L'Unità , 21 maggio 1971
Pubblichiamo un altro articolo su Bordiga tratto da L'Unità degli anni settanta del secolo scorso. Ovviamente il tenore degli articoli dipende dall'autore e dal periodo storico. Qualche inserimento fa avevamo ospitato uno scritto di Renzo Martinelli del 1975 interessante e che presentava una certa apertura mentale, oggi presentiamo invece uno scritto di quattro anni prima di Aurelio Lepre, "storico" ligio agli schemi togliattiani ancora in voga.
Buona lettura, comunque.
Profilo agiografico di Amadeo Bordiga
Un libro di Andreina De Clementi
Il rapido profilo che Andreina De Clementi ha scritto su Amadeo Bordiga («Amadeo Bordiga», Einaudi, Torino, 1971, pp.253, L.1.400) ha il pregio di essere il primo tentativo di tracciarne una completa biografia politica. Essa termina, infatti, con il 1930, quando Bordiga con l'espulsione dal PCI, uscì dalla scena politica anche se, in realtà, non si comprende bene, nelle pagine conclusive,se per la De Clementi la sua successiva attività abbia avuto o no qualche significato.
L'analisi della De Clementi si svolge su due piani: da un lato ella mette speso in rilievo i limiti che si possono facilmente riscontrare nell'attività e nel pensiero di Bordiga; dall'altro non sa rinunciare all'esaltazione acritica della sua figura, e ciò rende il suo discorso profondamente contraddittorio. Consideriamo, per esempio, il rapporto Lenin-Bordiga. La De Clementi scrive che, per quanto riguarda «la priorità attribuita alla conquista del potere politico», Bordiga si presentò «come l'esponente più coerente e consapevole del leninismo in Italia», ma più avanti afferma, molto giustamente, che suo «atteggiamento costante verso il leninismo fu quello di negargli qualsiasi tratto autonomo e originale e di intenderlo come una pura e semplice traduzione pratica della teoria di Marx». Si tratta, come si vede, di un atteggiamento che rivela la più assoluta incomprensione del leninismo, sicché proprio non si comprende come Bordiga potrebbe esserne stato, sia pure solo per un aspetto, un esponente. La De Clementi afferma anche che nella problematica di Bordiga c'erano molti elementi di dissenso «dai punti d'approdo bolscevichi». Ma il dissenso, in realtà, era nei punti di partenza.
E' stato lo stesso Bordiga a dar vita alla leggenda di una attività prebellica della «sinistra socialista italiana» (si trattava, assai più limitatamente degli uomini raccolti attorno a lui) che, nella sua lotta contro la «democrazia», avrebbe dato indicazioni utili al movimento operaio mondiale (si veda la lettera all'Internazionale dell'11 gennaio 1919); in tal modo un'esperienza locale di lotta contro il riformismo veniva considerata esemplare e paradigmatica. E', questo, l'elemento più provinciale del suo pensiero e sorprende vederlo ripreso in sede storiografica dalla De Clementi: il fatto che la presenza e l'attività della «sinistra comunista italiana» sarebbero state «preesistenti alla esplosione rivoluzionaria che aveva imposto la leadership del bolscevismo» avrebbe conferito ad essa, a suo parere, «una superiorità che altri partiti comunisti costituitisi dietro lo stimolo dell'Internazionale non potevano vantare».
E qui abbiamo un'altra inaccettabile generalizzazione: la identificazione dell'astensionismo col «comunismo occidentale», che rende molto discutibili i risultati dell'indagine a cui la De Clementi è stata spinta falla pur meritoria intenzione di studiare i rapporti tra Bordiga egli altri movimenti astensionisti europei.
Il «comunismo occidentale», cioè l'astensionismo, sarebbe stato sconfitto non solo per l'eterogeneità delle sue posizioni, ma anche per «l'insufficiente maturità di tutto il proletariato europeo». Si tratta di un canone interpretativo che ritorna anche più avanti, quando la De Clementi tenta di dare una spiegazione della sconfitta subita dal gruppo bordighiano al congresso di Lione. Ella respinge, naturalmente, «la versione corrente in tutta la storiografia di ispirazione gramsciana», che interpreta la storia delle origini del PCI «come processo di emancipazione politica dall'iniziale settarismo di marca bordighiana che culminerebbe con le gramsciane tesi di Lione, foriere della successiva evoluzione che ha conferito al PCI la sua odierna fisionomia»: e dà una versione che ha le stesse radici di quella che dovrebbe spiegare la sconfitta dell'astensionismo europeo di fronte a Lenin: lì era l'immaturità del proletariato occidentale, qui è l'immaturità del partito comunista: «dopo l'assassinio di Matteotti la fisionomia del partito era stata profondamente mutata dall'apporto di forze nuove, prive di esperienza politica, di militanti che non avevano vissuto il periodo di formazione del PCI».
Per cercare di dimostrare questa tesi la De Clementi utilizza un rapporto inviato al segretariato dell'Internazionale, che è stato pubblicato da Togliatti e che, come appare evidente dallo stesso riassunto che ne fa la De Clementi attribuiva, invece, all'immaturità dei nuovi membri proprio la persistenza dell'influenza di Bordiga. In realtà, la sconfitta di Bordiga fu provocata da una complessa lotta politica ed il congresso di Lione, considerato qui soltanto dal punto di vista bordighiano (ed in tutto il lavoro le posizioni di Gramsci sono ignorate o considerate in modo assai schematico) segnò — e ci vorrà ben altro che le sommarie considerazioni della De Clementi per convincere del contrario gli storici «d'ispirazione gramsciana» — il culmine di un processo che vide il PCI liberarsi del residuo massimalismo, che aveva avuto radici profonde nella Seconsa Internazionale, e di cui la componente più rilevante nel PCd'I. era data dalle posizioni bordighiane.
Aurelio Lepre
L'Unità, 21 maggio 1971