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archivio > Articoli su Bordiga>Franco Livorsi: Amadeo Bordiga e la scissione, (Il calendario del popolo, aprile 1982)

aggiornato al: 06/01/2010

Il calendario del popolo, aprile 1982

Riproponiamo una piacevole e interessante carrellata sul PSI e sulla realtà storica che portò alla nascita del PCd'I con il ruolo fondamentale svolto da Amadeo Bordiga. L'autore di questo articolo è Franco Livorsi che qualche anno prima aveva scritto un lavoro biografico su Bordiga con gli Editori Riuniti.       

Teniamo presente la sezione in cui questi scritti sono inseriti, cioè «articoli su», il loro carattere divulgativo e il fatto che spesso sono espressione di una intellettualità borghese, socialdemocratica o, al massimo, esprimente simpatia alle posizioni del comunismo rivoluzionario.

 

 

Amadeo Bordiga e la scissione

 

La visione giacobina del processo rivoluzionario del capo della frazione «astensionista» e il suo contributo alla nascita del P.C.d'I.

 

 

La scissione di Livorno del 1921, al pari delle analoghe fratture che si determinarono nei partiti socialisti di tutto il mondo all'inizio degli anni Venti del nostro secolo, sarebbe incomprensibile ove si prescindesse dal contesto storico caratterizzato dalla grande guerra, dalla rivoluzione russa del 1917 e dal confronto internazionale, via via più aspro e cruento, tra forze della rivoluzione (socialista) e della controrivoluzione (fascista): contesto fondato dunque sulla compresenza fra tre eventi eccezionalmente importanti, senza precedenti e senza vere ripetizioni, neppure in forme analoghe, nella storia europea. Al proposito va ricordato che la prima guerra mondiale fu sentita da un gran numero di persone come una svolta epocale; un poco come il passaggio dal Medioevo al Rinascimento, o dal mondo romano al medioevo, in altri tempi. In  tutti i paesi della vecchia Europa, dalla Francia alla Russia, si formò una corrente socialista di estrema sinistra assolutamente convinta del fatto che la guerra mondiale fosse, o fosse stata, la crisi catastrofica del capitalismo; crisi che avrebbe potuto sboccare, in tempi molto rapidi, nel socialismo o nella barbarie, nella dittatura del proletariato o nella «comune rovina delle classi in lotta» (come  a suo tempo aveva spiegato, nel Manifesto del partito Comunista del 1848, Carlo Marx).

Come è noto questa convinzione era fortissima in Lenin, il cui libro nel 1916, L'imperialismo, fase suprema del capitalismo faceva riferimento, sin dal titolo, da un lato al periodo «ultimo» del sistema di profitto privato, ormai caratterizzato da tendenze monopolistiche e oligopolistiche (cioè in mano a un piccolo gruppo di imprese interdipendenti), e di conseguente conquista dei mercati con qualsiasi mezzo, anche militare; dall'altro, alla morte, ritenuta imminente, del capitalismo stesso.

 

Bisognava cambiare il nome del partito

 

Lenin, dopo aver guidato la rivoluzione proletaria in Russia nel 1917 portò a compimento un proposito, decisivo, già espresso nell'agosto del 1914: il mutamento di nome del proprio partito, su scala nazionale e internazionale. Non ci si sarebbe più  chiamati socialisti. L'adesione di quasi tutti i partiti socialisti del mondo alla guerra condotta dal proprio Stato, e in generale allo Stato parlamentare, aveva infatti fatto sì che «socialismo» fosse ormai sinonimo di «riformismo». I fautori dell'internazionalismo e della rivoluzione proletaria avrebbero perciò dovuto chiamarsi «comunisti». Il mutamento era ritenuto urgente anche perché la rivoluzione proletaria internazionale era ormai, a parere dei bolscevichi, all'ordine del giorno. Lenin, ad esempio, concludendo il primo congresso dell'Internazionale comunista, nel 1919, ebbe a dire: «La vittoria della rivoluzione proletaria in tutto il  mondo è assicurata. E' vicina l'ora della fondazione della repubblica mondiale dei soviet» (Opere complete, vol. 28°, Roma, Editori Riuniti, 1967, p. 479). Lo stesso Lenin, almeno allora, non avrebbe avuto niente da obiettare al motto poi formulato da Che Guevara, quasi cinquant'anni dopo, secondo il quale «il solo dovere del rivoluzionario è quello di fare la rivoluzione». Poi, però, l'attualità della rivoluzione era risultata un processo ben più complesso di quello che Lenin e compagni avessero dapprincipio pensato. Poiché, tuttavia, esplosioni rivoluzionarie, o formalmente tali, si verificavano in molti paesi; poiché, anche dopo le fallite rivoluzioni, in Ungheria e soprattutto  nella grande Germania erano aperte  contraddizioni sociali e politiche che parevano insanabili con metodi pacifici; poiché - infine - l'Italia era in subbuglio, i bolscevichi non ritennero di dover cambiare la diagnosi «catastrofica» e le terapie d'urto da essi preposte per la società del tempo. Pensarono invece proprio in base alle disfatte della rivoluzione proletaria nell'Ungheria di Bela Kun e nella Germania di Rosa Luxemburg, di dover far nascere la rivoluzione stessa in Occidente, attraverso una sorta di taglio cesareo; si convinsero, in altre parole, della necessità di un robustissimo intervento soggettivo rivoluzionario, davvero conforme a quella che oggi taluno ha chiamato «autonomia del politico». Da un lato tentarono di stabilire una frontiera aperta con la Germania, per favorirne in ogni modo il divenire rivoluzionario; dall'altro accelerarono, con tutta la forza del loro prestigio ed anche con tutta la potenza del loro Stato proletario nascente, la separazione tra riformisti e rivoluzionari in tutto il mondo, ossia il processo di selezione naturale dei rivoluzionari in partiti veracemente comunisti, al fine di offrire alle masse proletarie in incontenibile fermento l'unica cosa di cui esse parevano politicamente carenti: una direzione rivoluzionaria diffusa, capillare, presente in ogni sede in cui il proletariato fosse impegnato, temprata per il decisivo prossimo conflitto fra le classi sociali.

In Italia l'uomo che si fece interprete del bisogno della rivoluzione proletaria, autonomamente e poi in accordo via via crescente con i bolscevichi, si chiamava Amadeo Bordiga. Pur essendo nato a Resina, presso Napoli, solo nel 1889, Bordiga era un dirigente abbastanza autorevole del PSI sin dal 1912. In quell'anno aveva condotto il congresso nazionale della Federazione italiana giovanile socialista da posizioni rivoluzionarie attivistiche, contrapposte a quelle tendenti al socialismo come apostolato, predicazione e diffusione di cultura, proprie del suo antagonista politico, il torinese Angelo Tasca. Tra il 1912 e il 1914, e poi tra il 1915 e il 1918, il nome di Bordiga era comparso sempre più spesso sulla prima pagina dell' «Avanti!». Lo stesso Bordiga era anche stato direttore del settimanale della Figs, «L'Avanguardia», nel 1917. Nello stesso anno, con assenso di Gramsci, aveva chiesto che la rotta di Caporetto venisse utilizzata a fini rivoluzionari da parte del Psi: abbracciando dunque, nel modo in cui ciò poteva avvenire in Italia, dove a sinistra c'era il Psi e non un partito bolscevico, temprato da decenni di attività clandestina ed erede di una cospirazione secolare contro gli zar, il disfattismo rivoluzionario, l'idea - leninista - della trasformazione della guerra imperialista tra gli Stati in guerra civile tra le classi.

La rivoluzione russa aveva molto entusiasmato Bordiga. Essa, però, non gli era parsa né una smentita del Capitale di Marx,  che secondo i socialisti tradizionali dimostrava la necessità del capitalismo in Russia, né il trionfo della libertà proletaria attraverso i soviet, o consigli operai, come aveva, allora, ritenuto Antonio Gramsci. Bordiga riteneva, piuttosto che la rivoluzione russa avesse dimostrato che i rivoluzionari erano in un'epoca catastrofica come quella che si stava ancora vivendo, il segreto del successo, o - quando erano troppo deboli - della disfatta, delle rivoluzioni. Poiché il partito del proletariato italiano, il Psi, con ogni evidenza, non era un partito rivoluzionario, era necessario separare al più presto in esso, il grano dal loglio: i rivoluzionari dai non-rivoluzionari. Per i suoi trascorsi politici Bordiga comprese ciò prima di ogni altro giovane dirigente del Psi, e questa comprensione anticipata, unita a un prestigio conquistato a poco a poco dal 1912 in poi, fu alla base della sua egemonia sul movimento comunista nascente: egemonia che invece dapprincipio Gramsci non riuscì a realizzare.

 

Bordiga astensionista

 

Bordiga, al pari di Lenin, era convintissimo dell'attualità della rivoluzione proletaria in Occidente. Dapprima pensò che fosse questione di due tre anni al massimo; poi, al più, di un decennio. Il 29 giugno 1919, in proposito, sul suo settimanale napoletano «Il Soviet», scrisse: «Esistono già tre repubbliche comuniste  [Russia, Baviera, Ungheria], siamo dunque nel pieno corso storico della rivoluzione, fuori del periodo in cui la lotta svolgevasi entro l'ordine borghese». (O elezioni o rivoluzione, non firmato). Egli riteneva che in vista di tale obiettivo si dovesse rinunciare a ogni competizione elettorale, per concentrarsi sul lavoro di costruzione del partito rivoluzionario, cioè dello stato maggiore collettivo della rivoluzione proletaria, da temprare nella vita politica delle organizzazioni e nel fuoco delle lotte di massa. Era, quindi, antielezionista, astensionista e soprattutto favorevole, sin dall'inizio all'esclusione dei socialdemocratici dal Psi. Era convinto, erroneamente, come affermò al congresso di Bologna dell'ottobre 1919, che «al momento decisivo della sua storia, la borghesia non si difende attraverso partiti borghesi», per non essere «spazzata via», ma piuttosto «attraverso i campioni del metodo socialdemocratico», parlamentarista. (Poi, come si sa, invece del socialismo parlamentare sarebbe arrivato il fascismo, ma questo sarebbe accaduto in altro contesto storico, sia pure tanto vicino cronologicamente, e del resto Bordiga avrebbe sempre inteso Mussolini come un socialdemocratico in camicia nera).  A tale congresso le tesi di Bordiga, astensioniste e proponenti l'espulsione dei riformisti, furono clamorosamente battute. Bordiga riportò solo 3.417 voti, contro i 48.411 andati ai massimalisti elezionisti di Giacinto Menotti Serrati e i 14.880 andati ai massimalisti unitari di Costantino Lazzari (sostenuti pure, in nome della non violenza,  dai riformisti seguaci di Filippo Turati). Tuttavia a Bologna Bordiga fu in grado di fondare una vera e propria frazione «comunista», seppur «astensionista», ben decisa di epurare il Psi dai riformisti e a dare ad esso un nuovo nome: quello di Partito comunista italiano (Frazione comunista astensionista). («Il Soviet», 20 ottobre 1919).

Concentrato sull'obiettivo del partito rivoluzionario e dello scontro con lo Stato, Bordiga finiva con il trascurare le tappe intermedie, magari di breve periodo ma imprescindibili, che dovevano collegare il tempo senza rivoluzione a quello della rivoluzione. Nel suo schematismo, dottrinario e un po' ossessivo, sia pure ancora legato a una percezione di tipo drammatico niente affatto ingiustificata dello scorrere dei tempi rivoluzionari, Bordiga finiva per vedere la relazione tra spontaneità delle masse e coscienza rivoluzionaria «di partito» come un rapporto tra due universi sostanzialmente distinti e autonomi, seppure convergenti. Tra il sindacalismo tradizionale, senza i soviet, e il mondo nuovo, socialista, soviettista, per lui c'era solo, come termine di collegamento, l'esasperazione dei conflitti di classe in  vista dell'assalto finale allo Stato borghese. Aveva, insomma, una visione giacobina del processo rivoluzionario. Per questo guardava benevolmente, ma anche con diffidenza, persino la battaglia di Antonio Gramsci e del settimanale «L'Ordine Nuovo» di Torino tendente a realizzare tramite i consigli di fabbrica, o comitati dei delegati operai eletti reparto per reparto dalla totalità delle maestranze di un'impresa, il controllo operaio sulla produzione ancor prima della rivoluzione proletaria. Bordiga temeva che per tale via potesse affermarsi un nuovo genere di riformismo, fondato sul gradualismo economicistico invece che politico-legislativo come era stato per i riformisti del genere di Filippo Turati; un gradualismo pur sempre socialdemocratico, quantomeno latentemente. In quel torno di tempo  la preoccupazione principale di Bordiga era, però, un'altra. Concerneva  l'impreparazione rivoluzionaria del Psi. Questo partito era stato pacifista, invece che solidale con lo Stato in guerra, nel 1915-18. Al congresso di Bologna si era pronunciato per la rivoluzione e per la dittatura del proletariato. Tuttavia non era affatto in grado di affrontare un conflitto risolutivo con il potere borghese. Bordiga lo sapeva e lo mise in luce con chiarezza nel Consiglio nazionale del Psi tenutosi a Milano tra il 18 e il 22 aprile 1920. «Noi», disse il leader napoletano, «siamo vissuti nella democrazia borghese: non abbiamo una stanza per nascondere un compagno, non abbiamo un timbro per falsificare i passaporti, non abbiamo cose che servano a questo lavoro rivoluzionario. Noi consideriamo ancora il problema secondo la vecchia mentalità: le armi il proletariato potrà trovarle, ma il partito manca di mezzi tattici per l'azione che si chiama illegale; ne manca completamente perché si lascia attrarre dalle insidie della democrazia borghese, che lo sovraccarica di compiti minimi e riesce così a spezzare la sua azione» (Storia della sinistra comunista. 1919-1920, Milano, Il Programma Comunista, 1972, p.353, e Franco Livorsi, Amadeo Bordiga, Roma, Editori Riuniti, 1976, p. 131).

Questa piattaforma, ostile al riformismo, ma anche al verbalismo rivoluzionario proprio dei massimalisti, non poteva non convergere con quella di Gramsci e soprattutto dei bolscevichi.

Gramsci non era un «astensionista». Si recò anzi, nel maggio 1920, al convegno nazionale di Firenze della frazione di Bordiga, e perorò in quella sede, l'abbandono della parola d'ordine, a suo dire sterile, astratta e illusoria dell'astensionismo. Al tempo stesso Gramsci riteneva essenziale l'accordo con Bordiga, ai fini della liquidazione dell'egemonia della socialdemocrazia, riformista e anche massimalista, sul movimento operaio (a livello politico e sindacale). Su ciò, anzi, tra la primavera del 1920 e tutto l'autunno dello stesso anno vi fu una certa divergenza tra Gramsci, Tasca, Togliatti e Terracini. Gramsci, di fronte alla sconfitta degli operai torinesi nel grande sciopero generale detto «delle lancette» verificatosi a Torino nella primavera del 1920, e sconfessato dal Psi di Serrati, oltre che dalla Confederazione Generale del Lavoro degli ultrariformisti come D'Aragona, pensava che fosse necessaria una forte e motivata unità di tutta l'estrema sinistra proletaria. Per tale ragione era stato ed era favorevole all'unità con i bordighiani nella sezione del Psi di Torino. Su questa base, anzi, tra il 1919 e il 20 il gruppo caratterizzato da Gramsci e quello facente capo a Bordiga erano stati, insieme, alla testa del socialismo nella città dell'automobile. La forte autonomia dei consigli di fabbrica dal sindacato voluta da Gramsci in nome della democrazia operaia, era funzionale alla polemica contro i riformisti. Tasca però, anch'egli tra i fondatori dell' «Ordine Nuovo», era di diverso avviso, anche perché era un dirigente di primissimo piano del sindacato, nel cui ambito si era, in misura non trascurabile, formato. Per ciò, nella primavera del 1920, Tasca e Gramsci ruppero i rapporti di solidarietà politica. Poi, al tempo delle elezioni amministrative dell'estate, Tasca, Togliatti e Terracini assunsero posizioni da massimalisti elezionisti. Tutti, però, si riconciliarono, più o meno compiutamente, con Gramsci e con Bordiga, di lì a poco: per reazione alle sconfitte proletarie del 1920 (culminate nella mancata generalizzazione dell'occupazione delle fabbriche metallurgiche a quelle di ogni settore, e quindi nella rivoluzione mancata, nel settembre di quell'anno) e allorché fu chiaro che anche in base ai deliberati del congresso dell'Internazionale Comunista del 1920 la scissione del Psi, «da sinistra» sarebbe stata inevitabile.

 

Lenin lo invita al Congresso

 

Bordiga aveva avuto un ruolo niente affatto passivo nella formazione della predetta decisione del Comintern. Egli aveva cercato di far pervenire lettere-documento al Comintern  sin dal novembre 1919, e poi nel gennaio 1920, per porre al primo posto la questione della formazione del partito rivoluzionario in Italia: questione che con il Psi non poteva certo dirsi risolta. In proposito aveva detto ai bolscevichi: «Se non si riesce ad organizzare un partito che si occupi unicamente e sistematicamente della propaganda e preparazione comunista del proletariato, la rivoluzione potrà risolversi in una sconfitta». (Opere cit., p. 112 e p. 138). Bordiga riuscì pure a partecipare al secondo congresso dell'Internazionale Comunista tenutosi a Pietrogrado a partire dal 19 luglio 1920. Come si è detto, da un lato, anche nel corso dei lavori congressuali, si seguiva, con trepidazione, la marcia dell'armata rossa di Trotckij, armata che era allora volontaria, proletaria, rivoluzionaria, non professionale e non certo militarista, verso Varsavia; dall'altro si agiva, sempre a livello di congresso, come una sorta di assemblea costituente del partito comunista mondiale, volta a dare alle organizzazioni comuniste di ciascun paese, in gestazione, i principi e la strategia generale, per immunizzarle da quei tratti di riformismo, «opportunismo» (fatto anche di  «sparafucilismo», o verbalismo «rivoluzionario», massimalista) ed estremismo risultati rovinosi nel passato prossimo e anche nel presente.

Bordiga non aveva, in Russia, un mandato specifico al Psi, ma fu ugualmente ammesso al congresso, pare per espressa volontà di Lenin. Sulla questione del parlamentarismo e dell'astensionismo fu aspramente criticato da Lenin, che lo accusò di sostituire la propria «volontà rivoluzionaria alle condizioni che determinano l'orientamento di tutte le classi nella società contemporanea». Lenin disse che «se tutte le classi sono spinte a partecipare alla lotta parlamentare  vuol dire che gli interessi e i conflitti si riflettono effettivamente nel parlamento». Fece osservare che anche  riconoscendo il carattere borghese del lavoro parlamentare e degli stessi parlamentari, non si poteva non tener conto del fatto che anche per fare la rivoluzione proletaria erano indispensabili, a migliaia e migliaia, elementi professionali del vecchio mondo borghese, ad esempio nei settori militare ed economico. E ripropose la sua tesi, allora espressa anche nel libro L'estremismo, malattia infantile del comunismo, sulla possibilità e necessità di usare i parlamenti come tribune per la propaganda di massa.

Bordiga replicò molto brevemente osservando che se si riconosceva la possibilità di far lavorare i borghesi a fine proletari, si sarebbe anche potuto riconoscere che governi di sinistra, anche in regime parlamentare, potevano favorire l'avanzata del proletariato, come dicevano tutti i riformisti. Sostenne, inoltre, che il «parlamentarismo rivoluzionario» alla prova dei fatti non sarebbe mai risultato «rivoluzionario». Si sottopose però pienamente ai deliberati congressuali, senza troppe rimostranze. Ormai, infatti, aveva capito che era possibile accordarsi con i comunisti di tutto il mondo, a partire da Lenin, al fine di rendere improcrastinabile e definitiva la rottura del Psi. Il resto, a quel punto, per lui poteva anche aspettare.

Nonostante le rimostranze avanzate dallo stesso Serrati al congresso, Lenin era decisissimo nel proprio scissionismo. Non si faceva più la minima illusione sull'attualità della rivoluzione in Occidente e in Italia, soprattutto dopo che fu chiaro che il collegamento tra Russia e Germania proletaria, tramite una Polonia sovietizzata, non ci sarebbe più stato Una rivoluzione proletaria in Italia prima che nell'Europa centrale per Lenin era impensabile, per la stessa deficienza di materie prima del nostro paese. Lo disse espressamente, allora, agli stessi delegati italiani. Tuttavia egli riteneva che un vero partito comunista, negli anni successivi, sarebbe stato indispensabile per la rivoluzione. Accettò perciò di buon grado di inserire tra le Ventun condizioni o tesi per l'ammissione dei singoli partiti nell'Internazionale comunista, la seguente proposta di Bordiga: «La minoranza che voterà contro il nuovo programma [del Congresso dell'Internazionale Comunista] dovrà in forza dello stesso voto essere esclusa dal partito». Tale «condizione», cioè tale esclusione di chi non condividesse il programma storico, rivoluzionario, dei comunisti, avrebbe dovuto essere realizzata attraverso «un congresso straordinario» da «convocare al più presto» (Opere citate, pp.690-692 e 145-146). In tal modo i riformisti, per restare nel Psi, avrebbero dovuto accettare tutti i principi e obiettivi dell'Internazionale Comunista, diventando rivoluzionari: il che era assurdo, e i massimalisti, egemoni nel Psi per restare nell'Internazionale Comunista avrebbero dovuto cacciare la minoranza riformista entro pochi mesi. Per questo lo storico Helmut König ha sostenuto che «l'arma che sei mesi più tardi avrebbe spaccato il partito socialista italiano era stata forgiata. Il suo artefice si chiamava Amadeo Bordiga». (Lenin e il socialismo italiano, Firenze, La Nuova Italia, 1972, p. 132).

Su queste basi Bordiga, nel convegno comunista tenutosi a Milano nell'ottobre 1920, rinunciò all'astensionismo. Si costituì una frazione assolutamente concorde su tre punti: accogliere i deliberati del Comintern; espellere i riformisti; cambiare il nome del partito, o cambiare partito. La corrente si dette un esecutivo composto da due bordighiani e un massimalista (Bordiga, Fortichiari e Bombacci), e un comitato provvisorio composto da sette militanti: Bordiga, Repossi, Fortichiari, Gramsci, Terrracini, Bombacci, Misiano. I primi tre erano bordighiani; gli altri erano considerati massimalisti di sinistra. La bilancia, come risultava dall'esecutivo, pendeva già dalla parte dei primi, sia per ragioni di qualità personali dei leaders, sia perché i militanti dell' «Ordine Nuovo», pur equiparati ai massimalisti di sinistra e per ciò non presenti nell'esecutivo provvisorio, avevano sostenuto Bordiga e i suoi compagni piuttosto che i «vecchi», i barbuti massimalisti, «i musi che non piacevano», in particolare al convegno comunista tenutosi a Imola nel novembre 1920.

Il carattere di unione dei rivoluzionari proprio del Partito comunista nascente fu sostenuto, al congresso socialista di Livorno del 1921, soprattutto da Bordiga. Intervenendo il 19 gennaio egli pose in netta antitesi, democrazia (borghese) e comunismo (proletario), tracciando un vasto quadro storico che collegava l'emergenza di tendenze guerrafondaie e controrivoluzionarie caratteristiche della socialdemocrazia internazionale al riformismo e all'opportunismo penetrati a poco a poco nei partiti socialisti, per tal via catturati ideologicamente dalla borghesia, e pronti a ragionare, per proprio conto, in termini conformi alle esigenze di conservazione del capitalismo, o comunque a rinviare, in ogni occasione, a tempo indeterminato, la resa dei conti con il sistema borghese. Lungi dal ritenere che il Pcd'I fosse una pura espressione  dell'Internazionale comunista, Bordiga rivendicò la continuità tra sinistra socialista e comunismo, esclamando, tra alti clamori: «Noi, se dovremo andarcene, vi porteremo via l'onore del vostro passato, o compagni!». Nel nome del fine comune della rivoluzione proletaria, riaffermò contro i contraddittori, la solidarietà tra Gramsci, che «può essere su una falsa strada», «quando io sono su quella vera», e se stesso. Fece, insomma, un discorso veramente storico, all'altezza del più importante momento di rottura che si fosse mai verificato nella vicenda pur tanto travagliata del Psi.

Si giunse, così, alla votazione finale, che diede, su 172.487 votanti, 98.028 voti ai massimalisti elezionisti di Serrati, 14.695 voti ai riformisti e 58.783 voti ai comunisti. Il giorno dopo, il 21 gennaio 1921, nel teatro San Marco di Livorno, fu costituito il Partito comunista d'Italia, sezione dell'Internazionale Comunista. Sorgeva, allora, un partito rivoluzionario, senza uguali nella tradizione politica italiana.

La rivoluzione proletaria fu però sconfitta in tutta l'Europa. Non è affatto detto, tuttavia, che questo risultato fosse scontato sin dall'inizio.

Non è detto neppure che non valesse la pena di perseguire l'obiettivo della rivoluzione proletaria, dal momento che la sconfitta dell'alternativa rivoluzionaria di sinistra in Germania e in Italia, dove essa era più latente, aprì la strada ai fascisti.

Infine va ricordato che tanto l'eventuale rivoluzione proletaria quanto la lotta contro la controrivoluzione (fascista), richiedevano proprio partiti comunisti, cioè rivoluzionari.

Il problema potrà essere posto in altri termini solo dopo la disfatta del fascismo e di altri movimenti reazionari di massa sorti, magari suo malgrado, sulle sue ceneri. Questa, però, è un'altra storia.

 

Franco Livorsi

 

Il calendario del popolo, n. 442, aprile 1982