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archivio > Saggi e inediti>Intorno al III Congresso dell' I.C. (due articoli e una lettera)

aggiornato al: 07/01/2008

gennaio 2008

Intorno al III Congresso dell' Internazionale Comunista

( due articoli e una lettera)

 

 

Sono qui presentati  due articoli ed una lettera intorno al terzo congresso dell'Internazionale Comunista tenuto a Mosca nell'estate del 1921. Il primo articolo, di Umberto Terracini, apparve su «L'Unità» del 21 gennaio 1960; ad esso rispose prima una nota su «il programma comunista» (n. 3 del 12-25 febbraio 1960) e poi, sempre sullo stesso giornale (n. 12, 25 giugno - 8 luglio 1960) una lettera di una delle persone nominate da Terracini. 

Terracini, negli anni della vecchiaia (che per lui coincidevano con il tranquillo posto di senatore in parlamento e con un tentativo, pur non riuscito, di diventare per meriti acquisiti Presidente della Repubblica) amava ricordare, dalle colonne di «Rinascita» o di «L'Unità», gli "anniversari", gli inizi cioè del P.C.d'I. o i primi viaggi in Russia delle delegazioni italiane e i vari congressi nazionali ed internazionali.

La storia dell'Internazionale Comunista (almeno fino al 1926 -poi, per noi, perde parecchio di interesse-) è mal conosciuta e quanto sappiamo proviene in gran parte  dall'archivio dell'ex-pci o da qualche spiraglio che anni fa si aprì, per poi rinchiudersi subito, negli archivi russi.

Terracini, unico "ordinovista" tra i membri del C.E. del Partito Comunista d'Italia, partecipò al III Congresso dell'I.C. (22 giugno - 12 luglio 1921). Nel giugno-luglio del 1921 il partito italiano aveva pochi mesi di vita ma già si tendeva a mettere in dubbio la correttezza della sua fondazione (avvenuta troppo a sinistra: sarebbe stato sufficiente espellere i riformisti turatiani e non la gran massa dei massimalisti) e si intravedeva la prospettiva di una riunificazione coi socialisti (che si stava per rendere effettiva dopo il IV Congresso e che fu evitata perchè i socialisti non la vollero!). In quella occasione Terracini difese con impeto le posizioni del partito, che erano le posizioni della sinistra, e si scontrò con ...Lenin.

Allora era ancora lontana la creazione (da parte dell'I.C. stessa) di un centro più ligio all'obbedienza e all'esecuzione degli ordini e il partito si muoveva compatto.

Terracini fu altre volte a Mosca. Agli inizi del 1922 per il I Esecutivo Allargato dell'Internazionale insieme a Riccardo Roberto. Qui Lenin è assente «già colpito dal gravissimo male che doveva portarlo a morte due anni dopo» e vi primeggiò Trotzky con cui Terracini entrò in contraddittorio. Terracini mantenne la posizione che aveva difeso al III Congresso: «La questione che si pone è questa: dobbiamo, per conquistare le masse, abbandonare i principi che sono la nostra forza?». Nella primavera-estate del 1923 Terracini fu di nuovo a Mosca per sostituire Gramsci come rappresentante del partito italiano presso L'I.C. e  partecipò ai lavori del III Esecutivo Allargato del giugno 1923. Sempre in Russia, dopo parecchi dubbi, passò nella primavera del 1924, alle posizioni del centro gramsciano e all'allineamento con l'I.C. e partecipò quindi al V Congresso internazionale prima di rientrare in Italia sostituito a Mosca da Scoccimarro.

Al Terzo Congresso erano presenti due delegazioni italiane: quella del Partito Comunista d'Italia con i delegati ufficiali Gennari, Mario Montagnana, Misiano e Terracini e quella del P.S.I. con Lazzari, Maffi e Riboldi.

Numerosi altri comunisti italiani furono presenti in quei giorni a Mosca. Ad esempio Mario Montagnana nel suo libro «Ricordi di un operaio torinese» (Edizioni Rinascita, Roma, 1952) dice che, oltre a lui, rappresentante della Federazione giovanile del partito, c'erano anche sua sorella Rita e Santhià. Terracini poi, nell'articolo che riproduciamo, parla anche di altri che fecero quel viaggio :

--innanzi tutto di Niccolini, «compagno sovietico» che accompagnò la delegazione italiana e di cui stranamente scrive: «del quale non conobbi mai il vero nome né mai seppi che sorte abbia poi avuto».  Ebbene il vero nome di Niccolini era Ljubarskij (esattamente Nikolai Markovic Ljubarskij), nato ad Odessa nel 1887 e nel partito bolscevico dal 1906. Fu in Italia prima della prima guerra mondiale ma nel 1916 è in Russia e partecipa alla rivoluzione. Nel 1918 fa parte dell'ambasciata russa in Svizzera, paese dal quale viene espulso all'inizio del 1919. Ritornato a Mosca fu uno dei principali organizzatori della Conferenza Internazionale che divenne il I Congresso dell'Internazionale Comunista. Fu quindi in Italia ed assistette al Congresso di Livorno. Lasciò poi l'Italia e nel 1922 venne inviato in Mongolia come ministro plenipotenziario. La sua fine fu degna di un vero bolscevico: espulso a metà degli anni venti dal partito morì nel campo di concentramento di Vorchuta nel 1938. Vista l'importanza del personaggio strano che Terracini dica di non saperne nulla. Ma ritorniamo agli italiani segnalati da Terracini:

--il gruppo degli operai torinesi: probabilmente ci si riferisce a Mario e Rita Montagnana e a Santhià,

--due operai milanesi: non si sa di chi si tratti.

Vengono nominati poi altri compagni ma come se fossero delle "macchiette", dei credenti in viaggio verso la Mecca...

--un compagno barbiere di Caserta che non si sa chi sia ma «che aveva certe opinioni sue sulla piccola barba che ornava il mento del capo della Rivoluzione e che intendeva dargli consigli in proposito»,

--un bracciante agricolo toscano di cui non si sa nulla ma che «avendo sentito da Niccolini che a Lenin piaceva il vino Chianti, ne aveva acquistato un fiasco in una bottega italiana di Berlino»,

--un compagno calzolaio di Napoli; Terracini scrive che questo calzolaio napoletano aveva portato a Mosca un paio di scarpe (con tacco a spillo) per la Krupskaia e un paio di scarpe leggerissime e "da ballo" per Lenin.

Come abbiamo scritto all'inizio, l'articolo di Terracini viene replicato con un breve articolo «La voce di un "pentito"» che compare nel n. 3 del febbraio 1960 di «il programma comunista».

Poi, a distanza di mesi, sempre su «il programma comunista» (n. 12 del luglio 1960) compare un articolo «"Il bugiardo" di ... Terracini»; ne è autore il calzolaio napoletano che era a Mosca al III Congresso e che ha tardato a rispondere perchè non «abituato a leggere L'Unità».

Il compagno nega sprezzantemente  di aver mai compiuto il gesto di cui parla Terracini e aggiunge «qual è il calzolaio che fabbrica scarpe per clienti dei cui piedi ignora il numero?». L'articolo però, nella tradizione di «il programma comunista» non è  firmato e la ricerca del nome  del calzolaio quindi ardua e problematica.

Ma " le vie del Signore sono infinite" e con qualche aiuto si è riusciti ad individuare il calzolaio, militante comunista, iscritto al Partito Comunista d'Italia,  presente a Mosca nel 1921 e legato ancora nel 1960 a Bordiga e al Partito Comunista Internazionalista: si tratta di Salvatore Mauriello, una bandiera del primo comunismo napoletano.

Di Salvatore Mauriello si parla nel libro di Nicola De Ianni «Operai e industriali a Napoli tra grande guerra e crisi mondiale: 1915-1929» (Librairie Droz, Geneve, 1984) dove è scritto (pag. 115): «Per quanto concerne i dirigenti operai, [si sta parlando della direzione del partito comunista a Napoli] forse il più apprezzato e stimato, con notevoli doti di agitatore sindacale, era l'ex anarchico e calzolaio Salvatore Mauriello, reso certo popolare anche dal viaggio in Russia, alla metà del 1921, in qualità di rappresentante napoletano al III Congresso dell' Internazionale.»

Di quanti di questi compagni, di queste figure di combattenti per il comunismo si è perso anche il ricordo?

Ricordarli, dire una parola su di loro e sulle battaglie che condussero è il meno che si possa  fare non al modo di Terracini che falsifica e ridicolizza la loro battaglia ma nemmeno annullandoli e cancellando la loro memoria.

 

gennaio 2008

 

    

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Tre incontri con Lenin

 

La delegazione italiana al III Congresso dell'Internazionale - " Il discorso di Lenin scompiglia le nostre formule" - Nella sua casa di campagna a Gorki - Le scarpe del calzolaio di Napoli e il Chianti del bracciante toscano

 

Tre volte mi sono incontrato con Lenin, tra il luglio 1921 e il gennaio 1924. Prima non avevo conosciuto di lui che il nome e le opere; ma più quelle del rivoluzionario d'azione che non quelle del teorico del marxismo.  E nemmeno da lungo tempo. Se infatti oggi, volgendomi indietro e considerando la mia vita, posso abbracciare nel ricordo e con la mia diretta testimonianza cinquant'anni interi del movimento operaio italiano e internazionale, allora, e per la mia età giovanile e per il lungo servizio militare, non avevo ancora avuto la possibilità di conoscere, oltre le frontiere del mio Paese, le vicende del movimento socialista: i Congressi della II Internazionale, la storia dei singoli Partiti che vi aderivano, le lotte interne delle sue frazioni, le personalità e le diverse posizioni dei dirigenti, ecc. ecc.

Fu solo nel settembre del 1916, quando avevo appena vent'anni, che seppi della esistenza di Lenin e di ciò che egli rappresentava nel socialismo mondiale, e precisamente quando sull' Avanti! , il quotidiano del Partito socialista italiano, apparvero le corrispondenze della conferenza di Zimmerwald. In questa, come è noto, il Partito socialista italiano si era schierato coi cosiddetti centristi e contro le proposte di Lenin che esprimendo la concezione elaborata, come egli stesso scrisse «dai marxisti coerenti della Russia, della Polonia,, della regione Lettone,  della Germania, della Svezia, della Norvegia, della Svizzera e dell'Olanda» vi aveva sostenuto la necessità della lotta per la trasformazione della guerra imperialistica nella rivoluzione proletaria. Ma la censura aveva largamente mutilato il testo di quelle corrispondenze, mentre gli articoli redazionali che le accompagnavano erano fortemente critici sulle posizioni di Lenin, esaltando ancora la formula «Guerra alla guerra» con la quale il Partito socialista italiano aveva condotto con successo la sua lotta contro l'intervento ed io mi ero guadagnato, già soldato, una condanna per disfattismo.

Ciò che mi impedì di comprendere subito e bene i fondamenti marxisti e il valore rivoluzionario della posizione zimmerwaldiana di Lenin che invece dopo due anni mi apparvero chiarissimi dinanzi alla loro grandiosa dimostrazione sperimentale: la lotta bolscevica dal marzo al novembre 1917 per la trasformazione della rivoluzione borghese nella rivoluzione socialista lungo l'asse guida  del passaggio dalla guerra imperialista alla guerra civile sotto la parola d'ordine della pace.

 

Le teorie del barbiere

Il P.S.I. non ebbe allora alcuna esitazione nel valutare giustamente la lotta che, all'indomani stesso del crollo dello zarismo, aveva posto l'una di fronte all'altra le diverse forze politiche che con diverso programma si rivolgevano alle masse popolari russe: dai bolscevichi ai socialisti rivoluzionari fino all'estrema destra dei cadetti. E l' Avanti! sostenendo i bolscevichi e le loro battaglie per il potere socialista, rese i nomi e le figure dei loro dirigenti, fino allora sconosciuti, popolari come nessuno mai in precedenza in Italia. Contemporaneamente i militanti d'avanguardia della classe operaia si misero con ardore alla ricerca e alla lettura dei loro scritti dai più lontani dell'alba della socialdemocrazia russa fino ai recentissimi che definivano un punto di teoria e chiarivano tatticamente le concatenate decisioni che portando all'Ottobre rosso aprirono una nuova epoca nella storia dell'umanità.

Ma la grande maggioranza delle masse italiane, ancora in condizioni di vita più proprie di una plebe arretrata e incolta che di una classe operaia politicamente educata, assunse la rivoluzione dei Soviet e il suo drammatico svolgimento sotto specie mitica, quasi leggendaria, facendo dei suoi protagonisti principali degli eroi e dei santi, le cui effigi venivano ad aggiungersi sui muri delle squallide abitazioni alle tradizionali oleografie dei padroni consacrati dalla Chiesa. Non uomini preparati dai lunghi studi alla comprensione dei rapporti e dei contrasti sociali e alle loro prospettive, ma facitori di miracoli che avevano con arti sovrumane stroncata l'idra bestiale dell'assolutismo, liberando i popoli oppressi e travagliati per aprire loro le strade di un avvenire migliore.. E l'odio terribile del quale la borghesia italiana e le sue istituzioni fondamentali - la Corte, l'alta ufficialità, la Chiesa, la cultura accademica - facevano bersaglio la rivoluzione d'Ottobre, i bolscevichi e i loro dirigenti; Lenin più di ogni altro , accendeva per contrapposto nel cuore della gente umile, povera, disperata, un amore illimitato ed esclusivo.

Si battezzavano i bimbi coi nomi dei capi della Rivoluzione di Ottobre e un medaglioncino recante la effigie di Lenin veniva portato al collo come se dotato di poteri taumaturgici contro le malattie e le sciagure. Infantile, irrazionale, ma possente, questo sentimento era penetrato anche inavvertitamente negli strati più educati della classe lavoratrice confortandone la lotta e sostenendone le speranze.

Di questo stato d'animo, di questa forma mentale era compenetrata, a causa della sua composizione, anche la delegazione che il partito comunista italiano inviò nel giugno 1921 a Mosca per il terzo Congresso dell'Internazionale. In essa nessun nome famoso, nessuna personalità di rilievo nel movimento operaio internazionale; e ciò in conseguenza del fatto che, alla scissione di Livorno, quasi nessuno dei dirigenti del vecchio partito socialista e cioè degli appartenenti allo stato maggiore politico sindacale e cooperativo del proletariato italiano era passato al partito comunista. D'altra parte, fuori che a Torino, il grande centro dell'industria automobilistica dove negli anni del dopoguerra sotto la guida di Gramsci si era sviluppato il movimento rivoluzionario dei Consigli di fabbrica, l'organizzazione in via di formazione del Partito comunista coincideva ancora largamente con la rete della frazione bordighiana, il cui estremismo impastato di antiparlamentarismo ed insieme di antioperaismo aveva esercitato la sua forte attrazione specialmente sui minuti artigiani di paese e sugli intellettuali e i sottoproletari delle grandi città del Meridione.

Di questi elementi che le davano un carattere popolare e chiassoso, più da manifestazione di strada che da congresso, la delegazione italiana a Mosca ne comprendeva moltissimi, né a mutarne il tono era sufficiente il piccolo gruppo di operai di fabbrica che erano stati designati dalle organizzazioni cittadine del Nord. Conseguentemente più che l'interesse politico per il Congresso imminente - che si rivelò poi, per le direttive tattiche che ne sortirono di così grande importanza per l'avvenire della lotta proletaria in tutto il mondo - in essa regnava una curiosità fervidamente ingenua, da credenti, su quanto si sarebbe visto nella capitale dei Soviet. Vi si sarebbero incontrati i capi della Rivoluzione, gli uomini dello Smolni e del Cremlino; vi si sarebbe incontrato Lenin!

Ma lo si sarebbe davvero incontrato, avvicinato, toccato? Durante il viaggio interminabile dall'Italia a Mosca - dodici giorni! -  questa fu la domanda insistente rivolta al compagno sovietico che ci accompagnava, Niccolini di pseudonimo, fino allora rimasto in Italia a rappresentarvi clandestinamente la Internazionale Comunista e del quale mai conobbi il vero nome né mai seppi che sorte abbia poi avuto. Lo assillavano particolarmente un compagno calzolaio di Napoli, il quale custodiva con gelosia nella valigia, rifiutandosi di mostrarli a chicchessia, due paia di stivaletti di sua fattura, uno da uomo e l'altro da donna, che voleva offrire a Lenin e alla Krupskaia; un compagno barbiere di Caserta che aveva certe opinioni sue sulla piccola barba che ornava il mento del capo della Rivoluzione e che intendeva dargli consigli in proposito, e un bracciante agricolo toscano il quale avendo sentito dal Niccolini che a Lenin piaceva il vino Chianti, ne aveva acquistato un fiasco in una bottega italiana di Berlino.

Giunti a Mosca e alloggiati all'Hotel Lux sulla Terskaia, io e Gennari con il gruppo degli operai torinesi e due operai milanesi fummo subito presi dall'intenso lavoro preparatorio del Congresso, tra commissioni e incontri con altre delegazioni. Ma un giorno il compagno calzolaio entrò precipitosamente nella mia camera portando sotto il braccio accuratamente avvolti nella pezzuola nera in cui i ciabattini usano portare ai clienti i loro lavori, le due paia di scarpe e con voce emozionata mi invitò a prepararmi subito; entro un'ora Niccolini avrebbe accompagnato gli italiani da Lenin.

 

Una schietta umanità

Confesso che restai di sasso udendo come in quei momenti intensissimi di lavoro e di preoccupazioni - il Congresso imminente e i formidabili impegni che la situazione interna e internazionale menavano al partito bolscevico e al governo sovietico - Lenin fosse disposto a dedicare sia pure soltanto un briciolo del suo tempo al desiderio toccante ma puerile dei miei incolti e politicamente sprovveduti compagni di delegazione. ma quando lo vidi - vidi come svelto si alzò dallo scrittoio verso di noi che eravamo entrati nella sua vasta camera al primo piano della grande casa di campagna cui eravamo giunti con una rapida corsa in automobile (forse Gorki?), come il suo viso si illuminò di serena giocondità alle esclamazioni vivaci di saluto dei visitatori, come si soffuse di lieta commozione quando il barbiere scoppiando in pianto gli si chinò dinanzi per serrargli le ginocchia in un abbraccio di adorazione; e quando udii il suo riso un po' chiocciante allo spettacolo del calzolaio che gli porgeva le scarpe - quella per la Krupskaia con tacco altissimo e le altre per lui da ballo in lustrina e con suole sottilissime e il suo reiterato «karoscio» di soddisfazione alla vista del rosso vino toscano nel classico vetro impagliato - allora mi stupii del mio stupore. E capii che fino a quel momento non avevo ancora conosciuto Lenin.

Si - i miei studi me lo avevano rivelato nella sua mente eccelsa di indagatore preciso dei processi più complessi della vita umana associata, nella sua incomparabile capacità di svolgere dalle premesse accertate le prospettive conseguenti in confronto ai fini perseguiti, nella sua volontà incrollabile nel perseguimento degli scopi e nel ritrovamento delle tattiche adeguate; e quanto avevo appreso e conosciuto della sua vita mi diceva della dedizione all'ideale del socialismo che gli aveva fatto accettare senza limiti di sacrificio ogni prova. Ma che cosa sarebbero state queste virtù maestre se, a nutrirle e a fonderle centuplicandone la potenza, non ci fosse stato in Lenin quel senso, quella consensualità umana che, prorompendo ora d'un tratto dall'imo, cancellava per lui dall'attualità immediata i suoi smisurati impegni di capo di uno Stato e di dirigente di un grande partito per fargli godere un minuto di comunione nei sentimenti con quegli ignoti dall'animo semplice?

 

Nella sala del Cremlino

Il mio primo incontro con Lenin: il mio incontro col suo grande cuore. A me, stringendomi la mano con estrema affabilità, parlò brevemente del discorso che avevo fatto a Livorno, del quale aveva avuto notizie da Kabacieff. Sapeva già che fra pochi giorni ci saremmo nuovamente incontrati, o meglio scontrati in un'aperta e risoluta battaglia politica; ma non disse in proposito nulla.

 

*

 

Il secondo incontro avvenne al Cremlino, nella maestosa sala del trono del già Palazzo Imperiale. Sotto il baldacchino incurvato in bianco e oro, al posto del trono, c'era il grande tavolo della presidenza del terzo Congresso dell'Internazionale Comunista e, a fianco di questo, la tribuna per gli oratori. Proprio davanti, leggermente a sinistra, nelle tre prime file, sedeva la delegazione italiana. Quella bolscevica stava nelle ultime file a destra, in fondo alla sala. A noi avevano riservato il posto della predilezione. Le burrascose vicende, attraverso alle quali si era giunti in Italia alla formazione del Partito comunista, erano state seguite con preoccupato interesse da tutto il movimento comunista mondiale, e d'altronde la presenza allo stesso Congresso di una ristretta rappresentanza inviata dal Partito socialista italiano per sostenere l'appello contro la sua espulsione dall'Internazionale comunista e contro il riconoscimento del partito comunista come unica sezione di questa in Italia, preannunciando un vivacissimo dibattito, faceva convergere su di noi la fraterna attenzione di tutte le delegazioni.

Ma c'era un'altra cosa ancora che in quella imponente assemblea di rappresentanti qualificati dei lavoratori di avanguardia di tutto il mondo, dava importanza alla nostra delegazione tuttavia non ricca di personalità autorevoli nel movimento socialista internazionale, e precisamente il fatto che assieme ai tedeschi, agli austriaci e agli ungheresi, noi avevamo firmato una serie di emendamenti alle tesi sulla tattica proposte al Congresso dalla delegazione bolscevica, notoriamente redatte di persona da Lenin. Si sapeva che, a nome di tutti i presentatori, io li avrei sostenuti alla tribuna e non mancava la curiosità per l'esordio dell'homo novus che ardiva contrapporsi coll'arma della dialettica marxista a colui che di quest'arma era maestro e signore.

Ogni militante comunista, per poco che abbia studiato i nostri testi, sa che le tesi sulla tattica del terzo Congresso costituirono un risoluto colpo di timone col quale, al corso astrattamente propagandistico e agitatorio seguito fino a quel momento nell'azione della maggioranza dei Partiti comunisti, si mirò a sostituire una lotta conseguente politicamente radicata nelle situazioni concrete di ogni Paese, per la conquista della maggioranza del proletariato, condizione irrinunciabile di una vittoriosa lotta per il potere. Ma noi, in Italia, eravamo ancora troppo impigliati nelle appassionate polemiche contro il centrismo serratiano per riuscire ad intendere subito l'importanza decisiva di tale nuova impostazione, e come poi ebbe ad esprimersi Lenin firmando gli emendamenti «avevamo un tantino oltrepassato il limite oltre il quale la lotta contro il centrismo si trasforma in sport, il limite oltre il quale si incomincia a compromettere il marxismo rivoluzionario».

E Lenin salì sulla tribuna. La data la so - era il 31 luglio 1921 - perchè ogni tanto rileggo quel suo discorso. Affinchè noi lo intendessimo con immediatezza di comprensione e di reazione parlò in francese, con pronuncia limpida e sfumature sottili di formulazione. Ma il mio nome, che ad ogni tratto ritornava sulle sue labbra, come una interiezione martellata, lo pronunciava all'italiana, senza accento finale e con la «c» dolce.

Svolgendo gli emendamenti io mi ero espresso con tranquilla sicurezza non sfuggendo tuttavia a quel tanto di ansia che comprensibilmente nasceva in me dal trovarmi per la prima volta a parlare dalla tribuna di un Congresso internazionale, a persone di autorità marxista grandissima e di meriti eccezionali, nel campo dell'azione rivoluzionaria. E, lo confesso, ebbi addirittura un attimo fugace di orgogliosa presunzione allorchè Lenin, con quel suo atteggiamento di semplicità che agli ignari poteva anche sembrare remissione, pronunciò le prime parole del suo discorso in risposta: «Compagni, con mio grande rammarico, devo limitarmi a una autodifesa».

Ma subito proruppe dalle sue labbra, con un crescendo travolgente, l'aspro discorso di attacco che doveva scompigliare, travolgere, spazzare via la nostra temeraria costruzione di formule e di concetti. Autodifesa? No. Ma ben al contrario, un'energica offensiva «assolutamente necessaria contro le sciocchezze di sinistra, contro quelle frasi di sinistra delle quali i compagni russi erano già stati saziati fino alla nausea» e senza la quale «tutto il movimento sarebbe stato condannato a rovina».

 

Sulla Piazza Rossa

Io conoscevo attraverso alla lettura di alcune delle sue ultime opere come La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautskj, Stato e rivoluzione, L'estremismo malattia infantile del comunismo e molti articoli apparsi sulla rivista L'Internazionale comunista il fierissimo modo polemico con il quale Lenin aveva portato innanzi la sua lotta intransigente contro ogni forma di deviazione e di degenerazione ideologica e politica in seno al movimento operaio. Ma altra cosa è leggere ed altra udire: altra cosa è la polemica contro terzi ed altra è la polemica contro di noi. Qui io udivo, ed ero il diretto nominativo bersaglio di quel fulminante contrattacco «Alt! Lotta decisa! Altrimenti l'Internazionale comunista è rovinata!»

Ero seduto in prima fila, proprio sotto la tribuna degli oratori, fra i miei compagni di delegazione che, ignari nel maggior numero della lingua francese, non comprendevano del discorso di Lenin null'altro se non il mio nome dieci volte ripetuto, e magari pensavano che fosse per darmi consensi e lodi. Però poco più in là i tre rappresentanti del partito socialista italiano - Maffi, Lazzari e Riboldi - , che il francese intendevano, sorridevano beati nell'attesa illusoria che quella requisitoria tonante si concludesse con la condanna del partito comunista italiano e con l'accettazione delle loro richieste.

Parlando, anzichè restare fermo alla tribuna, Lenin, secondo [quanto] gli era solito, si muoveva a piccoli passi su e giù per la pedana, volgendo lo sguardo vivacissimo tutt'attorno per l'immenso salone. Ma ogni tanto lo fermava brevemente su di me che aveva riconosciuto fra i presenti. E per un attimo, anzi,  mi balenò il pensiero che avrei fatto molto meglio a non recarmi da lui a Gorki pochi giorni prima. Ma fu davvero per un attimo solo, perchè presto mi accorsi che quel suo sguardo, ogni volta che si posava su di me, anzichè umiliazione e amarezza mi accendeva dentro coraggio e conforto.

E mi parve anzi di comprendere che quello sguardo mi cercasse appunto per dirmi che la asprissima condanna che esprimevano le sue parole martellanti egli le pronunciava per il dovere imperioso che gli incombeva di salvarmi, di salvarci tutti da un errore che sarebbe stato irreparabile e rovinoso non solo per noi ma per la stessa grande luminosa impresa di liberazione sociale che ci era comune - dovere crudele ma generoso, come del chirurgo che incide le carni del paziente per guarirlo. Allora riuscii a dominare l'agitazione vivissima interiore che si era impadronita di me, e senza più formalismi per certe frasi terribili che, a proposito degli emendamenti, parlavano di «vergogna», di «infamia», di «menzogna», di «ridicolo» e di «chiacchiere vuote», potei seguire con attenzione concentrata la splendida argomentata chiarissima lezione di marxismo applicato della quale avevo dato a Lenin l'occasione e la materia. E penso di averne poi fatto un utile impiego nella mia successiva quarantennale battaglia di comunista militante.

Alla fine della seduta, nell'uscita mi trovai viso a viso con Lenin. «Camerade Terracini» mi disse con un quieto sorriso amico «il faut etre souple et sage!» e, già lontano fra la gente che si assiepava giù per lo scalone, ripetè levando un po' il braccio «Souple et sage!».

 

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Lo incontrai l'ultima volta - l'ultimo suo incontro con tutti - il 27 gennaio 1924 sulla Piazza Rossa. Sotto le mura color mattone del Cremlino non c'era ancora il grande Mausoleo di marmo nero polito, ma proprio all'imbocco, dalla parte del palazzo della vecchia Duma cittadina, su un rozzo e basso palco di legno, dalla bara di abete scuro ancora scoperchiata e un po'inclinata innanzi, Lenin, il capo su un cuscino di seta rossa, pareva guardasse di tra le palpebre socchiuse la folla sterminata immobile sotto la neve. Nell'immenso silenzio gelido si sentiva solo il crepitio secco delle fiamme che ardevano dai bracieri giganteschi di interi tronchi, ai quali da giorni si scaldava la moltitudine venuta dalle città e dalle campagne a piangere e a prostrarsi dinanzi alla sua salma.

Di dieci in dieci minuti la guardia d'onore si dava il cambio ai quattro angoli della bara: vecchi bolscevichi, professori dell'Accademia delle scienze, operaie e operai, i membri del Comitato centrale del partito, organizzatori sindacali, contadini dalle barbe irte di ghiaccioli. Anche i componenti del Presidium dell'Internazionale presenti a Mosca ebbero il loro turno. E verso le 16 del pomeriggio, mentre sulla piazza scendeva l'ombra del crepuscolo invernale, con la Zetkin, Foster e Kataiama, salii anch'io i pochi gradini viscidi di nevischio e mi irrigidii alla destra della bara, alla destra del suo viso. Attanagliato dall'emozione e quasi incapace di ogni pensiero non volsi il capo per guardarlo.

Il suo grande dialogo col mondo, con la storia, con l'avvenire si era concluso. Spettava a tutti coloro che lo avevano amato e che egli aveva educato e formato nella coscienza e nell'intelletto, spettava ormai ai comunisti di ogni Paese di proseguirlo, secondo le loro capacità e le loro forze, con tutte le forze, nell'avvenire. Quando con Kataiama, la Zetkin e Foster mi mossi verso la breve scaletta per scendere, con lo sguardo sfiorai la grande fronte bianca. «Si» dissi «sono un comunista anch'io».

 

Umberto Terracini

 

L'Unità, 21 gennaio 1960

 

 

 

La risposta della sinistra

 

La voce di un "pentito"

 

 

Nella celebrazione dell'anniversario della fondazione del Partito Comunista d'Italia a Livorno (secondo l'«Unità» un «filo rosso» unisce il programma di quel Congresso, all'attuale... via italiana e democratica al socialismo ma, ahinoi, il filo si è spezzato: al suo posto c'è un nastro tricolore!), poteva mancare la voce di Terracini rievocante i suoi incontri con Lenin? L'odierno senatore, che fu al III Congresso della Internazionale Comunista come latore delle tesi non della «Sinistra» ma del Partito e da lui come tali pienamente sottoscritte, e che per averle difese in modo astratto e infantilmente estremista si meritò la strapazzata non solo di Lenin, ma della direzione del Partito in Italia, doveva per necessità di cose e per onor di firma scaricare su qualche altro la sua topica e, insieme, lavare la «macchia» sinistroide del suo passato. Peccati d'infanzia: la colpa era del «bordighismo! Senatore Umberto, sei assolto: ripetevi - tu, il grande intellettuale - quello che ti aveva insegnato papà... Ma, se Lenin ti disse che bisognava essere «elastici e saggi», tu hai interpretato l'elasticità nel senso dei migliori saltimbanchi, e la saggezza in quello dei più ossequienti conformisti.

Be' passiamoci sopra. Una sola cosa interessante abbiamo rilevato nel suo articolo: dopo tanto baccano su Gramsci, Togliatti e colleghi come fondatori del partito, dopo tanta mitologia ordinovista su Livorno, guarda un po' che cosa esce dalla penna del senatore Umberto Terracini: «Fuori che a Torino [il che non è neppur vero, perchè la sezione di Torino era in maggioranza astensionista], il grande centro dell'industria automobilistica dove negli anni del dopoguerra si era sviluppato il movimento rivoluzionario dei Consigli di fabbrica [il «rivoluzionario» va preso con qualche riserva, ma lasciamo perdere] l'organizzazione in via di formazione del Partito Comunista coincideva ancora largamente con la rete della frazione bordighiana [ e dagli coi movimenti identificati con persone o, peggio, con babau!]». Dopo la quale strana confessione il molto onorevole si affretta qad aggiungere: «il cui estremismo impastato di antiparlamentarismo ed insieme di antioperaismo aveva esercitato la sua forte attrazione specialmente sui minuti artigiani di paese e sugli intellettuali e sotto proletari delle grandi città del Meridione», il che è falso in linea di fatto perchè, se mai, gli intellettuali ronzavano intorno all' «Ordine Nuovo» e basta leggere il «Soviet» per vedere che razza di «semiproletari», «intellettuali» e «artigiani» vi facessero sentire la loro robusta voce proletaria, e, se fosse vero, porterebbe a concludere che il partito nacque a Livorno «largamente»... piccolo-borghese, il che è notoriamente una menzogna.

E' vero che, dall'alto della sua superiore preparazione politica di ex-presidente della Costituente italiana, Terracini liquida con solenne disprezzo il proletariato di allora, in grande maggioranza «ancora in condizioni di vita più proprie di una plebe arretrata ed incolta [ci è voluta la «cultura» di lorsignori per rincoglionire le «plebi» allora piene di ardore battagliero!] che di una classe operaia politicamente educata»; e dall'alto di questa... visione storica profonda è ovvio che appaia artigiano-semiproletario-intellettuale il Partito rivoluzionario e antidemocratico del 1921, e proletario invece il Partito codino e corteggiatore dei ceti medi (in primo luogo intellettuali, naturalmente) del 1960. Comodo, vero? rifare così la storia.

 

il programma comunista, n 3, 12-25 febbraio 1960

 

 

La risposta del calzolaio

 

«Il bugiardo» di ... Terracini

 

Caro Programma,

scusami se, non essendo abituato a leggere  l' «Unità», solo ora sono riuscito a procurarmi il numero del 21 genn. in cui il molto onorevole sig. Terracini fornì al lettore i suoi preziosi «ricordi» sul 3° Congresso dell'Internazionale e su Lenin. Giustamente tu hai commentato il suo articolo ironizzando sul fatto che questo esimio traditore del comunismo, dovendo scusarsi della brutta figura fatta a quel congresso, si sia creduto in dovere di scaricarne la colpa sulla «immaturità» del partito italiano nel 1921 e, in particolare, sulla impreparazione politica dei compagni ... napoletani. Loro, i «preparati»; loro, i settentrionali dell'alta cultura (ma guarda a che livelli di campanile hanno ridotto l'internazionalismo) sono finiti nella melma del parlamentarismo e della pacifica coesistenza: colpa della «cricca meridionale» se Terracini, allora come oggi più realista del re, diede prova sulla tribuna dell'I.C. di un estremismo infantile che la direzione del Partito fu la prima a sconfessare.

Voglio aggiungere qualcosa che può servire a mettere in luce la bassezza di questi arnesi dell'ultraparlamentarismo. Non bastandogli gli «argomenti politici» per dimostrare l'immaturità del partito, allora vittima innocente di incolti meridionali, il signor Terracini sforna una sequela di episodi ... autentici (cioè inventati di sana pianta) narrando di «un calzolaio di Napoli il quale custodiva con gelosia nella valigia, rifiutandosi di mostrarli a chicchessia due paia di stivaletti di sua fattura, uno da uomo  e l'altro da donna, da offrire a Lenin e alla Krupskaja», calzolaio che, mentre Terracini e «il gruppo degli operai torinesi e due operai milanesi» erano impegnati in un «intenso lavoro preparatorio del congresso», «entrò precipitosamente nella mia camera, portando sotto il braccio, avvolte nella pezzuola nera in cui i calzolai usano portare ai clienti il loro lavoro», le scarpe «dal tacco altissimo» per la Krupskaja e quelle «da ballo in lustrina e con suole sottilissime» per lui, e annunciando che presto Lenin li avrebbe ricevuti. Il discorso continua  con la descrizione dello «abbraccio di adorazione» col quale il calzolaio meridionale (per tacere di un «barbiere di Caserta che aveva certe sue opinioni sulla piccola barba di Lenin e che intendeva dargli consigli in proposito») si sarebbe gettato ai piedi del Maestro.

A tal punto può scendere la meschinità di questi signori. Ebbene:

1) Il solo calzolaio che facesse parte della delegazione al III Congresso era il sottoscritto; di lui dunque si parla;

2) Ai tempi di Lenin non sarebbe mai passato in testa a nessuno dei compagni «politicamente sprovveduti» di compiere i gesti di adulazione e servilismo in cui i Terracini e C. furono maestri ai tempi di Stalin e che sono pronti a ripetere ai tempi di Krusciov (la loro «preparazione politica» non solo non lo vieta, ma lo impone!).

3) Non ho mai saputo dove Terracini alloggiasse a Mosca, e non sono stato ricevuto da Lenin, né solo né, tanto meno, col suddetto signore; non ho mai conosciuto «barbieri di Caserta» a Mosca.

4) Non potevo avere confezionato le suddette scarpe quando, fino al momento di partire ignoravo d'essere stato incluso nella delegazione a Mosca; d'altra parte, ma queste considerazioni sono troppo ... pedestri per un «politicamente preparato» come il sign. Terracini, qual è il calzolaio che fabbrica scarpe per clienti dei cui piedi ignora il numero?

5) E perchè avrei avuto la peregrina idea di confezionare per un uomo, in ben altre faccende affaccendato (non erano i tempi dei ricevimenti al caviale!) e per la sua compagna, due paia di scarpe da ballo e da cerimonia? Ai filibustieri di oggi questi arnesi si addicono; non ai lottatori proletari del 1917-24!

Ma al molto onorevole sign. Terracini serve gettare il fango sul partito di allora - con ogni mezzo, anche la più stupida calunnia - per contrapporre ad esso il partito «cosciente» e «politicamente maturo» di oggi. Proprio questo, rotto a tutte le infamie, a tutti i servilismi, a tutti i tradimenti; proprio questo partito dalle scarpe da ballo e dalla marsina alla Montecitorio!

Se essere «impreparati» significa non appartenere a questa consorteria di venduti alla società borghese, ebbene noi siamo fieri di non essere «politicamente provveduti»:  e Terracini e C. non si aspettino da noi che gli confezioniamo e gli lustriamo gli stivali come usano far loro coi padroni dell'Est e dell'Ovest.

(E scusateci se la redazione ha tolto la firma).

 

il programma comunista, n. 12, 25 giugno - 8 luglio 1960.