inedito
Lo scritto di Michele Fatica «Il comunismo rivoluzionario di Amadeo Bordiga» è inedito. L'autore ci ha concesso di portarlo a conoscenza dei nostri lettori e lo facciamo con piacere e molta soddisfazione perchè in questo modo comincia a realizzarsi uno degli obiettivi che ci eravamo posti con l'apertura del sito, portare cioè all'attenzione di chi ci legge del materiale inedito a riguardo della sinistra comunista italiana e di Amadeo Bordiga
Il lavoro fu concepito, circa una decina di anni fa, per far parte di un'opera curata dal Professor Giuseppe Cacciatore «Napoli e la Campania nel novecento», opera di cui sono usciti due grossi volumi (vol. I, Napoli: economia e vol. II, Napoli: architettura e urbanistica) ma non ancora il terzo (vol.III, Napoli: cultura) che contiene il saggio in questione.
Di Michele Fatica abbiamo già presentato nel sito l'articolo «Bordiga il comunista cancellato» che annunciava e presentava il convegno «Scienza e politica in Amadeo Bordiga» che si tenne a Milano il 24 e 25 ottobre 2002. Nell'introduzione a quell'articolo avevamo scritto:
«Michele Fatica, studioso e storico napoletano, aveva conosciuto alla metà degli anni sessanta Amadeo Bordiga che ne aveva apprezzato gli studi sul movimento operaio napoletano e precisamente «Il movimento socialista napoletano tra la fine dell'età giolittiana e il congresso di Ancona» (Critica storica, n. 3, 31 maggio 1967) e «La settimana rossa a Napoli» (Critica storica n. 4 e 5, 1968), lavori che sfoceranno poi nel 1971 nel bel libro «Origini del fascismo e del comunismo a Napoli [1911-1915]», (La Nuova Italia, Firenze, 1971).»
Prossimamente pensiamo di riproporre una lettera del 1969 di Amadeo Bordiga a Michele Fatica ed anche per questo ringraziamo ancora Michele Fatica che è stato così gentile nei nostri confronti.
Il comunismo rivoluzionario di Amadeo Bordiga
(I parte)
Il comunismo di Amadeo Bordiga si presenta come una teoria singolare nel contesto dei comunismi del secolo XX. Nella sua diversità esso si sostanzia di punti fermi o costanti, che hanno subìto, sul terreno ideale, poche variazioni nel corso dell'esistenza dello stesso Bordiga, e ancora oggi costituiscono il patrimonio intoccabile e non modificabile di una parte del gruppo, non cospicuo, dei suoi seguaci.
Cercheremo di enuclearne gli elementi essenziali, per passare, in seguito, alle congetture sulla loro genesi e al loro calarsi dal cielo della teoria nella realtà della storia con tutte le difficoltà e le contraddizioni in cui posero il loro autore e quanti a lui si richiamavano.
Può apparire scandaloso, ma se vi è stata una posizione di principio sulla quale Bordiga non ha mostrato mai cedimenti o compromessi, questa è stata l'avversione per la democrazia.
Si manifesta già all'esordio della sua milizia nella Federazione Giovanile Socialista e, senza esitazioni, viene dichiarata nei primi articoli apparsi sulla stampa di sinistra. Egli è già in polemica con la grande maggioranza dei suoi compagni socialisti, quando nega con forza che il socialismo possa scaturire dallo sviluppo della democrazia. Tra democrazia e socialismo l'opposizione è totale: la prima è la forma di governo, forse migliore o comunque più auspicabile, della «borghesia commerciale, manifatturiera, industriale», ma è anche la più ingannatrice per la classe antagonistica creata da quella borghesia, «il proletariato», che può essere fascinato dal «concetto di democrazia» senza rendersi conto che dietro il «dominio politico della maggioranza» si nasconde «il dominio economico di una nuova minoranza, della nuova oligarchia del capitale». Il secondo, il socialismo, nasce come «solenne denunzia del fallimento storico della formula democratica, e degli inganni che questa conteneva» [1].
Quando faceva queste affermazioni, era da poco scoppiato il primo conflitto mondiale. Già nel Partito Socialista Italiano gli animi si erano accesi nella discussione sull'atteggiamento da prendere nel caso di una partecipazione del nostro paese alla guerra, non mancando quanti si battevano per un cambio di alleanze e una discesa in campo a sostegno delle potenze democratiche europee, Francia e Gran Bretagna, mentre alcuni si azzardavano a sostenere la teoria della guerra come spinta alla rivoluzione sociale, e solo qualcuno osava presentare tale intervento come un completamento della nostra unità nazionale. Bordiga aveva soltanto 25 anni, essendo nato a Resina il 13 giugno 1889, ma nonostante la giovane età egli aveva già maturato idee chiare in fatto di guerra, di democrazia e di principio di nazionalità. Mentre ancora non erano ben definite le linee di demarcazione fra neutralisti ed interventisti, Bordiga cominciò ad emergere come il più deciso avversario dell'intervento italiano: in primo luogo per un odio profondo da lui concepito contro qualsiasi guerra. Tale odio può essere collegato in primo luogo, more solito, al suo odio per la democrazia. Egli, infatti, partiva dal presupposto del nesso stretto tra democrazia e coscrizione obbligatoria, quest'ultima, non a caso, introdotta dalla Convenzione nazionale, cioè dall'unica assemblea eletta a suffragio universale nel corso della Rivoluzione francese. [2]. Coscrizione obbligatoria significava una gran massa di proletari in tempo di pace costretti nella caserma alla più dura disciplina, educati all'odio per il «nemico», privati di qualsiasi autonomia di pensiero; in tempo di guerra comandati ad uccidere altri simili, magari compagni di lavoro e di sventura. ll tutto, poi, legittimato come dovere da assolvere per la difesa e la grandezza della «patria».
Quanto alla guerra fomite di rivoluzione sociale aveva irriso tale tesi già nel corso della prima guerra balcanica, quando, scoppiate, il 17 ottobre 1912, le ostilità tra l'Impero Ottomano, ridotto già a Turchia, e i regni di Bulgaria, Serbia e Grecia, si era costituita in Italia una «legione garibaldina» per portare aiuto alle nazionalità balcaniche oppresse e trasformare il conflitto in rivoluzione sociale. La guerra, nella sua prima fase, aveva avuto uno svolgimento brevissimo tra massacri di una ferocia inaudita e vittime senza fine di una epidemia di colera. Ai primi di dicembre già i contendenti erano stati chiamati dalle grandi potenze europee alla conferenza di pace di Londra. I legionari garibaldini, da protagonisti della rivoluzione sociale erano stati ridotti a poliziotti delle insurrezioni nazionali, essendo stati utilizzati per reprimere gli albanesi, insorti a loro volta per invocare la formazione di uno stato nazionale:
Rintracciare nelle discussioni dei plenipotenziari a Londra le tendenze delle finanze austro-tedesche e dell'espansionismo russo sarebbe assai facile. La guerra-rivoluzione (dopo essere stata vittoriosa!) finirà con una pace capestro che le oligarchie borghesi sapranno imporre con la violenza ai popoli ingenui che sognavano una liberazione.
Ne risulta per il proletariato un insegnamento e un dovere: opporsi a tutte le guerre, senza cadere nei tranelli che gli tende il militarismo borghese parlando in nome della libertà. Noi non dimentichiamo la storia né insultiamo i caduti di Goito, del Volturno, di Bezzecca, dicendo e proclamando che la libertà non si conquista oggi colle punte delle baionette e sotto le bandiere nazionali, ma può sbocciare solo nell'urto supremo della rivolta proletaria.
E ai giovani proletari ripetiamo: non andate alla guerra! Non immolate la vostra vita per una libertà falsata dalle menzogne del capitalismo militarista!
I poveri ultimi garibaldini insegnano. Partiti per diventare eroi e morire per la libertà dei popoli hanno dovuto fare da poliziotti e soffocare la libertà nazionale dell'Albania … [ 3].
Si avverte nelle righe citate una concessione al culto della «patria italiana», che era un sentimento ispiratore della vita e dell'azione della classe dirigente del tempo, in particolare dei suoi ascendenti e dei suoi familiari, lo stesso che porterà il fratello Augusto a morire nel primo conflitto mondiale. Nel sottofondo della sua coscienza è presente l'intreccio complesso di guerra dinastica e guerra popolare che ha portato alla formazione dello stato nazionale italiano. Pertanto non può senza rispetto rivolgere un pensiero a quei volontari che sacrificarono la vita a Goito nel 1848, sul Volturno nel 1860 e a Bezzecca nel 1866. Ma ritiene che il XX secolo non sia più il tempo delle rivoluzioni nazionali e delle guerre per la libertà dei popoli, che comunque il principio di nazionalità sia strumentalizzato da interessi ben precisi, che non sono quelli del proletariato:
… i concetti di razza e di nazionalità sono così elastici storicamente e geograficamente, che si adattano sempre bene agli interessi dei gruppi oligarchici capitalisti, secondo la necessità del loro sviluppo economico […]. L'irredentismo non è che una scaltra manovra forcaiola. Anche dal punto di vista […] che è necessario che la borghesia segua il suo sviluppo, ecc., l'irredentismo non è giustificato. Nizza e Trieste sono più industrializzate di molta parte d'Italia [4].
Il principio di nazionalità, identificato con quello di razza, è quindi, un principio elastico, quasi artificioso, tanto da essere enunciato per la prima volta nella Dichiarazione d'indipendenza americana del 4 luglio 1776 [5], pietra angolare di ogni moderna democrazia - anche qui non manca un riferimento polemico all'aborrita democrazia. Ma l'evocazione fu puramente strumentale, perché i coloni nella realtà erano di nazionalità inglese e avrebbero dovuto usare una certa cautela nell'invocarlo, nel momento in cui stavano attuando la distruzione - in questo caso si trovava d'accordo con Alexis de Tocqueville [6] pur senza citarlo, e, forse, senza conoscerlo - delle etnie indigene:
La prima grande affermazione del principio di nazionalità è contenuta nella dichiarazione dei diritti dei coloni inglesi degli Stati Uniti, all'epoca della guerra d'indipendenza. In quel caso non trattavasi di una vera guerra nazionale, poiché gli americani erano inglesi di origine ed avevano distrutta la razza indigena dei pellirosse, e fu proprio una vertenza di indole economico-commerciale con la madre patria che spinse nelle colonie il giovane e vigoroso capitalismo a crearsi un proprio Stato indipendente [7].
Queste riflessione avevano una loro logica interna, ma si prestavano a diverse obiezioni e contestazioni. Le popolazioni cristiane balcaniche devono subire il dominio ottomano senza rimostranze e proteste? Le minoranze italiane presenti nella Duplice Monarchia hanno il diritto di lottare per ricongiungersi allo stato nazionale.
Di fronte a questo tipo di obiezioni egli aveva quelle impennate ispirate alla dura intransigenza di chi rifiuta con convinzione le «verità correnti», unica voce, in quel tempo, capace di dichiarare la preferenza per la conservazione dei grandi agglomerati statali plurietnici, prefigurazione della futura umanità comunistica senza confini, senza frontiere, senza esasperati contrasti etnici, contro gli staterelli nazionali, frutto di rovine e di stragi, sorti solo per distrarre il proletariato dal suo compito storico.
Quindi contestava con energia la legittimità della guerra di Bulgaria, Serbia e Grecia contro quel che restava di Impero Ottomano:
Accordiamo come dato di fatto che la Bulgaria, la Serbia, ecc., siano più civili della Turchia. Ne risulta forse una specie di diritto alla conquista armata del territorio sottoposto allo Stato meno civile? […] è esagerato dire che la causa del disordine balcanico sia il dominio turco. Ci sono molte altre cause. L'ambizione degli staterelli primeggianti che hanno sempre soffiato sul fuoco dell'odio di razza. L'intervento della civile Europa che ha vomitato laggiù frati, preti e affaristi senza scrupoli, causando la reazione dei mussulmani. Ma la causa prima è l'odio di razza, che non si elimina con le guerre. Come i bulgari e i greci fanno fatto tacere il feroce odio reciproco, così potevano tentare l'accordo balcanico. […] Possiamo accettare la formola - che sembra mèta di tutte le vaste elucubrazioni diplomatiche che leggiamo da un mese - il Balcano ai popoli balcanici. Ma domandiamo: a quali popoli? A quelli che avanzeranno dalla strage reciproca, agli orfani, alle vedove, agli storpi, a colerosi? [8]
Ancora più duro si mostrava contro l'irredentismo italiano ed i sostenitori del dovere prioritario della guerra all'Austria-Ungheria per ricongiungere alla madre-patria i connazionali non ancora «redenti»:
L'accusa di nemici della patria, di anti-italiani, spaventa anche i più convinti socialisti, e molti arretrano quando la canea patriottica ricorre a quel frasario roboante. […] E così a Trieste, dove esiste e fiorisce l'organizzazione di classe, ove svolge una fortunata propaganda il partito socialista, la borghesia vorrebbe invocare il diversivo dell'irredentismo per arrestare quel movimento che la danneggia nel campo economico. Si grida a quei socialisti: Alto là: "prima" c'è un altro problema che noi tutti italiani dell'Austria, padroni ed operai, dobbiamo risolvere: la conquista dell'autonomia nazionale; dopo potrà aver luogo la vostra lotta di classe (dopo, s'intende, la solidarietà invocata per l'indipendenza nazionale sarebbe sempre richiesta per le follie imperialistiche e il brigantaggio coloniale)? […] Che cosa è il ridicolo irredentismo di fronte al nostro postulato mondiale: la redenzione dei lavoratori? Che importa all'operaio, reietto della società, se il sangue gli venga succhiato sotto gli auspici dello stemma dell'una e dell'altra dinastia che divide l'Isonzo e unisce … l'impiccagione? [9].
Dichiarata la sua preferenza per le grandi formazioni statali plurietniche, se da socialista non ammette, all'alba del ventesimo secolo, guerre sulla base del principio di nazionalità, non si abbandona ad alcuna concessione nostalgica per gli staterelli preunitari, né procede mai all'apologia del brigante come protagonista delle resistenza contro la «conquista piemontese» del Mezzogiorno d'Italia. La lotta per l'unificazione italiana ha avuto due personaggi simbolici in positivo ed in negativo: Giuseppe Garibaldi, espressione del volontariato popolare, Ninco Nanco (al secolo Giovanni Nicola Summa), incarnazione del razziatore, del grassatore di strada, che continua ad esercitare il suo mestiere sia contro i liberali che contro i socialisti. I governanti italiani che passano dall'alleanza con gli Imperi Centrali alla guerra a fianco dell'Intesa non sono voltagabbana, né hanno alcun diritto a richiamarsi a Garibaldi, imitano soltanto le gesta di Ninco Nanco [10].
Alla stessa maniera non assume a simbolo della guerra di resistenza in difesa della «patria» l'azione condotta dai predoni beduini contro gl'invasori italiani della Cirenaica nel campo di et-Tag [gli Italiani scrivevano: Ettangi]:
… noi non dividiamo quella specie di ammirazione che alcuni hanno per gli arabi "difensori della loro patria". Troppo riteniamo vuota questa parola: patria. Si tratta di predoni che pescano nel torbido ed esercitano un mestiere. Equivalgono, a parte il coraggio, agli affaristi che hanno appoggiata la guerra e egli speculatori che ci vivono attorno, in Italia. Le vittime vere sono i poveri soldatini di tutte le specie che stentano e muoiono maledicendo la guerra [11].
L'ossatura della concezione bordighiana del comunismo rivoluzionario, tuttavia, si segnala per la sua singolarità anche in tema di organizzazione internazionale, del ruolo dei diversi partiti comunisti al suo interno, della struttura del partito, del rapporto tra partito e classe, della natura della dittatura del proletariato.
Nella sua riflessione un posto centrale occupa l'internazionale: in primo luogo deve difendere la pace ed evitare la guerra tra i popoli; in secondo luogo deve vigilare sul governo del paese, ove i socialisti sono ascesi al potere; infine deve organizzare la rivoluzione mondiale. I partiti socialisti o comunisti ne sono solo semplici sezioni.
Anche in questo caso si tratta di convinzioni maturate precocemente. A commento del congresso tenuto dall'Internazionale socialista a Basilea (24-25 novembre 1912) egli scrive:
Si annunzia una guerra europea. I popoli stanno per essere scagliati gli uni contro gli altri per ammazzarsi, massacrarsi, dilaniarsi in terra, in mare, nell'aria. I governi approvano i mezzi spaventosi di distruzione, la vita civile sta per essere paralizzata, e l'Europa corre verso le tenebre sanguinose della barbarie.
Ma l'Internazionale Socialista ha gettato l'allarme. Da tutte le parti d'Europa milioni di proletari organizzati nei sindacati, milioni di socialisti hanno risposto all'appello.
Per forza dei loro rappresentanti, da Basilea, i lavoratori gridano ai governi un ammonimento che è una sfida: osate di proclamare la guerra e noi reagiremo con tutti i mezzi. Se dobbiamo morire, non moriremo uccidendo i nostri fratelli, ma ci sacrificheremo per la causa della emancipazione operaia, cercando di rovesciare per sempre il dominio della borghesia [12].
E' noto che egli non solo fu tra i primi in Italia, battendo sul tempo gli altri, a prendere contatto con la Terza Internazionale (Comintern) appena fondata (4 marzo 1919) [13], ma che nel secondo congresso di essa (luglio-agosto 1920) intervenne personalmente per tentare di rendere più severe le già dure 21 condizioni, in gran parte dettate da Lenin, per esservi ammesso.
Le sue proposte di rettifica erano dirette ad eliminare - al punto 16 della formulazione di Lenin, diventato punto 15 nella versione definitiva - gli incisi qui di seguito in corsivo: «I partiti che finora hanno conservato il loro vecchio programma socialista, hanno l'obbligo di modificarlo nel più breve tempo possibile e di elaborare, in corrispondenza delle particolari condizioni del loro paese, un nuovo programma comunista nel senso dei deliberati dell'Internazionale comunista». Le modifiche avevano in primo luogo lo scopo di evitare la giustificazione di tattiche disomogenee in corrispondenza di situazioni particolari e di casi locali, riproducendo il ricorso - da lui denunziato vigorosamente a Napoli [14] - a particolarità, spesso enfatizzate e drammatizzate, per dare una patente di inevitabilità a tutte le alleanze contratte dai capi del socialismo. Il secondo scopo era quello di accentuare il carattere del Comintern come stato maggiore della rivoluzione mondiale, alla cui dipendenze dovevano agire i partiti o divisioni - nel senso militare - nazionali. Quindi soppressione delle frasi «in corrispondenza delle particolari condizioni del loro paese», e «nel senso dei deliberati dell'Internazionale comunista» da sostituire con «e di elaborare un nuovo programma nel quale i princìpi della Terza Internazionale siano contenuti in modo non equivoco, pienamente collimante con le risoluzioni dei congressi mondiali» [15]. Ne viene di conseguenza che all'atto della scissione di Livorno, volle che il nuovo partito si chiamasse non Partito Comunista Italiano, ma Partito Comunista d'Italia, sezione della Terza Internazionale [16].
Michele Fatica
II Parte
Note: