Il programma comunista, n. 8,16 -30 aprile 1953
Questo articolo ci riporta ai primi anni cinquanta. Nel 1952 la D.C. non ripeté il successo elettorale del 1948 e, per tranquillità e sicurezza, pensò di far promulgare una legge in base alla quale chi avesse ottenuto il 50% +1 dei voti avrebbe avuto un premio di maggioranza del 15%.
Purtroppo alle elezioni del 1953 la coalizione per cui la legge era stata fatta ottenne solo il 49,8% dei consensi e la legge definita intanto "legge truffa" non poté essere applicata. Di questo ma anche di altro, compreso il comportamento dei nostri "sinistri" e resistenziali, si occupa questo bell'articolo che riproponiamo.
Consumata la farsa dell'insurrezionismo stalinista
La giornata del 29 marzo, data della vergognosa disfatta parlamentare e politica riportata dall'opposizione social-stalinista sul terreno della votazione della legge elettorale maggioritaria, doveva concludere scurrilmente il pluriennale favoleggiare sull'illegalismo del P.C.I.
La parodia di epopea dell'insurrezionismo stalinista ebbe inizio il 25 aprile 1945, quando le bande partigiane demo-cattolico-staliniste ricevettero dai comandi alleati l'avviso che le armate tedesche erano in rotta e che quindi era venuto il momento di usare dei mitra calati col paracadute sui monti dai quadrimotori americani, insieme con le scatolette di carne, la gomma masticabile, e le Chesterfield. Fino a quel giorno, che fu buffonescamente denominato della Liberazione nazionale e non fu altro che una discesa dai monti, essendo apparso a valle alfine il segnale della via libera, il partigianismo «svernò». Da allora, non è passato giorno che la propaganda del P.C.I., non abbia incassato un lauto interesse sugli investimenti di gloria e di eroismo insurrezionale effettuati in stretta collaborazione con gli Stati maggiori anglo-americani avanzanti dalla «linea gotica». Da allora, i comandanti dei volontari della libertà, divenuti colonnelli e generali a varie centinaia di metri sul livello del mare, cacciarono fuori il ghigno tirato al nerofumo del ribelle d'operetta e diedero ad intendere agli italiani tutti, sulle colonne dell' Unità e dell' Avanti, di tenere la penisola sotto la perenne minaccia della ripresa delle ostilità partigiane e della guerra civile.
A crederci sono stati, in tutto questo periodo, proprio quelli che dalla Repubblica di Salò, protetta dai carri armati germanici, minacciarono, per bocca di Graziani, di somministrare una spietata Notte di San Bartolomeo al partigianismo pro-alleato acquattato nelle caverne dell'Appennino, ma giammai trovarono il coraggio di affrontare... il fastidio di una insonne scalata ai rifugi eccelsi degli avversari. Anche essi aspettavano un'avanzata che non venne: quella tedesca che avrebbe dovuto, secondo Goebbels, ributtare a mare le armate anglo-americane. Oggi, come se niente fosse, utilizzando l'inesauribile marciume della retorica italiana, lavorano anch'essi a costruire una epopea gloriosa coi fatti di cronaca nera di cui furono sciagurati protagonisti.
Noi non abbiamo mai creduto all'insurrezione del P.C.I. nonostante le sghignazzate di Longo, Moscatelli, Valerio e dei loro sottufficiali. Non ci abbiamo creduto mai, per il fatto che chi aspetta di avere alle spalle potentissime armate padrone del cielo, del mare e della terra per menare le mani, non può pretendere di continuare (perdonate l'irriverente raffronto) le tradizioni dei combattenti della Comune di Parigi, insorti non contro uno, ma due eserciti coalizzati nonostante lo stato di armistizio, o quelle dei rivoluzionari bolscevichi scattati nella temeraria impresa rivoluzionaria cui dovevano reagire ambo le coalizioni di belligeranti della prima guerra mondiale. Allo stesso titolo, negammo sempre di considerare altro che una macabra farsa la cosiddetta rivoluzione dei quattro fetenti in camicia nera che nel 1922 inscenarono la Marcia su Roma col permesso delle questure. Perciò non abbiamo commentato altrimenti che con il sorriso di commiserazione, che si addice alle millanterie dei «guappi di cartone», le reboanti minacce formulate sull' Unità, alla vigilia, che dico?, poche ore prima della imposizione della legge maggioritaria. Le armate di Malenkov erano lontane e lo Stato Maggiore russo intento a civettare con i colleghi anglo-americani; né le questure di Italia, che all'occasione tirarono fuori carri armati, e autoblinde, mostrarono di nutrire benigni propositi nei riguardi della Direzione del P.C.I. Come dunque supporre sia pure per un attimo fuggevole che all'atto di aperto illegalismo del governo e dell'insultante comportamento della maggioranza liberal cattolica in Senato, la Direzione del P.C.I. avesse pagato le cambiali firmate il 25 aprile 1945? Fossero state le armate russe al Brennero e le portaerei americane in fonda al Mediterraneo, eh allora, si sarebbe visto qualcosa di movimentato, e Togliatti fare il Garibaldi conquistatore e Longo il Nino Bixio. Ma in quella eventualità, ben si sarebbe guardato Scelba dal presentare la maggioritaria, e ben presto i capi del M.S.I. avrebbero tirato fuori i certificati di buona condotta rilasciati all'epoca del Comitato di Liberazione Nazionale. Ma tant'è: nessuna offensiva travolgente di poderose armate si verificò il 29 marzo. Come volete che i feroci guerrieri, gli impavidi eroi, i rivoluzionari a riposo del P.C.I. facessero qualcosa di diverso da quello che volgarmente viene indicato con la espressione: farsela nei calzoni? E se la fecero abbondantemente.
Eppure, a poche ore dalla votazione di autorità della legge elettorale maggioritaria, che ridurrà drasticamente i seggi in Parlamento del P.C.I. nonostante il riottenimento dei voti del 18 aprile, unendosi così il danno alla beffa, l'Unità aveva pubblicato un rovente cartello di sfida. Lo storico malinconico, che fra tremila anni prenderà a leggere il numero dell' Unità del 29 marzo e non si curerà di compulsare il numero del giorno successivo, sarà pronto a giurare che nella notte tra il 29 e il 30 marzo 1953 dovette scoppiare in Italia una tremenda rivoluzione. Vi troverà infatti le frasi seguenti: «Non verrà tollerato nessun sovvertimento della norma parlamentare, nessuna menomazione delle prerogative del Senato, nessuna limitazione dei diritti regolamentari e costituzionali dell'Opposizione». E ancora: «De Gasperi ha l'acqua alla gola. Se il governo oserà tentare di calpestare questi ordinamenti (parlamentari e costituzionali), più di quanto già non abbia fatto, la risposta sarà esemplare: nell'aula del Senato, dove l'Opposizione si batte mirabilmente forte del suo buon diritto e dei grandi successi (!) ottenuti, e nel Paese dove sempre più alta si leva in questo giorni cruciali la voce popolare». Testuale.
Orbene, successe che nella sera del 29 marzo, il Governo democristiano non solo «osò tentare di calpestare, ma calpestò, come il maiale calpesta il brago, i famosi ordinamenti sacri del Parlamento e della Costituzione. » La norma parlamentare fu sovvertita, le prerogative del Senato menomate, anzi messe in ridicolo; i diritti dell'Opposizione social-comunista e monarco-fascista trattati a c... in faccia. Ma ciononostante, ad onta delle minacce fatte fare dall' Unità, la Direzione del P.C.I. non reagì, non diede la «risposta esemplare», limitandosi a ordinare la «rivoluzione delle tavolette» al Senato. Anzi, se gli ex capi dell'insurrezione democratica partigiana appiopparono qualche schiaffo sulle nutrite facce dei deputati democristiani, ben assestati calci nel deretano non riuscirono a schivare nella comica mischia. Dello sciopero generale proclamato in segno di protesta meglio non parlarne. L'unico sciopero veramente generale che si debba registrare nel dopoguerra in Italia, rimane quello del 14 luglio 1949, al momento dell'attentato di Palmiro, ma forse riuscì proprio perché non voluto dalla Direzione del P.C.I. che, molto più energicamente che le disorientate forze di polizia riuscì a stroncare le velleità insurrezionali delle masse. In quell'occasione, la classe operaia italiana veramente credette, sbagliandosi atrocemente, di difendere il suo capo: Alla proclamazione dello sciopero generale del 20 marzo invece, molte illusioni erano cadute nel frattempo, e la grande maggioranza dei lavoratori rifiutò di lottare per conservare i seggi ai parlamentari social-comunisti, che non avevano saputo conservarseli. Tale la «risposta» del P.C.I. e del servitorame nenniano, nel Parlamento e nel Paese.
IL romanzo d'appendice del ribellismo del P.C.I. si è concluso come la tragicomica storia del personaggio protagonista del celebre romanzo di Petronio Arbitro. Allorché l'eroe incontra finalmente l'amore, diciamo così, in senso naturale, si accorge che gli difetta l'indispensabile. Il 29 marzo l'Opposizione social-stalinista avrebbe dovuto mantenere gli impegni di eroico difensore della democrazia assunti il 25 aprile 1945; avrebbe dovuto rispondere all'atto di forza del governo con corrispondenti misure estreme; avrebbe dovuto, in coerenza con la presunta insurrezione contro il regime sorto dal colpo di Stato fascista, rispondere conseguentemente. Ma al momento di drizzarsi in piedi il P.C.I. si è accucciato a guaire sulla propria sventura, spedendo corrieri da Einaudi per impetrarne l'intervento contro il governo (!). Otto anni interi di frenetica esaltazione del partigianismo se ne andavano così in fumo. Si è visto che il ribellismo insurrezionale del P.C.I. aveva lo stesso vigore della «cinghia ammollata nell'acqua» cui Petronio Arbitro paragonava un certo attributo fisico del suo personaggio. Chiamato a nozze dalla Dea Insurrezione, il P.C.I. ha marcato visita, accusando una insormontabile inabilità matrimoniale.
Alzare un po' troppo la voce, avere il coraggio di definire esattamente l'azione del Governo per quello che è stato - un colpo di Stato in piena regola - e trarne le conseguenze significava, per il P.C.I. spaventare gli armenti piccolo-borghesi e grosso-borghesi che pascolano politicamente «a sinistra», significava perdere gli elettori borghesi che ancora amoreggiano all'ombra della colomba picassiana. Per tenerseli hanno preferito invigliacchirsi fino all'ignominia. Ebbene teneteveli, se dei loro voti avete bisogno per arraffare le poltrone in parlamento. Ma solo i fessi potranno, dopo il 29 marzo , continuare a credere, signor generale Luigi Longo e signor colonnello Walter Audisio detto Valerio, che voi avete veramente capitanata una insurrezione contro l'ordine costituito.
il programma comunista, n.8,16-30 aprile 1953