Prometeo, n. 137, 11 ottobre 1936
Altri due articoli di Prometeo sulla guerra di Spagna. Il primo è firmato «Pieri» che, come abbiamo già detto, è il toscano Ferdinando Borsacchi (che in altre occasioni utilizzò anche lo pseudonimo Rintintin) amico di Ottorino Perrone, il secondo è anonimo.
Dalla prossima volta daremo (come è scritto su Prometeo) la «parola alla Minoranza».
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Per una posizione di classe in Ispagna
È chiaro che la sedizione militare in Spagna non rappresenta una ripetizione dei «pronunciamenti passati», ma bensì un attacco ben preparato da parte della borghesia contro le organizzazioni proletarie e le masse lavoratrici in generale. Non si tratta dunque di soffermarsi agli aspetti esteriori della lotta per concludere aprioristicamente che dal momento che è l’esercito che scatena la lotta noi ci troviamo di fronte ad un sollevamento rituale di caste militari, il cui obbiettivo si limita come nel passato ad imporre tale e tale altra condizione agli organi esecutivi dello Stato borghese, ma occorre stabilire come e perché la borghesia, la classe dominatrice, abbia creduto giunto il momento per sferrare un attacco frontale contro la classe proletaria.
La borghesia spagnola, con la sua struttura confusa e ritardataria doveva tentare una serie di esperimenti nella direzione di ridurre il margine che la separava dallo sviluppo degli altri capitalismi più evoluti soprattutto in vista dei nuovi conflitti inter-imperialisti.
È in questa direzione che si spiega prima della Repubblica il dominio di Primo de Rivera, e nella stessa direzione che si spiegano tutti i tentativi dopo l’avvento della repubblica.
Anche il governo del Fronte Popolare doveva rappresentare per la borghesia un’arma tendente a corrompere le classi lavoratrici al fine di perseguire il suo piano di sviluppo industriale e di maggiore oppressione delle masse lavoratrici. Solo la resistenza affermata dalle masse lavoratrici spagnole attraverso una serie ininterrotta di scioperi e di movimenti proletari doveva spingere la borghesia a delle misure più radicali. Il governo del Fronte Popolare avrebbe ben volentieri lasciato il posto di esecuzione ad altri uomini al servizio della stessa classe se non fosse intervenuta in maniera autonoma ed a tempo la massa lavoratrice di Barcellona e Catalonia in particolare e di qualche altro centro. Non è dunque il falso “cliché” che giornalmente viene servito dalla stampa asservita al Capitale di una lotta fra democrazia e fascismo che si apre in Spagna il 18-19 luglio, ma il tentativo da parte della borghesia di destra e di sinistra di rompere la schiena al proletariato spagnolo che in questi ultimi anni aveva dato prova di una combattività ammirevole. Ed è nella stessa direzione poi che gli Azana e i Companys, i Caballero, ingannano le masse per fuorviarle dai loro obbiettivi di classe e consegnarle così disarmate al fuoco delle mitragliatrici, dei tanks e degli aeroplani dei propri compari Franco e Mola. Non vi è come qualche compagno sembra affermare una capacità demoniaca da parte della borghesia di sapere in anticipo ripartire dei compiti alle proprie comparse, ma semplicemente una continuità “storica” da parte di queste forze che sono l’espressione di una determinata classe. Il proletariato non può vincere e nemmeno difendersi sotto la bandiera e sotto la direzione del suo irriconciliabile nemico, esso non può, se accetta questa impostazione, che scavare la propria fossa. Stabilito dunque che la posta della lotta è fra rivoluzione e contro-rivoluzione, fra borghesia e proletariato, fra comunismo e capitalismo, restano da stabilire i compiti delle masse e le condizioni che possono determinare la sua vittoria.
Doveva il proletariato spagnolo prendere le armi il 18 e il 19 luglio? Indubbiamente sì. Mille volte sì, e nessuno credo abbia il coraggio di affermare il contrario. Quello che ci divide oggi non è che vi siano fra noi dei “neutralisti” ma piuttosto differenti impostazioni del problema della lotta proletaria.
Cosa doveva fare il proletariato quando a Barcellona si era reso padrone della città e della provincia? Doveva lasciare ingannare le masse facendo credere loro che la conquista del potere politico avrebbe rappresentato per lui un indebolimento della lotta contro Franco od invece dire apertamente che solo questa conquista, e la più completa, rappresentava la condizione fondamentale per una lotta vittoriosa e definitiva contro tutte le forme di oppressione della borghesia? È qui che si trova il nocciolo della questione e non altrove.
Per un comunista è indubbio che in ogni movimento di masse, in ogni sollevazione sociale, il problema capitale resta quello di sapere quale è la classe che detiene ancora il potere per saper distinguere il carattere della lotta e determinare la sola posizione che può occupare la classe proletaria.
Dunque fino dal primo giorno la parola d’ordine di un partito comunista o anche di una frazione comunista (che in tale clima si trasforma immediatamente in partito) era quella della conquista del potere politico attraverso la instaurazione dei suoi organi naturali: i Soviet. Gli avversari di questa parola d’ordine, cioè di tutto il potere al proletariato in armi, in buona fede o in mala fede, fatto che non ha nessuna importanza in dette circostanze, non possono essere giudicati che come delle forze ostili agli interessi delle masse lavoratrici e di cui il proletariato, maggiormente quando una grandissima parte si trova armata, deve liberarsi se vuole vincere.
Solo questa impostazione avrebbe e potrebbe rompere la manovra accerchiante di tutti i traditori che fanno del sangue del proletariato spagnolo versato un’arma di speculazione per meglio incatenare il proletariato mondiale al carro delle rispettive borghesie in vista della preparazione della guerra. Ma – dei compagni possono aggiungere – : nella assenza di questa forza capace di impostare il problema sulle sue vere basi di classe, la frazione non potrebbe orientare i suoi sforzi per coadiuvare con quel Partito o quella corrente più affine alle nostre posizioni, per poi, all’apparire di una tendenza fondamentalmente omogenea e comunista nel seno di questa, determinare una scissione e passare così alla fondazione di un partito comunista?
Il grado di affinità non si misura col metro delle declamazioni rivoluzionarie ma al contrario sulla base della fedeltà ai principi fondamentali della rivoluzione proletaria che questi organismi hanno durante avvenimenti e convulsioni sociali in cui questi vengono messi dagli avvenimenti stessi in gioco. Se ieri le nostre divergenze con il P.O.U.M., gli anarchici ed i sindacalisti, dovevano limitarsi al campo della dottrina, dando adito a delle polemiche che molti proletari potevano giudicare come oziose, oggi, quando questi organismi compongono con la borghesia, quando partecipano ad un governo di coalizione, la nostra separazione deve essere brutale ed inequivocabile. È allora che ogni affinità di classe scompare perché queste forze hanno rotto col proletariato trasformandosi in organi di collaborazione fra le classi.
Non è concepibile un “armistizio” della lotta su uno dei fronti della borghesia. È vero che esistono differenti fasi della lotta, ma esse si sviluppano alla sola condizione di conservare nell’azione una continuità di classe inequivocabile. I bolscevichi, nel 1917, un mese avanti la rivoluzione, potevano vincere Kornilov appunto perché sviluppavano in una maniera marcante la loro lotta contro Kerenski. E questa vittoria si spiega non sulla falsa riga che potrebbe far credere ad alcuni compagni ad un “armistizio” tacito fra bolscevichi e governo provvisorio, ma bensì sulla linea opposta dello spostarsi delle masse ad una velocità fantastica sul piano della rivoluzione proletaria che si esprimeva nell’azione dei bolscevichi. E questo spostamento era determinato fondamentalmente dal fatto della lotta senza quartiere contro il governo provvisorio che aveva partorito Kornilov e che rappresentava il pericolo minacciante di tutti i giorni per la vittoria rivoluzionaria del proletariato.
Il concetto della indipendenza non ha valore declamatorio per il partito della rivoluzione, ma questo rappresenta la pietra angolare di tutta la sua azione di classe. Questa indipendenza cessa di esistere quando si ammette di poter far parte, in omaggio anche ai più alti ideali od intenzioni, ad un’organizzazione di un partito il quale prima si differenziava su questioni fondamentali di programma dalla nostra frazione ed appunto per questo oggi partecipa al governo di coalizione della Catalonia. Indipendenza forse, questa, di intenzioni ma non di azione. E dato che in politica le intenzioni, anche le più sublimi, possono coprire le azioni più pericolose e più perniciose per le masse lavoratrici, un comunista – se vuole restare tale – deve attenersi a giudicare esclusivamente i partiti ed i suoi aderenti sul campo materiale e controllabile dell’azione.
Ma allora, si dirà, voi scartate che i proletari spagnoli si battano con la convinzione di immolarsi alla loro causa, alla causa di tutti gli sfruttati? È certo che il proletariato spagnolo ha la piena convinzione di lottare per i suoi interessi di classe; ed in effetti, tutte le manifestazioni, come quelle dell’espropriazione parziale delle terre, delle officine, o della giustizia fredda, senza contorni giuridici dei suoi nemici più odiati, clero e polizia, portano il suo sigillo e rappresentano la forza dinamica che solo questa classe rappresenta; ma se queste azioni rappresentano tante manifestazioni spontanee, esse disgraziatamente non arrivano a capovolgere l’edificio, tutto l’edificio, del regime di oppressione. Per questo il problema centrale resta ancor più impellentemente quello di orientare queste energie verso i suoi obbiettivi storici, smascherando tutte quelle forze che nel corso della lotta, rappresentano un freno all’azione di classe trasformandosi in tante forze conservatrici.
Prima Franco e poi Companys, prima Saragozza e poi Barcellona è il leit-motiv di tutti i nuovi ministeriabili. Questo fa ricordare un tempo recente, quando il proletariato cinese, in piena effervescenza, tentava di trasportare sul piano dell’azione le proprie rivendicazioni di classe. Anche allora lo stesso ritornello: prima schiacciamo i nordisti e poi faremo i Soviet. Prima schiacciamo Cian-So-Lin e poi abbatteremo Cian-Kai-Chek. I risultati li conosciamo. Solo un eroico gruppo di proletari di Sciangai dovevano nel sangue immolare le loro energie alla causa del proletariato. E l’azione di poi non fu più quella del proletariato ma quella del suo boia che dopo aver asservito con l’aiuto diretto del centrismo contro-rivoluzionario le masse sfruttate ad una causa diametralmente opposta, le faceva decimare dai suoi plotoni di esecuzione. Oggi nella Spagna la borghesia ha compreso che per evitare o per rinviare all’ultimo istante una reazione spontanea delle masse lavoratrici contro il suo edificio barcollante doveva servirsi nelle zone controllate dai “governamentali” degli stessi responsabili delle organizzazioni operaie.
Si comprende che questa operazione doveva comportare nella forma le più larghe concessioni, dando luogo, come dice giustamente Michel, ad un “riformismo epilettico” pur di conservare anche sotto questa forma il potere politico. Per essa si trattava di rifrenare una spinta ulteriore delle masse che avrebbero potuto compromettere non solo il controllo del regime nella Catalonia, ma che avrebbero con questo potuto determinare una ascesa vertiginosa della lotta di classe anche nelle zone martoriate dal militarismo di Mola e di Franco. La collusione fra Franco e Campanys, fra Campanys ed i nuovi ministeriabili, si realizza dunque non in omaggio ad una capacità demoniaca e sopranaturale stabilita in anticipo dalla borghesia, ma bensì sul piano reale e concreto della lotta di classi che trova negli avvenimenti spagnoli i suoi attori, determinando per ciascuno il ruolo specifico, scaraventandoli sulla ribalta pubblica, in cui la prerogativa del buffone, o del brillante o del comico, viene appunto recitata dagli anarchici i quali, da nemici di ogni autorità, di ogni organizzazione, di ogni governo anche proletario, partecipano in veste di ministri al fianco di autentici ministri borghesi al governo della Generalidad.
E se individualmente si esaminano le forze politiche che agiscono attualmente nella Spagna, con la più completa serenità, senza nessun apriorismo, non si può che concludere che il proletariato spagnolo sarà massacrato, non perché a lui manchi un eroismo ed una combattività come d’altronde tutto il proletariato mondiale è solo capace, non perché gli manchino dei mezzi o dei quadri tecnici militari, ma esclusivamente perché si trova politicamente disarmato ed internazionalmente isolato.
Non è possibile con queste forze asservite ormai al carro della borghesia stabilire una tregua, fosse essa di 24 ore. E pure la formula di prima Franco e poi Campanys racchiude appunto questa tregua. Essa compromette e non permette una fase più evoluta della lotta. Essa disarma e non arma le masse proletarie. Essa le disarma anche se questo dovesse comportare – agli effetti – un maggior numero di fucili o di mitragliatrici.
Essa rappresenta lo stesso inganno della formula ufficiale del Fronte Popolare che invita le masse operaie a fare pressione sui rispettivi governi borghesi per inviare delle armi e degli aeroplani al proletariato spagnolo. Si possono avere delle divergenze sulle origini degli avvenimenti e sul peso che nei primi giorni aveva rappresentato la massa operaia. Si possono avere anche delle divergenze sul grado di spontaneità raggiunto dalle masse il 18 e 19 luglio e sul grado di resistenza eroica di nuclei proletari di domani ed anche sulla eventualità di una Comune come tentativo disperato ed estremo delle masse che si accorgono di essere state ingannate, ma esse non oltrepassano i limiti e le frontiere delle posizioni fondamentali della frazione. Le divergenze però diventano incompatibili quando nell’azione si sacrifica la indipendenza politica e ci si arruola nelle milizie di un Partito prima che non era fondato sui principi comunisti e poi si resta ad esserlo anche quando questo partecipa al governo con la borghesia.
Si possono avere delle divergenze sulla parola d’ordine della diserzione dei fronti, ma non si possono avere quando questo dovesse tradursi come risultato inevitabile dello sviluppo della lotta di classe. La disciplina ed il comando unico che si sta realizzando rappresenta la fusoliera che si vuole imporre alle masse ed alle milizie nel nome della vittoria contro Franco, ma in effetti per conservare e rifrenare lo sviluppo dell’azione rivoluzionaria del proletariato. Nessuna esitazione è possibile in tale circostanza per un comunista. Esso deve opporsi con tutti i mezzi perché anche il subirlo significherebbe partecipare al disarmo politico delle masse. Ed a tali parole d’ordine non è possibile affermarsi che su quelle di tutto il potere politico al proletariato perché lui solo può determinare una disciplina volontaria e realizzare il comando unico.
Si possono avere delle divergenze sul fatto di giudicare l’armamento proletario in sé, spontaneo, come elemento negativo o positivo per l’apertura di una crisi rivoluzionaria; ma anche qui la divergenza si limita al campo della prospettiva e solo gli avvenimenti possono darne poi la risposta definitiva. Per concludere, si può anche ritenere, come io ancora sono convinto, che gli avvenimenti presenti possono fecondare ed orientare delle forze ristrette, è vero, verso la fondazione dei quadri di un partito comunista, anche se questo dovesse avvenire dopo una disfatta ed all’estero; ma tutte queste divergenze scompaiono di fronte ad una impostazione che comporta l’abbandono delle posizioni fondamentali della frazione, quando si fa della indipendenza politica un semplice paravento od una semplice affermazione declamatoria.
Il dilemma per il proletariato spagnolo si racchiude in due frasi, per vincere Franco occorre vincere il capitalismo, e la vittoria di questo si realizza dove questi è il più debole. Mentre il concetto inverso, della vittoria prima su Franco e poi su Campanys, porta non alla rivoluzione ma alla fossa comune, al massacro dei proletari, come a Bandajoz, come a Irun, Come a San Sebastiano, come a Toledo.
PIERI
Prometeo, n. 137, 11 ottobre 1936
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Via libera ai fascisti?
I fascisti sono a Saragozza, essi vorrebbero conquistare Barcellona; il nostro dovere è di arrestare la marcia fascista, nello stesso tempo in cui allarghiamo il fronte delle conquiste sociali a Barcellona o che almeno lottiamo in questa direzione. Non restiamo dunque sulla base della lotta sui due fronti: quello di Saragozza, l’altro di Barcellona. Nel fronte militare lottiamo per il proletariato perché combattiamo contro il fascismo, in quello sociale di Barcellona, combattiamo per il comunismo perché, lungi dall’accettare la collaborazione di classe, lottiamo per lo sviluppo delle lotte di classe.
Questa è in generale la posizione di larghi strati di proletari rivoluzionari, soprattutto italiani, i quali rimproverano alla nostra posizione di minacciare le sorti della lotta perché i fascisti potrebbero più facilmente invadere i territori che non hanno conquistato.
La lotta di classe ha due protagonisti, due contendenti, due fronti e due soli: capitalismo e proletariato. L’uno o l’altro e giammai l’uno e l’altro. Vi sono molti settori della lotta? Ma in ognuno di essi vi sono due contendenti, capitalismo e proletariato. Nei due settori, fascista ed antifascista, la confusione di classe si è verificata, e questo è sacrificio della classe operaia nelle mani del capitalismo. Queste verità elementari sembra non abbiano più corso nella crudele situazione attuale.
Di più gli avvenimenti definitivi seguono alternative definitive e non secondarie. Quale è oggi, in Ispagna, l’alternativa fondamentale? Contestare al nemico questa o l’altra località, strappargli questo o l’altro centro. In definitiva esiste un solo fronte reale, quello dove le masse si battono con le armi. Tutto l’altro è accessorio, tutto l’altro è condizionato alla sorte degli avvenimenti sul fronte militare. Il problema resta dunque di vedere se questo fronte militare che è l’essenziale, è capitalista o proletario, giacché esso non può essere l’uno e l’altro, esso è l’uno o l’altro. Questa opposizione terribile non può essere scartata, pena di tradire il proletariato. Se la si scartasse poiché il dilemma di classe comanda ogni istante della vita sociale e tanto più grave è la sua portata, per quanto più terribile sono gli avvenimenti, si abbandona il proletariato nelle mani del nemico.
Ora chi dirige il fronte militare? Lo stato maggiore delle operazioni. È esso unicamente che, poiché è l’unico che è in grado di conoscere lo scacchiere generale delle operazioni, può anche stabilire se ci si deve difendere in tale località, contrattaccare in un’altra per arrestare il nemico nell’offensiva che ha scatenato in questo o quel centro. In una parola, le sorti delle battaglie militari non possono dipendere che da chi dirige l’insieme della lotta. È una menzogna crudele far credere agli operai che sono a Saragozza che l’esito della loro lotta dipende da loro. No: esso dipende e non può dipendere che dallo stato maggiore generale. E chi dirige questo stato maggiore? Il capitalismo, il quale evidentemente non può che fare quello che corrisponde ai suoi interessi. Lasciare per due mesi i cadetti nell’Alcazar e quando esso sa che la destra attacca Toledo, non ritirare gli operai, opporsi persino a che essi escano da Toledo per lasciarli massacrare alle spalle dai cadetti che escono dall’Alcazar, di fronte dall’esercito che arriva. Questo è perfettamente logico e Caballero non si smentisce affatto quando dirige, negli interessi della classe che lo ha chiamato al potere, l’opera di massacro degli operai spagnoli.
Analogamente ad Huesca dove si trova il battaglione Lenin. I bianchi sono al centro della città ed attendono l’ora in cui sarà possibile passare all’attacco degli operai che sono alla periferia. Molto probabilmente anche ad Huesca, il giorno in cui la destra borghese deciderà di passare all’attacco, la sinistra darà ordine di non abbandonare la lotta ed il macello avrà luogo come a Toledo. E si tenga conto che ad Huesca la sinistra borghese ha potuto completarsi con l’appoggio degli anarchici e del P.O.U.M. che oggi sono al governo.
Di fronte a questa situazione resta la posizione della maggioranza della nostra frazione. Non si può vincere il capitalismo confidandosi al capitalismo. Abbandonare i fronti militari che sono il fronte sociale del nemico per scendere nei fronti della lotta di classe dappertutto, riprendere il cammino della prima settimana degli avvenimenti. Questo significa forse che Franco arriverà più presto a Barcellona? Possibile, benché questo non sia nullamente sicuro. Ma ammettiamone l’ipotesi la quale significherebbe che le sorti della lotta sono definitivamente compromesse.
Se una sola possibilità di successo esiste questa non può essere trovata che sul terreno della lotta di classe. A Barcellona la rottura della collaborazione di classe determinerebbe la rottura della catena che porta le masse alla sicura disfatta, come è successo negli altri centri. E se anche la disfatta dovesse verificarsi essa si verificherebbe quando almeno il capitalismo non è riuscito a schiantare in pieno il proletariato come è successo a Irun, a Toledo. Ma il chiarimento della situazione, il ristabilimento del fronte proletario di lotta (oggi esso non esiste) darebbe vita allo sviluppo di quelle possibilità di resistenza che esistono ancora. La battaglia si svolgerebbe allora fra le armate di Franco che avrebbe contro di esse delle armate proletarie, le sole che possono batterlo, perché mitraglierebbero la compagine militare dell’esercito bianco. Invece di opporre una rivoltella al cannone nemico, gli operai tirerebbero con le armi delle loro rivendicazioni politiche e di classe. Un colpo di revolver allora avrebbe mille volte più forza che un colpo di cannone fascista perché esso distruggerebbe la catena che lega oggi le armate di Franco, perché gli oppressi, irreggimentati da Franco, riconoscerebbero nella barricata opposta, i loro fratelli di classe, che metterebbero a profitto la loro più alta coscienza di classe non per restare sotto la direzione capitalista del Fronte Popolare, ma per scatenare la battaglia di classe, la loro battaglia, sugli obbiettivi sociali comuni.
E' così che hanno vinto gli operai il 19 luglio, è su questa sola via che essi possono salvarsi. Sull’opposta via essi sono massacrati. Sull’opposta via essi sono consegnati dalla sinistra capitalista alla destra capitalista. Come in Italia, come in Germania, come in tutti i paesi. Chi lascia la via libera ai fascisti è il Fronte Popolare che dirige gli avvenimenti militari con la collaborazione del P.O.U.M. e degli anarchici.
Chi si oppone al fascismo, chi lo difende, è quegli che sostiene che l’unico mezzo per salvarsi, per resistere e vincere e che consiste a strappare le masse dal capitalismo ed a rimetterle sul loro terreno di classe. Lo scatenamento della lotta di classe a Barcellona è l’unica via per farla ripercuotere nelle armate bianche, è l’unica via al termine della quale può porsi la vittoria delle masse. Gli avvenimenti che sono trascorsi provano crudelmente che l’altra è la via del tradimento degli interessi del proletariato, è quella che conduce alla vittoria del fascismo.
Prometeo, n. 137, 11 ottobre 1936