Avanti della domenica, 20 gennaio 1991
Il 20 gennaio 1991, l' Avanti! uscì con un supplemento «Livorno 1921 Il Congresso della scissione» tutto dedicato al congresso socialista che si tenne dal 15 al 21 gennaio e che finì con l'abbandono da parte dei comunisti del teatro Goldoni e la loro convocazione al teatro San Marco per la fondazione del Partito Comunista d'Italia.
Abbiamo già pubblicato, di questo supplemento, l'articolo di Gaetano Arfé Dal freddo teorema di Bordiga alla grande passione di Serrati (riprodotto il 14.8.08) ed ora facciamo posto a questo di Franco Livorsi.
L'articolo viene riportato come vecchio documento (come i molti altri di questa sezione) e non certo per la posizione, spiccatamente filo turatiana, che il suo autore difende, una posizione che, ci sembra inutile doverlo dire, ma non si sa mai, non è certo la nostra.
Il pomeriggio della quinta giornata (mercoledì 19)
La profezia di Turati: «Vi accorgerete che la via giusta è la nostra»
La quinta delle sette giornate del congresso socialista di Livorno del 1921 – quella del 19 gennaio – fu di gran lunga la più importante. In essa presero infatti la parola leader come Amadeo Bordiga, capo dei «comunisti puri», che si apprestavano alla scissione; Giacinto Menotti Serrati, personaggio oggi quasi dimenticato, ma all'epoca popolarissimo leader dei massimalisti; il massimalista Nicola Bombacci, allora «idolo delle folle», irrazionalmente temuto da tutta la borghesia moderata, demagogo di scarso spessore culturale e morale, che accusato di essere un «rivoluzionario da temperino» da un altro socialista di sinistra, lo minacciava, in pieno congresso, con la rivoltella, facendosi disarmare a stento dai suoi compagni, e che, coerentemente con tali presupposti anche psicologici, finì poi al fianco del Mussolini di Salò, addirittura tra i fucilati di Dongo; Egidio Gennari, vecchio massimalista, risucchiato dalla scissione comunista e, naturalmente, Filippo Turati, la figura di maggiore rilievo del socialismo riformista italiano sin dalla fondazione del partito.
Il dominatore formale del Psi di quel quadriennio, Serrati, fece il discorso di gran lunga più modesto. Egli era contrario alla scissione, ma sulla base di recriminazioni personalistiche e di opportunità tatticistica, volte a denunciare l'ingiusto diverso trattamento riservato dall'Internazionale Comunista, che pretendeva l'espulsione dei riformisti, ad italiani e francesi, ed a negare che il bene prezioso dell'omogeneità politica esistesse tra gli stessi comunisti puri. In realtà Serrati era rappresentativo, in modo direi monumentale, di quella posizione né riformista né rivoluzionaria che alla sinistra popolare italiana è sempre piaciuta tanto, ma che per la sinistra stessa è sempre stata sinonimo di disfatta e di sciagura in ogni grande crisi dello Stato italiano.
Di ben altro livello furono i discorsi di Amadeo Bordiga e di Filippo Turati.
Bordiga pronunciò allora la sua orazione più grande, ossia un discorso davvero storico, da protagonista a livello corrispondente ad un'ora decisiva della vicenda del socialismo. Nella sua vita, come ho avuto modo di spiegare nel mio libro Amadeo Bordiga. Il pensiero e l'azione politica (Roma, Editori Riuniti, 1976), solo un'altra volta avrebbe toccato, ed anzi superato, tali altezze: fu quando, unico tra i capi succedutisi alla tribuna del comunismo mondiale, in un quasi congresso dell'Internazionale Comunista, al sesto esecutivo allargato di Mosca del 1926, osò denunciare per primo, in un grande discorso di quattro ore, la degenerazione burocratica e stalinista del comunismo mondiale, dicendo che questo, ormai, non era più una piramide poggiante sulla base ampia del mondo, bensì sulla punta russa (per cui sarebbe stato necessario rovesciarla).
Bordiga a Livorno, fece un discorso davvero opposto, ma parallelo, a quello di Turati. Se per Turati la via democratica e gradualista era la bussola da non abbandonare mai, Bordiga vi vedeva invece la quintessenza del riformismo, identificato con la stessa democrazia. Egli sostenne che tutta la tragedia del socialismo favorevole alla grande guerra in gran parte della Seconda Internazionale, e poi conseguentemente contrario alla rivoluzione, era legata all'abbandono dell'alternativa secca tra via rivoluzionaria e via democratica. Non si poteva servire contemporaneamente la rivoluzione e la politica delle compatibilità con il sistema. A suo dire, una volta accettato il rinvio a tempo indeterminato della rivoluzione e del socialismo, il movimento diventava necessariamente riformista, nella pratica e nella teoria. Egli lo dimostrava con chiarezza, osservando: «Il campo sindacale da una parte, il campo parlamentare dall'altra erano i guidatori del meccanismo congegnato per raggiungere quell'effetto, per dare al proletariato quelle piccole soddisfazioni e quei piccoli miglioramenti e per arrivare a questo risultato avevano inevitabilmente dovuto poggiare la loro macchina in tal modo da essere in continuo contatto, in continua discussione, in continua transazione con la borghesia, in accordi continui nel campo sindacale che tendevano sempre più a incanalarsi nella via della collaborazione politica, del possibilismo, di accordo nell'amministrazione stessa della pubblica cosa e nell'intervento stesso dei rappresentanti del proletariato nel meccanismo del potere governamentale borghese» (resoconto stenografico del 17 Congresso nazionale del Partito socialista italiano. Livorno 15-20 gennaio 1921, Milano, Edizioni Avanti!, 1962, p. 275).
C'era però anche stata, nel socialismo, una linea minoritaria, di crescente sovversivismo, anticipatrice, attraverso mille battaglie classe contro classe ed intransigenti, della sinistra comunista. Di tale tradizione si sentiva erede, al punto da suscitare una vasta protesta del congresso (mentre per il resto era stato uno degli oratori più ascoltati), esclamando: «Noi, se dovremo andarcene, vi porteremo via l'onore del vostro passato, o compagni!» (p. 294).
Con tale discorso Bordiga da un lato individuava nell'extraparlamentarismo lo spazio del comunismo nascente: uno spazio che la stessa controrivoluzione fascista avrebbe ben presto cancellato a livello di massa; dall'altro, insegnava a vedere nell'antisocialismo viscerale la vocazione profonda del comunismo italiano, con attitudine – nociva alla sua parte e alla sinistra – durata in una certa misura sino ai giorni nostri.
Ben altra fu la forza persuasiva del ragionamento di Turati. Egli aveva messo a nudo le terribili contraddizioni del comunismo nascente già al congresso di Roma del settembre 1918, quando, contro quello che poi si sarebbe chiamato centralismo democratico (per l'impegno della minoranza di uniformarsi comunque alla maggioranza, facendone propri i deliberati), aveva osservato: «L'unità mantenuta col frustino ridurrebbe il Partito una congrega spregevole, un tale sistema non offende i frustati ma i frustatori, offende l'anima proletaria. Siamo un partito di discussione, di concordia, di libertà, di fiducia, dentro le grandi linee del programma; non possiamo diventare un partito di servi, che si piegano tremanti al cenno del padrone... Orbene, signori, lo dico specialmente agli operai, diffidate di questa razza di disciplinati. Questi disciplinatissimi, i quali con tanta facilità prima professano un'opinione e poi la rinnegano ad un cenno, non sono dei disciplinati, sono dei vili, dei servili, e non servono a nulla, neanche per la rivoluzione». (F. Turati, Le vie maestre del socialismo, a cura di R. Mondolfo e di Arfé, Napoli, Morano, 1966, p.306).
Allora, a Livorno, in quel gennaio 1921, Turati concentrò la propria polemica, oltre che su questa «coercizione di pensiero» (Resoconto cit., p. 361), sulla strategia della rivoluzione violenta e della dittatura del proletariato, che avrebbero evocato la «reazione fascista» (p. 354). A ciò contrappose efficacemente l'idea che la stessa rivoluzione dovesse essere intesa come un processo evolutivo, ossia come un divenire della democrazia sociale, osservando: «...la rivoluzione sociale non è un fatto di un giorno o di un mese: è il fatto di oggi, di ieri e di domani, è il fatto di sempre, che esce dalle viscere stesse della società capitalistica, del quale noi creiamo soltanto la consapevolezza, e così agevoliamo l'avvento; mentre nella rivoluzione ci siamo... Ond'è che per noi gli scorcioni sono sempre la via più lunga, e la via, che altri crede più lunga, è stata e sarà sempre la più breve. L'evoluzione si confonde nella rivoluzione, è la rivoluzione stessa, senza sperperi di forze, senza delusione e senza ritorni». (p. 325).
Tra le deviazioni – come ho cercato di dimostrare anche nel mio libro: Turati. 50 anni di socialismo in Italia, Milano, Rizzoli, 1984 – egli poneva certamente anche il bolscevismo leninista: quello che chiamava il «mito russo», destinato ad «evaporare» ed a preparare qualcosa di diverso. «... la forza del bolscevismo russo», notava infatti, «è nel peculiare nazionalismo che vi sta sotto, nazionalismo che del resto avrà una grande influenza nella storia del mondo, come opposizione ai congiurati imperialismi dell'Intesa e dell'America, ma che è pur sempre una forma di imperialismo». (p. 333). Soggiacervi sarebbe equivalso, a suo dire, a farsi «strumento di un imperialismo eminentemente orientale».
E' notevolissimo il fatto che egli mettesse nel conto lo «strappo» dei comunisti italiani da Mosca (certo previsto per tempi meno lontani), e persino, la loro conversione al riformismo. Notava infatti, con luminosa intuizione: «Ond'è, che quand'anche voi aveste impiantato il partito comunista e organizzato in Soviety, se uscirete salvi dalla reazione che avrete provocata e se vorrete fare qualche cosa che sia veramente rivoluzionario, qualcosa che rimanga come elemento di una società nuova, voi sarete forzati, a vostro dispetto – ma lo farete con convinzione, perché siete onesti – a ripercorrere completamente la nostra via, la via dei socialtraditori di una volta; e dovrete farlo perché essa è la via del socialismo, che è il solo immortale, il solo nucleo vitale che rimane dopo queste nostre diatribe». (p. 334).
Furono queste parole, sommariamente a lui ricordate da un intervistatore televisivo, a far dire 55 anni dopo, all'onesto e laico Umberto Terracini, già protagonista comunista di Livorno: «Turati aveva ragione».
Certo il partito rivoluzionario, il Partito comunista nato nel gennaio 1921, fornì anche un formidabile organismo per la lotta contro fascismo e reazione, come Pietro Nenni riconobbe prima e più di ogni altro. Ma è indubbio che, prescindendo da quella lotta tra opposte dittature di classe, su un terreno capitalistico e democratico – ossia nel contesto proprio della civiltà occidentale che va ormai dall'Atlantico agli Urali – Turati ebbe ed ha ragione.
L'alternativa storicamente forte, invano respinta come un incubo oppure come una tentazione di Sant'Antonio dai «veri comunisti» di tutte le epoche, è stata infatti, effettivamente, quella tra via leninista e via socialista democratica occidentale. Ormai anche le pietre dovrebbero aver capito che tra i due socialismi quello che ha vinto è proprio il democratico, di Turati e dell'Internazionale Socialista: un socialismo da cui, anche per andare oltre, bisogna comunque sempre ripartire.
Franco Livorsi
Avanti della domenica, 20 gennaio 1991