Il Lavoro Illustrato, n. 22, 1952
L'articolo che qui riproponiamo è oggi praticamente sconosciuto mentre quando apparve, e si trattò del 1952, destò un certo scalpore, pur nel suo tono ironico ed ingenuo. Nei primi anni cinquanta Bordiga non si nominava e non se ne parlava; la cappa di silenzio imposta dallo stalinismo veniva rotta di tanto in tanto solo per dire che si era ritirato a vita privata (nella migliore delle ipotesi) oppure (e questo era più normale) era direttamente passato alla controrivoluzione.
Il Nino Longobardi (morto alla fine del secolo scorso) che scrisse questo articolo che allora ebbe l'effetto di uno scoop, era della scuola dei Longanesi e dei Flaiano e scriveva nel Lavoro Illustrato un settimanale che ospitò nello stesso anno gli articoli di un altro valido personaggio Sergio Saviane che riportò alla luce, con notevole scalpore, i delitti di Alleghe.
Bordiga disse di no a Stalin
L'ing. Amadeo Bordiga, ex capo dei comunisti italiani, vive a Napoli, apparentemente si occupa solo della professione, ma in segreto prepara la "sua rivoluzione" che comincia con un no a Giuseppe Stalin
Ogni volta che a Napoli arriva il Presidente della Repubblica o c'è qualche regnante di passaggio, un vecchio maresciallo della «squadra politica» della Questura s' arrampica lungo la salita di Montesanto. A passo lento arriva al Corso Vittorio Emanuele sostando infine dinanzi ad una palazzina a tre piani posta alla prima curva della panoramica strada che si affaccia sul golfo. Quando l'ingegnere Amadeo Bordiga esce dalla palazzina per recarsi al lavoro, il maresciallo sa che sono le otto precise; controlla l'orologio e poi si mette alle calcagna dell'ingegnere che conserva agilità e passo elastico nonostante i suoi 63 anni. Ha inizio quindi per le vie di Napoli il pedinamento di prammatica.
Gli ordini sono ordini. Il poliziotto non perde di vista neanche per un momento il suo uomo. Una sola volta Bordiga giocò un brutto tiro al maresciallo scantonando in un vicolo, e quando il vecchio poliziotto arrivò ansante in un bar di via Roma dove finalmente aveva intravisto l'ingegnere trovò pronta per lui una tazzina di caffè. L'ingegnere aveva ordinato due «espressi» e lo stava aspettando.
Nella schedina personale archiviata alla Questura centrale di Napoli sotto la foto di Amadeo Bordiga vi è scritto: «rivoluzionario comunista internazionale amico personale di Lenin». La schedina risale al settembre del 1920 e da allora non è stata più aggiornata. La scritta sotto la foto della schedina personale di Bordiga siamo in grado di dettarla noi oggi: «Amadeo Bordiga capo del partito comunista internazionalista, nemico numero uno di Stalin». Tempo fa di Amadeo Bordiga si interessò la stampa di tutto il mondo, quando l'ingegnere fu ufficialmente definito il «Tito italiano». In quel periodo il maresciallo ebbe due uomini di rinforzo per pedinare Bordiga mentre il resto della «squadra politica», come ampliamente fu pubblicato, nelle campagne dell'aversano dava la caccia a quattro fantomatici personaggi «emissari sovietici» giunti a bella posta a Napoli da Mosca per prendere contatti diretti con Bordiga. Poi si disse che il fatto era «privo di consistenza». La verità non la seppe nessuno e Bordiga tornò nel dimenticatoio cioè in quella che lui chiama «la zona grigia del silenzio» nella quale ama lavorare «a preparare la rivoluzione». La verità sugli «emissari sovietici» non la seppe nessuno. In realtà, siamo ora in grado di rivelare che la «visita» ci fu. Ma Bordiga si rifiutò nella maniera più categorica di incontrarsi con gli «inviati di Stalin».
«Ras dwa, tri mui bolsceviki». Durante il suo lavoro d'ingegnere («ho scelto i logaritmi!» ha detto una volta) Bordiga nel suo studio sito all'ultimo piano del vecchio palazzo Salsi alla Marina, canticchia spesso il motivo di questa canzoncina molto in voga in Russia ai tempi di Lenin «uno, due, tre, noi bolscevichi!». I tre bolscevichi allora erano i tre gatti del rivoluzionario russo: Osram, Katia, Moutzi. Il «quarto gatto bolscevico» era Lenin ed «il quinto gatto italiano» come lo chiamarono a Mosca: Amadeo Bordiga.
Il «quinto gatto italiano» andò in Russia nel luglio del 1920 su invito personale di Lenin. Aveva percorso una lunga, faticosa marcia per giungere a tanto.
Amadeo Bordiga dei conti Degli Amidei è nato in un comune vesuviano e precisamente in quello di Resina il 13 giugno 1889. Suo padre Oreste, professore di Agraria all'Università di Portici, veniva da Venezia, di nobile famiglia imparentata anche con un Doge. A 23 anni Bordiga si iscrisse alla sezione socialista di Portici e raccogliendo fondi riuscì a pubblicare un settimanale «Il Proletario» che usciva ogni domenica. Fin da allora Bordiga sosteneva «l'intransigenza assoluta» e militava nella sinistra del partito socialista.
Dal 1912 al 1918, ogni domenica, l'allora giovane Bordiga, faceva quattro volte al mese il giro dei comuni vesuviani e distribuiva da una carrozza le copie del suo settimanale che, per precauzione, portava nascoste sotto il mantice della vettura. Il cocchiere, un socialista arrabbiato, metteva a disposizione di Bordiga carrozza e cavallo e qualche soldo per la colazione. I due se ne andavano al trotto nelle assolate campagne del Sud al canto di quei «motivetti» rivoluzionari dai quali il clero usciva sempre malconcio e che in quel tempo facevano la fortuna del nascente estremismo di sinistra nelle aule universitarie italiane.
Il 24 ottobre 1918 Amadeo Bordiga è chiamato alla direzione del settimanale «Soviet». Finirono le assolate gite in carrozza. Il Sud si accorgeva di Bordiga «il veneziano di Napoli». Quando nacque la polemica tra l'esordiente Bordiga ed il grande Labriola, il grosso pubblico dei lettori napoletani si divise: «o per Labriola o per Bordiga non c'erano vie di mezzo!» La fama del giovane ingegnere che aveva in pubblico rifiutato il titolo di conte, che gli spettava per legittima discendenza, si andava consolidando. Arturo Labriola in quel tempo dal Sud pontificava. Era «l'uomo più rivoluzionario di Napoli». Bordiga superò Labriola in quella che i giornali dell'epoca definirono «spericolatezza rivoluzionaria». Divenne di colpo popolarissimo. Nasceva a Napoli una moda più che un partito: il bordighismo. Giovanotti di buona famiglia borghese, con un fiore rosso all'occhiello della giacchetta a redingote, inseguivano nelle strade di Napoli il rivoluzionario Bordiga agitando fazzoletti anche rossi. Poco amante della folla, incline alla solitudine come la maggior parte dei veri rivoluzionari, Bordiga sfuggiva tutto quel rosso come un toro riottoso. Non era quello il suo ambiente. Preferiva le officine ed i cantieri. Ma ormai la sua popolarità aumentava.
Intanto da Roma, da Bologna, da Torino i grossi papaveri delle sinistre guardano a Bordiga con grande diffidenza. Il puledro scalpita troppo e «tira calci poderosi». E «quando parla di cose più grandi di lui dovrebbe tenere la lingua a freno!». Forse a Bologna si pensa già di sconfessarlo pubblicamente ed in maniera definitiva, quando arriva la «bomba» dalla Russia dove Lenin vive le giornate del suo trionfo. Lenin in persona nel suo libro «Estremismo malattia infantile del comunismo» cita il giornale «Soviet» diretto da Bordiga e dichiara di seguirlo con grande interesse. Nel luglio del 1920 arriva l'invito personale di Lenin e Bordiga si reca a Mosca. Vi rimane due mesi circa. «Ras, dwa, tri, mui bolsceviki!». Il giovanotto che andava in carrozzella per i comuni vesuviani a distribuire le copie del «Proletario» ha fatto molta strada. Arrivano in Italia sue fotografie nelle quali lo si vede in troika con Lenin in una ispezione nei dintorni della capitale russa.
Poi Bordiga torna in Italia ed ancora nel 1921, dopo essere stato il fondatore della frazione socialista per la costituzione del P.C.I. diventa uno dei massimi esponenti del partito. Il neonato P.C.I. emette i suoi primi vagiti: «Il Comunista» a Roma, «Ordine Nuovo» a Torino ed il «Lavoratore» a Trieste. Sono i primissimi quotidiani del partito comunista italiano. Bordiga ne muove i fili mantenendosi in contatto epistolare con Lenin che firmava le sue missive a Bordiga con il suo vero nome e cognome: Vladimiro Jlitch Ulianov, ma poi scrive a parte in una lettera autografa: «efficace pseudonimo il mio! Rapido come una martellata. Ha fatto da solo la sua rivoluzione distruggendo il mio lunghissimo e noioso nome-cognome monotono come una cantilena!».
Palmiro Togliatti era allora redattore nel giornale «Ordine Nuovo» di Torino e Bordiga era il capo del partito. Nel 1923 Bordiga è arrestato e nella direzione del partito è sostituito dal triumvirato: Togliatti, Gramsci, Grieco. Dopo un lungo processo viene assolto dalla Magistratura dalla accusa per «complotto contro lo Stato» perché il fatto non costituisce reato. Nel 1926 Bordiga ritorna a Mosca. Da questo periodo comincia per il giovanotto di un tempo che distribuiva il «Proletario» dalla carrozza la crisi di allontanamento dai traditori della «causa comunista», e primo tra tutti da Stalin.
Bordiga sostiene apertamente la «intransigenza a tutti i costi». Ma in Russia non c'è più nessuno disposto ad ascoltarlo. I tempi eroici del leninismo sono per sempre tramontati. «I tempi aurei della rivoluzione» che andarono fino al 1920. Allora in Italia, in Norvegia, in Francia il partito socialista era «una cosa sola» con la Terza Internazionale. Circolavano in tutta Europa a milioni di esemplari i medaglioni di Lenin «profilo e faccia» che portava la scritta dalle risonanze bibliche: «ex oriente lux». Operai italiani imponevano ai loro primi nati il nome di Lenin.
Nel 1926 Bordiga disposto a dare la vita per la rivoluzione, come aveva promesso a Lenin, trova a Mosca le carte cambiate ed inutilmente cerca «l'eredità di Lenin». Gli incontri con Stalin e compagni ... sono molto freddi. «Cosa vuole quest'italiano, che noi si vada a mettere una bomba sotto al Vaticano?». Zinoviev si scontra violentemente con Bordiga. In Russia stanno gettando acqua sul fuoco; le posizioni insperatamente raggiunte da «quel pazzo di Lenin» sono comode! Bordiga invece insiste. Vuole l'azione diretta: «niente ricostruzione, distruzione a tutti i costi del regime capitalista subito anche oltre i confini della Santa Patria Russia!!!». Ma a Mosca si temporeggia e viene inaugurata quella che Zinoviev chiama «la grande tattica del sapere attendere».
Bordiga si chiude nel suo albergo e non vuole più vedere nessuno. Rifiuta di incontrarsi con Stalin. Zinoviev lo va a trovare invitandolo «per causa comune» a desistere dal suo atteggiamento e Bordiga gli risponde: «La tua tattica, compagno Zinoviev ti condurrà al plotone di esecuzione!». Qualche tempo dopo Zinoviev è fucilato. Intanto Stalin dinanzi al quale la Russia comincia a tremare non perde d'occhio Bordiga e cerca di trattenerlo in Russia «a smaltire il fuoco mediterraneo». Cerca di liquidarlo ma deve andarci piano perché ci sono ancora allora in Russia molti compagni che non si sono scordati di Lenin e che la pensano come Bordiga.La tedesca Fischer riporta un giudizio di Stalin su Bordiga: «Questo Bordiga dice sempre la verità!...» (Correspondance Internationale, 1926, pagina 510). Fiutato il vento infido Bordiga lascia la Russia. Dopo molte peripezie e dopo essere passato da un esilio all'altro, nel 1931 dopo una riunione segreta tenuta a Mosca viene ufficialmente espulso dal Partito Comunista Italiano.
Questo l'uomo che il maresciallo della «squadra politica» della Questura di Napoli ha l'incarico di sorvegliare da qualche anno a questa parte.
«Il nemico numero uno di Stalin» però ha anche altri «sorveglianti» di diverso calibro che non lo perdono d'occhio un solo momento. Nessuno al mondo immaginerebbe che il tranquillo ingegnere che a Napoli conduce una vita apparentemente borghese è il diretto erede di Lenin ed il capo segreto del «Partito comunista internazionale». Bordiga muove da Napoli i fili del suo partito «preparando la rivoluzione». Non si sa con precisione quanti iscritti abbia il partito comunista internazionalista che si estenderebbe con la sua segreta trama in Italia, in Russia, negli Stati Uniti, nell'America del Sud, in Asia. E' costituito ufficialmente e pubblica un giornale settimanale a Milano: «Battaglia Comunista»; apparentemente non obbedisce a nessun «capo» ma il vero «capo» sta a Napoli. Bordiga tuttavia dice: «io faccio l'ingegnere... ho scelto i logaritmi!».
Due anni fa un libro pubblicato da un comunista americano nel quale si parlava di Bordiga suscitò un interesse palese nelle autorità americane. Un altro personaggio politico statunitense venne a bella posta a Napoli - si dice - per incontrarsi con Bordiga che in quella occasione si rese irreperibile. La sua indole di rivoluzionario nato non viene a patti con nessuno. Egli è il nemico di Stalin e l'avversario irriducibile del capitalismo. Odia i suoi ex compagni che oggi occupano i posti di primo piano nel «carnevale comunista».
Giorni fa uscendo dalla sua palazzina una grossa auto nera stava per investirlo. Sarà un caso ma parecchie volte in questi ultimi anni la vita dell'ingegnere è stata seriamente minacciata. Nei giorni in cui si parlò degli «emissari sovietici» a Napoli Bordiga non cambiò le sue abitudini. Ma che questi «emissari» circolassero in Italia e poi a Napoli è un fatto assodato che Bordiga non smentisce. Se si decidesse a rientrare nelle file del Partito comunista Italiano potrebbe essere subito il successore di Togliatti. Sembra che Stalin lo tema e lo ammiri insieme. Ma Bordiga, quasi che lo spirito di Lenin si sia impadronito di lui, è irriducibile alle promesse seducenti ed alle minacce. Sta preparando la «sua rivoluzione» giorno per giorno. Da ieri circolano per Napoli e presto appariranno in tutta Italia e in tutto il mondo dei curiosi volantini che recano dieci domande alle quali bisogna rispondere. Le dieci domande formano il «decalogo scritto da Bordiga». Chi risponde di sì a tutte e dieci è maturo per la «grande rivoluzione».
«Ras, dwa, tri, mui bolscevichi». I tre gatti di Lenin sono morti ed anche Lenin è morto. Forse al mondo è rimasto un solo bolscevico: «il quinto gatto italiano», l'ingegnere Amadeo Bordiga, l'uomo che disse di no a Stalin.
Nino Longobardi
Il Lavoro Illustrato, n. 22, (giugno) 1952