sua Storia del Partito comunista italiano aveva indicato nella tradizione della sinistra comunista i precedenti che rendevano possibile una allora difficilissima critica di sinistra al togliattismo. Difficile non per ragioni culturali e politiche ma sociali perché il Pci costituiva allora una risorsa straordinaria dell'autonomia delle classi subalterne e porsene fuori mantenendo con esse rapporti autentici e fraterni era una scommessa difficile, forse possibile solo in situazioni dove ancora forte era la dimensione comunitaria e le posizioni dei militanti del "gruppo esterno" erano ricche anche della storia a tutti nota di ognuno di loro.
Sinistra comunista, gruppo esterno: siamo così entrati nella terminologia della ricerca appassionata di Montaldi che, avviatosi nella direzione della scoperta della conricerca, era del resto partito proprio dalla militanza in un gruppo cremonese che aveva cercato di portare nel Pci della Liberazione le posizioni e le reti della sinistra comunista. Si potrebbero d'altra parte individuare ascendenze bordighiane nel marxismo di Montaldi, capace di vedere le connessioni e l'estendersi della formazione sociale capitalistica assai al di là dei punti alti dello sviluppo, la sua voracità che rimodella e rende strategiche anche le posizioni marginali: Napoli, ad esempio, come le cascine della Valle padana.
La ricerca di Cortesi ― che in questi studi trae il bilancio di un lavoro trentennale ― rivendica orgogliosamente il suo essere interamente storia politica che dal suo punto di vista è storia delle condizioni che rendono possibile la rottura e dei suoi strumenti. Essa rimette anche in gioco il ruolo prezioso di un'importante rivista degli anni '60, la Rivista Storica del Socialismo. La Rivista che ha contribuito con straordinaria ricchezza alla nostra conoscenza delle effettive pratiche organizzative del movimento operaio italiano fuori dalle etichette. Che ci ha insegnato che "riformismo" poteva significare organizzazione autonoma e capace di comando e violenza nella campagne emiliane; complesso lavoro di integrazione dei metodi più avanzati di lotta nelle grandi fabbriche e emarginazione dei loro dirigenti politici a Torino; tentativo di distacco dal problema dell'autonomia classista per spendere la sua forza organizzata nel tentativo di democratizzare la società italiana trasformata dalla Grande guerra; che tradizione socialista e tradizione comunista si erano contaminate calandosi in pratiche e istituti che ne costituivano la vera eredità.
Al centro della ricerca di Cortesi è la lotta delle correnti nel Psi e poi nel Pcd'I, nel cuore di uno scontro che mette in gioco tutti gli elementi di una politica adeguata alla rottura rivoluzionaria: teoria del partito, analisi della struttura economica di capitalismo e classe operaia, analisi del ruolo economico delle sezioni delle classi e della loro funzione politica nella valorizzazione del capitale, percezione e valutazione scientifica del tempo, nesso immediato e diretto fra modello organizzativo e idea di società. E tutto questo nella riclassificazione imposta dalla guerra: come rivelatrice delle tendenze imperialistiche e delle difficoltà del riformismo di individuarle e combatterle ma anche come esperienza umana che ha radicalmente messo in discussione le gerarchie sociali e famigliari, fra i sessi e le generazioni e che ha predisposto tanti uomini e donne a vivere il dopoguerra nella chiave di una rottura senza ritorno che riattualizzava antiche aspirazioni egualitarie declinandole in una situazione di compiuta modernità.
L'importante ricerca di Cortesi è riattualizzata da nuovi capitoli che si impegnano in un confronto serrato non solo con opere scientifiche e al tempo stesso militanti come la einaudiana Storia del Pci di Paolo Spriano ma anche con una serie di testi rivolti ai militanti e usato nelle scuole di partito che dall'opuscolo Napoli tratto da una serie di articoli pubblicati da Emilio Sereni su Stato Operaio al celebre Conversando con Togliatti hanno creato un senso comune che solo di recente ― negli anni 80 ― è stato messo in discussione da un punto di vista polarmente opposto: insomma, dall'apologia del Gramsci teorico della rivoluzione passiva all'eterno esame del tasso di totalitarismo implicito nell'egemonia. E' un confronto preciso, documentatissimo ma insieme sorretto da una passione polemica che rievoca l'attualità di altre ricerche della stessa rivista con cui i lavori di Cortesi realizzano un costante confronto. Ad esempio quella di Stefano Merli sulle "Origini della direzione gramsciana del partito Comunista d'Italia. Dagli arresti del febbraio 1923 alla crisi Matteotti", una cui anticipazione era apparsa proprio sulla rivista nel 1964 e pubblicata nel volume: Fronte antifascista e politica di classe (De Donato 1974).
Il saggio di Merli che non riuscì a suscitare, a mio parere, un dibattito adeguato al suo impegno innovatore, si muoveva su più piani: la ricostruzione della discussione nel gruppo dirigente con lo scontro non solo di progetti ma di culture e addirittura di sensibilità politiche; il problema inedito per la già lunga storia delle organizzazioni operaie, del predominio non più di alcuni partiti particolarmente prestigiosi per il loro radicamento e i loro successi, come era stato quello tedesco nella II Internazionale, ma di un partito che si identificava con uno stato in costruzione; e soprattutto il rapporto tra modello organizzativo proposto dal Komintern per logiche interne alla situazione sovietica ed effetti che questo modello ― la cellula di fabbrica, al posto del semplice gruppo operaio disperso nella sezione territoriale ― produceva nel rapporto fra classi sociali e partito, nella selezione degli organi dirigenti, nella formazione di una mentalità diffusa, nel modello stesso di società. L'insistenza che tutti i gruppi della Nuova Sinistra fra gli anni '60 e i '70 hanno posto sul "lavoro alle porte", sull'inchiesta, sull'orgoglio della unilateralità del punto di vista operaio faceva parte di questo ordine di problemi; ma quella generazione credeva di non aver tempo di discutere sulle forme della sua pratica perché credeva davvero che avrebbe promosso e partecipato a una rottura radicale.
Le ricerche di Cortesi, come quella di Merli o di Montaldi, possono essere lette utilmente a fianco dei saggi che Giuseppe Vacca va pubblicando da alcuni anni sullo stesso periodo ― fino all'ultimo lavoro dal lui introdotto e curato con ammirevole rigore da Chiara Daniele, Gramsci a Roma, Togliatti a Mosca. Il carteggio del 1926 (Einaudi). Anche Vacca interviene sul problema delle diverse posizioni all'interno del gruppo dirigente comunista ormai clandestino a proposito del lavoro sindacale. Non è possibile qui nemmeno per cenni entrare nella complessa ricostruzione delle posizioni ― come non è possibile fare lo stesso per la serrata critica di Bordiga all'ordinovismo e alle tesi successive sindacali di Gramsci che Cortesi tutto sommato fa proprie. Tuttavia queste ricerche hanno tutte presenti il nesso necessario fra linee d'intervento nei luoghi centrali di formazione della visione del mondo dei lavoratori ed elaborazione della linea politica generale.
Esse quindi ci servono per riproporre una serie di problemi che l'onnipresente pubblicistica politologica tende a rimuovere dall'orizzonte intellettuale e politico e che si possono riassumere nella domanda: che cosa significa veramente studiare un partito politico? In che relazione stanno selezione del suo gruppo dirigente, formazione di una cultura politica, insediamento sociale organizzato, "invenzione" e plasmazione di classi e conflitti a partire però dall'automatismo dei fatti economici e dalla spontaneità sociale? L'elencazione di queste domande suggerisce una riflessione molto presente alla ricerca di Cortesi: contrapporre rigidamente storia politica e storia sociale si rivela improduttivo sul piano degli studi e inefficace su quello politico perché le culture politiche quando si insediano possono connotare sia le forme della ribellione sia quelle della partecipazione alla vita della nazione. Ho all'inizio definito inattuale quest'arcp problematico. Ma era un'osservazione polemica: l'attualità si ricava e contrario in quanto attualmente a una storiografia ossessionata da una ricerca di identità nazionale unitaria, aconflittuale, priva di soggetti corrisponde una politica priva di analisi precisa, non pretestuale ed episodica, della natura e del profilo delle classi in gioco e di scelte politiche che intervengano nella vita nazionale a partire da essa. L'antico slogan leninista "senza teoria niente rivoluzione" si ripropone per qualsiasi politica di sinistra, aggravata dalle difficoltà di questi anni.
La dimensione internazionale si propone spesso ai lavoratori come globalizzazione economica che a sua volta si traduce in spietato e instancabile dumping sociale mentre la dimensione nazionale e statuale è stata quella in cui negli ultimi cinquant'anni si sono cristallizzate le conquiste a partire dalle quali è stato possibile l'ultimo periodo di insubordinazione generalizzata al comando capitalistico, negli anni '70. Tanto più difficile sarebbe dunque il lavoro di una forza politica che cercasse di ricostruire un punto di vista internazionalista di massa, al di là del pur meritorio pacifismo che tante difficoltà trova nel diventare senso comune. Il movimento comunista, il "livornismo" sono nati proprio da questo senso comune. Ricostruire con la ricerca storica le ragioni della sua diffusione e della sua sconfitta rappresenta, dunque, un presupposto necessario per ritrovare le ragioni di una critica di massa del presente.
Maria Grazia Meriggi
Il Manifesto, 10 luglio 1999