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archivio > Archivio sulla sinistra>Abisso, (L'Avanguardia, 16 dicembre 1917)

aggiornato al: 12/10/2009

L'Avanguardia 16 dicembre 1917

Anche questo articolo, come «Humanitas» che abbiamo riprodotto poco tempo fa, è tratto da  L'Avanguardia, il giornale della Federazione Giovanile Socialista Italiana; anch'esso (come Humanitas) è del 1917.

Quasi un secolo è passato da allora e l'abisso incolmabile che separa la visione rivoluzionaria marxista del mondo e del procedere storico da ogni visione riformista, socialdemocratica e falsamente comunista (dello stalinismo e dei suoi eredi) si è vieppiù approfondito.

«Parecchi sono saltati dall'altra parte» è scritto nell'articolo che continua «noi che siamo restati e resteremo ci sentiamo più sani, più liberi e più forti».

 

 

Abisso

 

Quelli tra i giovani militanti del socialismo che provengono dalle famiglie della media borghesia intellettuale si accostarono al nostro movimento in un periodo nel quale il socialismo - in Italia e altrove - aveva assunto un indirizzo tanto accomodante da non far più paura a nessuno.

Venti o trent'anni fa socialista era ancora, per la gente ben pensante, sinonimo di brigante o di grassatore, e le dottrine e i programmi comunistici erano messi all'indice come propositi di imprese criminali. Era il periodo della reazione e delle leggi eccezionali, delle persecuzioni e degli scioglimenti di partiti politici, del negato diritto allo sciopero.

Allora il socialismo aveva in realtà integro tutto il suo contenuto di negazione e di conversione dei vigenti istituti economici, sociali, politici, e serbava tutto il calore rivoluzionario datogli dai suoi pionieri, entusiasti non meno dei neofiti accorrenti in folla, nei propositi di critica inesorabile e di radicale demolizione di tutta la struttura di falsità e di privilegio onde è contesta la presente società.

D'altra parte la borghesia, più giovane storicamente ed animosa, non intendeva far largo alle correnti delle nuove forze sociali e delle nuove dottrine che miravano a superarla, e le avversava a viso aperto, con tutti i mezzi che le derivavano dal potere che deteneva, convinta di riuscire a soffocare gli ostacoli che sorgevano al suo sviluppo dall'azione delle classi lavoratrici, come aveva sconfitte le oligarchie feudali aristocratiche dei vecchi regimi.

Forse appunto perché le persecuzioni circondavano il movimento socialista di una aureola eroica, e perché la borghesia stessa era allora meno calcolatrice, almeno nella preparazione colturale della gioventù, furono in quell'epoca più numerosi i disertori delle classe dominante che votarono alla causa del proletariato le armi del proprio ingegno e del proprio sapere.

 

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In seguito le cose cambiarono. Il crescere in forze e in vigore delle giovani organizzazioni operaie convinse i governi della classe dominante a mutare tattica nei loro rapporti. Il diritto alla organizzazione di classe e allo sciopero - sebbene antitetico alle direttive sociali e giuridiche del potere capitalistico anche inteso secondo la più larga filosofia democratica - dovette essere riconosciuto, e le esigenze delle masse produttrici e salariate prese in seria considerazione.

Una simile condotta restringeva certo l'esercizio illimitato del privilegio capitalistico e intaccava la concezione propria della classe borghese sullo sviluppo della società secondo la libera concorrenza individuale limitata solo dal potere politico dello Stato: ma permetteva al regime borghese di assicurarsi contro il pericolo finalmente scorto nell'estendersi delle manifestazioni rivoluzionarie delle classi lavoratrici, che la repressione di ogni naturale loro aspirazione ai miglioramenti economici spingeva sulla via della integrale azione politica sovversiva propugnata dal socialismo. Purtroppo questa "illuminata" azione della borghesia ebbe gli effetti sperati, e produsse in molti paesi un mutamento di tattica del movimento socialista.

Molti socialisti videro un buon sintomo nel ravvedimento dei governi dai loro propositi reazionari, e vedendo la borghesia venir loro incontro con amico rispetto, desistettero dalle loro antiche pregiudiziali di refrattari e di demolitori. La concessione di miglioramenti e di leggi sociali ebbe il suo logico risultato nel diminuire la combattività delle organizzazioni di mestieri e tra i partiti politici socialisti allignò la mala pianta del riformismo e della collaborazione di classe.

 

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Fu allora che negli ambienti borghesi si cominciò a parlare con tollerante compiacenza del socialismo. Questo non era più pericoloso. Il suo mutamento fu creduto definitivo. Il suo legalitarismo elettorale venne esaltato. Si acconsentiva di buon grado a fargli largo perché stesse buono e smettesse le sue ubbie dinamitarde, adagiandosi nella mezza luce della politica del compromesso e sposando la placida filosofia dell'evoluzione graduale, senza scosse né urti spiacevoli alla gente per bene. Gli episodi di contatti tra socialisti e borghesi, culminanti nelle strette di mano ai regnanti, erano citati ad edificante esempio di modernità e saggezza, da una parte e dall'altra.

Per converso diradarono allora le adesioni di giovani intellettuali all'idea socialista - e forse non fu un danno. La stessa gioventù era, tra il ceto borghese, divenuta pratica nel senso più meschino della parola e fin dai banchi del ginnasio si assorbiva nella visione degli affari o della carriera.

Quei pochi che allora ed oggi formavano eccezione, perché sentirono, malgrado tutto, il fascino della ideologia razionale e critica del socialismo, attraversarono un ambiente di indifferenza o di semi-irrisione. Il socialismo, ammesso a corte e nei salotti, come non faceva più paura, non era però neanche più di moda né era preso sul serio - per essere odiato o amato.

 

* * *

 

Quel deplorevole stato di cose tratteggiato più sopra condusse alle conseguenza che oggi si deplorano, più volte misurate e trattate su queste colonne, e che ancora più vasta indagine avranno in epoca meno torbida dell'attuale.

Ma una serie di circostanze, in Italia almeno, venne a smentire la previsione e gli apprezzamenti fatti da quelli che avevano visto un socialismo addomesticato ed imborghesito per sempre. La guerra di Libia, le stesse estreme rinnegazioni del riformismo più esagerato, una serie di cause e di minori episodi politici ricondussero il movimento socialista verso l'intransigenza e verso la lotta di classe, e rimisero in valore e in luce l'irreducibile antitesi reale politica e filosofica tra i due ambienti e i due sistemi, quello dei dominanti e quello dei dominati.

La linea di separazione fra noi e loro, che era divenuta una traccia sinuosa e a mala pena visibile, si è andata demarcando in un solco netto, che gli ulteriori eventi hanno approfondito ed approfondiranno fino a renderlo un incolmabile abisso.

In vista di questo parecchi sono saltati dall'altra parte, nei momenti culminanti; noi che siamo restati e resteremo ci sentiamo più sani, più liberi e più forti. Non potrà non essere altrettanto anche negli altri paesi, in conseguenza di questa terribile crisi attuale, e così si affretterà l'ora del decisivo cimento, dell'urto invano deprecato da tutte le comode dottrine multiformi della sociologia ufficiale.

La guerra va illustrata - e abbiamo talvolta tentato di farlo - come un saliente grandioso episodio di questa tattica borghese mirante al supremo scopo della collaborazione di classe, con argomenti e mezzi che essa credeva irresistibili.

Tra noi - recentemente - il mezzo ritenuto più suggestionante, efficace, di infallibile effetto è entrato in gioco ed ha miseramente échoué.

 

* * *

 

Questa ed altre considerazioni ci sono venute alla mente e alla penna nel leggere nella stampa borghese una lettera del sig. Riccardo Vella, capitano medico, al nostro Arturo Vella.

«...Scrivendoti, non avrei saputo e potuto limitare l'espressione del mio sdegno per il contegno patriotticamente sconcertante di alcuni organi essenziali del tuo partito, di cui tu sei virtualmente parte integrante. Non ne senti tu il disgusto?

«Che se questo disgusto tu non sentissi io non saprei in questo momento negarti che la comunanza nostra di sangue rappresenterebbe per il mio animo una ragione di rammarico e null'altro».

Tali parole, interpretate nel modo più onorevole per chi le ha scritte, sono l'indice e il sintomo di una divergenza esasperata al massimo grado, che separa oggi i socialisti dagli altri.

Noi le citiamo senza meraviglia e senza rancore. Nessuno dei nostri vacillerà in una simile prova, non riserbata a quelli di noi, più fortunati, che tutti i sentimenti e gli affetti anche intimi possono collocare entro i limiti della classe per cui combattono.

Anche Cristo disse, duemila anni fa: «Lascerai la tua famiglia e i tuoi cari e verrai dietro di me». E, senza essere mistici, noi sappiamo che i movimenti che preparano un rivolgimento storico, esigono nei militanti un completo distacco dagli ambigui addentellati del vecchio mondo, contro cui sono insorti.

 

L'Avanguardia, n. 515, 16 dicembre 1917