Umanità , 28 luglio 1970
Riproponiamo oggi, nella sezione Archivio Bordiga/Articoli su Bordiga (che contiene già una cinquantina di articoli) uno scritto poco noto ma che vale la pena di essere conosciuto.
L'articolo apparve, alla morte di Bordiga, il 28 luglio 1970 su l' Umanità (giornale dei socialisti unitari) ed è firmato A.G.
Non sappiamo a chi corrispondano queste iniziali e saremo grati a qualche nostro lettore se ce lo facesse sapere.
Bordiga
L' Unità di domenica ha dato notizia della morte di Amadeo Bordiga con discreta evidenza: in prima pagina alla scomparsa di lui era dedicato un riquadrato come quello che l'edizione di ieri, lunedì, riservava all'intervista di Alfredo Binda sul ciclismo italiano; salvo che l'intervista di Binda era riquadrata di rosso e la notizia della morte del vecchio capo no.
Dal punto di vista della "liberalizzazione" del PCI, è apparentemente un grande, grandissimo, progresso; al tempo di Stalin, di Bordiga , morto o vivo, o non si sarebbe parlato o si sarebbe parlato per dire che egli era stato, obiettivamente e subiettivamente, lo strumento di provocazione del quale la borghesia si serviva contro il PCI. E dal punto di vista del "culto della personalità", a lamentarsi della sobria menzione non sarebbe certo stato il vecchio capo, che arrivava al punto di sopprimere, nella "storia della sinistra comunista" ogni menzione del suo nome, anche quando, per esempio, riportava un articolo di Mussolini che discuteva le sue tesi. Al posto del nome Bordiga troviamo nel testo da lui curato, tra parentesi quadre, espressioni come "l'estensore dell'articolo che noi commentiamo" o analoghe.
E tuttavia... Tuttavia non crediamo ci sia peggior segno delle dimissioni di un partito dinanzi alla teoria e alla storia, cioè dinanzi agli ideali, che questo congedo dato in tal modo cortese a colui che non solo fondò il partito, ma indicò una via alternativa a quella che poi il partito stesso prese, l'unica vera via alternativa, all'infuori naturalmente del ritorno entro l'ambito delle soluzioni socialdemocratiche.
Bordiga fondatore del PCI, anzi del PCd'I, come suonava il nome reale al suo battesimo e come rimase del resto fino alla svolta del "Fronte Popolare", al mutamento sanzionato poi nel 1945: e ciò per indicare che non si trattava di un partito italiano, ma di una sezione dell'Internazionale, di una pattuglia avanzata del grande esercito della rivoluzione universale. Fondatore del PCd'I per una infinità di titoli. Per aver difeso, fin dall'anteguerra, in seno alla gioventù socialista e in polemica con Angelo Tasca (e in genere con tutto lo storicismo italiano, con la pedanteria eroica dei Piemontesi) la concezione di una gioventù socialista che fosse anzitutto lotta rivoluzionaria e intransigente. Per aver guidato la sinistra socialista, il partito del sabotare, nella lotta contro la guerra e averla dominata nella famosa riunione di Firenze nel 1917; per avere condotto, al canto dell'Internazionale, fuori dalla sala del Congresso socialista di Livorno, la minoranza che doveva creare il PCd'I. Per averlo infine guidato nei suoi primordi, nella formulazione delle "Tesi di Roma", che non dimentichiamolo, furono calorosamente approvate da una maggioranza nella quale figurarono Togliatti e Gramsci e Terracini, bordighiani allora.
Il PCd'I fondato da Bordiga a cui aderiva entusiasticamente allora la maggioranza dei rivoluzionari comunisti, non era il partito strategicamente guidato e manipolato dall'alto, collegato con una potenza, adattato alla realtà fino a mimetizzarsi in essa, che la nuova generazione conosce e conoscono anche i militanti entrati nel partito dal 1936 in poi. Bordiga l'aveva concepito come una setta egualitaria, custode cosciente della istanza di radicale rivolta anticapitalista che la lotta di classe secondo lo schema marxista comporta. Per Bordiga la tattica esisteva certamente, ma in un arco assai ridotto, che non comportasse la negazione dei principi cui il partito era depositario. In fondo alla sua concezione c'era l'esperienza per lui negativa di un cinquantennio di trasformismo della sinistra napoletana; c'era un materialismo storico, in cui la parola "storico" non finiva, come nello stesso Gramsci, in una negazione sostanziale del sostantivo "materialismo", cui si sarebbe meglio sostituito la parola "attivismo". Se mai, Bordiga avrebbe sostituito talvolta l'aggettivo "storico" con "matematico" apparentandosi in ciò molto più strettamente ai Russi, dallo stesso Lenin a Bukharin; e, nella sua psicologia dell'ingegnere, allo spietato nemico della democrazia parlamentare che era Sorel.
Quel che diversificava Bordiga da quello che divenne ulteriormente il suo partito, non era questo o quell'aspetto della sua "intransigenza"; il suo famoso "astensionismo", per esempio, contro il quale si sprecò tanto argomentare leninista, o, più tardi, il suo rifiuto di continuare l'adesione del partito agli "arditi del popolo" massonizzanti, per creare squadre di difesa esclusivamente comuniste, o al suo rifiuto dell'"Aventino". Era la sua intransigenza per sé, che aveva come presupposto una fedeltà intima alla visione delle classi contrapposte, dell'irreformabilità, tranne che nella menzogna o nel sangue, del capitalismo, la sua contrapposizione al corso della storia italiana cinquantennale.
E' stato giustamente osservato da Giuseppe Berti in un recente pregevole saggio della "Rivista Storica Italiana" che la visione intransigente di Bordiga, come quella dei gruppi di sinistra che sorsero nel dopoguerra europeo in altri paesi, era apparentemente simile a quella di Lenin, perché comportava la rottura con la tradizione socialista del paese. Ma in Lenin tale visione era legata a una scadenza "vicina", alla prospettiva della rivoluzione immediata.
In Bordiga invece tale prospettiva era a più lunga scadenza. Valeva la pena di rompere il partito socialista per costituire una ferrea lega dei comunisti, non a scopo di una rivolta immediata, ma per dare al proletariato e soprattutto al comunismo (Bordiga respingeva l'operaismo) una guida intransigente e sicura, fino all'avvento del mondo nuovo. Lenin, quando si avvide che la rivoluzione europea non era imminente, ripiegò sulla tattica, da Bordiga respinta del "fronte unico" e della riunificazione con i massimalisti. Il risultato fu poi, dal 1924 in qua, un partito che non aveva più né l'intransigenza profonda della setta messianica che ha rotto con il passato, né l'umanità e la vastità della rappresentanza della tradizione socialista e della maggioranza proletaria. Un partito "nazionale", ma subordinato alla strategia di Mosca; un partito a lunga scadenza, ma destinato a riempire con l'autoritarismo il periodo che separava dalla meta della rivoluzione ritenuta opportuna nella strategia sovietica: un partito né bordighiano né storicista né serratiano né gramsciano, ma nella realtà stalinano e, subordinatamente, togliattiano. Un partito che ha un titolo, la lotta di liberazione, ma non può farlo valere, perché non le è fedele né nell'ispirazione democratica, né in quella rivoluzionaria.
Certo, alla visione bordighiana corrispondeva una certa inerzia. Non, come dissero e scrissero i fedeli propagandisti del partito staliniano, una inerzia traditrice o vile. Anzi, Bordiga in tutto il tempo in cui diresse il partito fu brillante organizzatore, seppe entusiasmare i giovani, portò i suoi all'offensiva, anche nella sezione "militare". Arrestato con i fondi dell'Internazionale, e di fronte a un'accusa che pretendeva di aver risolto la cifra dei messaggi in codice scambiati tra il partito e il Comintern, seppe con la sua brillante conoscenza matematica, mettere in difficoltà l'esperto dell'accusa, facendogli ammettere la possibilità teorica di altre soluzioni alla decodificazione da lui ottenuta. Se si trasse in disparte, fu perché, nella rigida sua adesione alla regola del partito (quel matematico, come spesso accade, era anche un rigido giurista) non volle né creare frazioni né eseguire una politica che tradiva gli interessi del proletariato.
Il Bordiga ultimo, certo, non era più l'uomo vivo che aveva fondato il partito. Aveva creato, o piuttosto gli si era offerta, una sua organizzazione eretica, che considerava " il partito". Durante il nazismo, pur combattendolo, lo aveva ritenuto, in fondo, provvidenziale, perché guariva definitivamente gli operai (avrebbe potuto aggiungere, l'umanità) dalle illusioni democratiche. Considerava l' Unione Sovietica come un paese capitalista, sebbene più debole degli Stati Uniti. La setta sembrava bruciata alla luce della storia.
Ma la sua critica implacabile al doppio gioco ritornava a ogni momento d'attualità. La critica dell'opportunismo, per lui, non era limitata alla socialdemocrazia, ma molto più all'opportunismo bicipite dei massimalisti, di cui aveva gran pratica: quello con una testa rivoluzionaria. E il sapore aspro del suo marxismo astratto, nutrito di positivismo eppure non evoluzionista tornava ad acquistare attualità nel periodo di neopositivismo e neosociologia che attraversiamo.
E' pressoché incredibile, in queste condizioni, il silenzio teorico del partito che si fa passare per la coscienza della classe operaia italiana nei confronti di questo suo antico campione. Stalin, dopotutto, assassinava i suoi avversari, ma dava una spiegazione del loro ruolo storico: erano spie. Ma che spiegazione danno, i comunisti, dell'eresia del loro antico capo, dal momento che non possono dare quella vera che li rivelerebbe come il partito di una potenza, e non lascerebbe loro altre giustificazioni per esistere, poiché tutti gli argomenti che possono venir usati contro Bordiga (la critica del matematismo, l'antifascismo, lo storicismo, ecc.) riconducono fatalmente a quella socialdemocrazia, l'inimicizia con la quale resta il dogma numero uno e la ragion d'essere del partito?
Ecco perché non ci sarà, nell'occasione della scomparsa di Bordiga, dibattito teorico nel PCI. Per il PCI odierno sarà scomparso un ingegnere napoletano bizzarro, e niente più:
A.G.
Umanità, giornale dei socialisti unitari, 28 luglio 1970