Rivista abruzzese, n. 4, 1975
Di Raffaele Colapietra abbiamo già presentato in questa sezione la recensione fatta in occasione dell'apparizione del primo volume della Storia della sinistra comunista (Rassegna di politica e storia, n. 132, ottobre 1965).
Proponiamo ora quanto Colapietra scrisse all'uscita degli Scritti scelti di Bordiga (a cura di Franco Livorsi, Feltrinelli, 1975) articolo di non facile reperibilità che ci è stato inviato da un amico.
Buona lettura!
Scritti scelti di Amadeo Bordiga
Mi sia lecito esprimere un compiacimento immodesto nel vedere riprodotte in quest'antologia non poche pagine sulle quali avevo fermato l'attenzione con larghe citazioni nel lontano 1962, in un volume anch'esso feltrinelliano, Napoli tra dopoguerra e fascismo, allorché il presente curatore, e con lui gli altri «bordigologi» post-1968, Franco De Felice e la De Clementi, erano ancora sui banchi di scuola o giù di lì, e la storiografia ufficiale comunista, vivente Togliatti, con in testa l'ottimo Spriano, serbava in proposito perfettissimo silenzio, quando non sparasse qualche residua bordata, ormai di prammatica, contro il «rinnegato» per eccellenza ed i suoi «astratti schematismi dottrinari».
Questi schematismi sono innegabili in Bordiga, e l'attuale antologia, spinta opportunamente fino agli ultimissimi anni, li documenta in forma spesso aberrante, con un linguaggio che anche stilisticamente si avvicina al farneticamento predicatorio.
Essi si fondano essenzialmente sul tipo di cultura e di formazione del Nostro, un argomento sul quale non vedo apportati nuovi elementi neppure nella diligente ma un pò ingenua e tendenziosa introduzione che il curatore premette all'antologia.
Bordiga è un marxista, direi un marx-engelsiano, nel senso più rigoroso e stretto, kautskiano, secondinternazionalistico, della parola, ravvisa in Marx l'alfa e l'omega della rivoluzione, imposta tutto il suo discorso come un «ritorno» a Marx, in tal senso interpreta il leninismo e combatte Gramsci.
Tale lettura è però sviluppata in chiave esclusivamente materialistica e deterministica, nella quale l'economia come struttura, analisi e previsione, fa assolutamente la parte del leone, senz'alcuna implicazione filosofica, né i presupposti hegeliani né tantomeno le conseguenze labriolane due nomi completamente assenti nel panorama culturale di Bordiga, a non parlare, s'intende, degli aborriti revisionisti ed «idealisti».
Proprio qui, comunque, è il primo grosso nodo critico del problema, individuato e denunziato a suo tempo con gran foga da Claudio Treves in nome del riformismo tardo positivistico, questo richiamo alla fede, all'entusiasmo socialista, che sembrava rendere il giovane Bordiga del primo anteguerra vicinissimo a Mussolini, secondo quel filo rosso che il Cortesi ha segnalato, Michele Fatica ripreso, e che il Livorsi fa completamente proprio, e che darebbe ragione al futuro duce nella rivendicazione d'aver «infettato» di volontarismo e d'idealismo i suoi irriducibili avversari degli anni venti.
Direi che l'adesione al leader, indiscutibile ed esplicita in Bordiga non meno che in Gramsci, non debba far trascurare le profonde divergenze appunto di cultura, di preparazione, di «libri», che fin dall'inizio separavano i tre uomini, un nome come Croce che illumina tutto Gramsci e non dice assolutamente nulla a Bordiga, un Nietzsche senza il quale si comprende ben poco del mito e della «volontà di potenza» del mussolinismo, le sfumature e le contrapposizioni tra popolo, folla e classe, tra la fabbrica e la piazza, e così via dicendo.
Opponendosi a Tasca nel famoso dibattito sul «culturismo» Bordiga fa un discorso di bisogni primordiali, elementari, per una rivolta che è essenzialmente della fame, e nella quale è implicitamente in nuce il concetto di un partito non tanto come avanguardia cosciente del proletariato ma addirittura quale forgiatore di esso, l'apriori della classe. Questo primato assoluto della politica organizzata, che Bordiga opporrà al Gramsci dei consigli di fabbrica è indubbiamente un concetto mussoliniano.
Ma in Bordiga è presente assai più che non nel maestro, proprio grazie alla rigida analisi economica che col tempo andrà approfondendosi, il moderno carattere di concentrazione imperialistica proprio del capitalismo italiano, giovane, relativamente debole, ma appunto perciò in grado di acquisire ed assimilare rapidamente i moduli e la strategia delle economie più avanzate.
Perciò parole d'ordine come Costituente e repubblica, la stessa «azione diretta», persino lo sciopero generale, che a Mussolini parlavano tanto suggestivamente, per Bordiga erano pressoché prive di significato, né le mise mai al centro del proprio programma strategico, l'astensionismo elettorale, comprovando l'indifferenza, l'estraneità al problema delle istituzioni nel senso più ampio del termine, l'organizzazione sindacale valendo soltanto da supporto e da occasione d'allenamento per lo «stato maggiore della rivoluzione».
Questi concetti si affermano pressoché senza contrasto, con le correzioni del caso (la partecipazione ai comizi del 1921, che peraltro Bordiga personalmente rifiuta) all'indomani di Livorno, sicché resta confermata l'origine esclusivamente internazionale, «russa», del secondo e decisivo conflitto con Gramsci, salvo le posteriori e purtroppo fugaci e slegate convergenze dei due avversari contro le degenerazioni staliniane, al momento di quella prova di forza con Bucharin che è un po' il momento della verità anche per Togliatti.
L'analisi del fascismo come prodotto organico e coerente di un capitalismo avanzato a matrice schiettamente liberale pone Bordiga (affiancato in campo internazionale, com'è noto, soltanto dalla Zetkin) in una posizione critica di privilegio per intenderne il significato nuovissimo di «democrazia di massa» sia pure distorto in funzione totalitaria.
Sennonché l'attenzione rivolta esclusivamente agli aspetti economici e sociologici del problema, rispetto a quello che in Russia gli appariva puro e semplice capitalismo di Stato fine a se stesso conduce Bordiga alle aberrazioni del filonazismo come espressione di un «tanto peggio» che la coalizione di Stalin con le potenze borghesi rende ineluttabile e catastrofico.
Questo senso dell'apocalissi appanna tutto il periodo «minoritario» di Bordiga e lo emargina del tutto non solo dalla politica attiva ma dal movimento di contestazione e dalla cultura militante.
Si tratta davvero negli ultimi anni di una frangia che neppure dalla crisi dello stalinismo riesce a rintracciare gli elementi per un proprio reinserimento costruttivo.
L'essere rimasto fermo ad una «linea generale» marxista omnicomprensiva e fissata una volta per tutte sottrae a Bordiga la presa sul mondo contemporaneo in nome di una «rivoluzione» che, al di fuori della storia, non si differenzia gran che da un terremoto.
Raffaele Colapietra
Rivista Abruzzese, n. 4, ottobre-dicembre 1975