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archivio > Saggi e inediti>c. sal., Sull'anonimato nello scrivere di storia e sul centralismo organico (marzo 2011)

aggiornato al: 09/04/2011

c.sal., marzo 2011

Da un antico elemento programmista riceviamo uno scritto che, per gli argomenti toccati, consideriamo meritevole di essere fatto conoscere. E' appena il caso di avvertire che questo non implica una nostra piena condivisione delle riflessioni che vi troviamo svolte.

 

 

Sull'anonimato nello scrivere di storia e sul centralismo organico

 

 

Ad alcune lettere che abbiamo ricevuto da "storiografi" della  Sinistra comunista in richiesta di collaborazione o materiali, abbiamo risposto che, anche quando la ricostruzione di determinati periodi della storia del partito voglia essere onesta e fedele, è lo spirito del loro lavoro che non possiamo condividere.

 

Leopardi definiva  s p i r i t o  «una parola senza idea possibile». Il breve articolo di cui qui sopra si è dato il capoverso di apertura (Per la milizia comunista. Contro il personalismo storiografico, «Il Partito comunista», organo del Part. com. internazionale, n.ro 344, dic. 2010), vorrebbe precisare il senso dell'espressione che ha impiegato («lo spirito del loro lavoro»); e come lo fa? Lo fa non già entrando nel merito del lavoro degli innominati «"storiografi"», bensì stabilendo un rapporto di opposizione/esclusione tra «la storia di uomini grandi e importanti» e «quella del movimento di classe e delle sue vicende». Ai «militanti del partito comunista» la storia che interessa non è la prima, ma solo la seconda. Non è la prima perché «la storia di uomini, per quanto grandi e importanti siano stati», è condannata a non sollevarsi dalla più piatta banalità: è questo l'opinabilissimo giudizio che si ricava dall'articolo. Il quale a sostegno del proprio assunto allega a mo' di esempio il caso di Stalin, incurante del fatto che ad interessare gli «"storiografi"» della Sinistra sarà, prima e più di Stalin, Amadeo Bordiga. E, occupandosi (ipoteticamente) di Stalin, i suddetti «"storiografi"» che cos' altro mai porrebbero al centro (così sragiona l'articolo) della propria attenzione se non la cattiveria, la devianza, la malvagità o le nevrosi del georgiano, oppure di quell'XXYY (alla lettera) che avrebbe svolto lo stessissimo ruolo di Stalin (al riguardo non c'è l'ombra di un dubbio, per l'articolo) «se non ci fosse stato Stalin come persona»?

E' da sperare che gli «"storiografi"» in parola, si occupino di Stalin, di Bordiga o di chiunque altro, da un lato non siano così crassamente ignari dell'abc del loro mestiere, dall'altro lato non siano così sprovveduti come li immagina l'articolo. E' da sperare, inoltre, che non siano così dimentichi della magistrale messa a punto plekhanoviana sulla funzione della personalità nella storia come, invece, sembrano esserlo i compagni de «Il Partito comunista». I quali, se è lecito un suggerimento, non farebbero male a darvi un'occhiata e a verificare su quel testo classico il grado di accettabilità delle loro vedute in ordine  all'incidenza dell'elemento individuale nello sviluppo storico. Di per sé, la presa in considerazione del peso, in senso sia positivo sia negativo, dell' elemento individuale non ha niente, ma proprio  niente, di logicamente incompatibile con la nozione che «soggetti di storia, e di storiografia, sono i  p a r t i t i », mentre è tutto da vedere che non vi sia una venatura di idealismo nel concetto che «le idee, le  T e s i  [abbiano] una vita propria, sociale e materiale». E che dire di quest'altro concetto: che gli individui e la loro scatola cranica (nella quale «le idee, le T e s i [...] solo transitano e sono con assai poca efficienza e per breve tempo custodite») sarebbero equiparabili ad un semplice «i m b a l l a g g i o»? Può darsi che Marx si considerasse anche lui un semplice imballaggio, ma non possiamo impedire a noi stessi di trovare altamente improbabile che ad un semplice imballaggio venisse in mente, come venne in mente a lui, di buttar giù un elenco di quei contributi la cui incorporazione nella teoria (e nella politica) del socialismo egli ascriveva alla propria personale opera (e si trattava di un'elencazione decisamente incompleta, posto che lasciava fuori, scusate se è poco, nientedimeno che la concezione materialistica della storia). Non sarà che il pensiero di Marx e quello de «Il Partito comunista» non siano esattamente la stessa cosa?

L'articolo è quello che è:  una sequela di affermazioni apodittiche tirate giù con l'accetta; e sta bene. Ma della logica vi si fa un impiego suscettibile di portare alle conclusioni più surreali:

 

La  f i r m a   sotto un articolo non soltanto non è importante, bensì è dannosa, come mostrano appunto le tragiche vicende del secolo scorso, quando nel nome di Lenin si fece strage di proletari e comunisti.

 

Bando dunque a «la f i r m a sotto un articolo» e bando altresì ai nomi e cognomi in generale. Senonché, come dev'esser noto anche a «Il Partito comunista», la «strage di proletari e comunisti» non venne perpetrata solo «nel nome di Lenin». Venne perpetrata anche all'insegna criminosamente truffaldina  del marxismo, del partito comunista, della dittatura del proletariato, del comunismo. A quali altri nomi e sostantivi si dovrebbe intimare il bando adottando nell'uso della logica il criterio con il quale la maneggiano l'articolo e il giornale che lo pubblica? Bando allora solo ai nomi e cognomi? E perché non anche a sostantivi che sono stati insozzati tanto quanto il nome di Lenin? L'adozione di un criterio del genere ha come unico risultato quello di rendere neanche articolabile un discorso politico, tant'è che i compagni che editano la testata lo impiegano, sì, quel criterio, ma sono obbligati ad impiegarlo solo a scartamento ridotto. Comunque lo si impieghi, è il criterio di chi, constatando che l'aria è inquinata da ogni sorta di schifezze, venisse a consigliarci di provvedere alla nostra salute smettendo di respirare.

L'articolo, dicevamo, è quello che è; ma, proprio per il fatto di essere quello che è, soddisferà chi lo ha scritto, chi lo ha pubblicato e, molto probabilmente, i lettori abituali del giornale. La gente è sempre soddisfatta quando il suono delle parole o la carta stampata confermano le cose che è persuasa di pensare. Perché fosse altrimenti occorrerebbe quel senso critico che ― per così dire da sempre ― viene esorcizzato mediante il giochetto verbale consistente  nell'identificarlo con la famigerata «libertà di critica» nel senso in cui questa espressione veniva intesa dai revisionisti del marxismo, ossia con tutt'altra roba. Nelle microformazioni generate dallo sbriciolarsi di «Programma» si perpetua, essa si invariante, l'assenza di senso critico. Quest'ultimo corrispondeva ad un'attitudine anomala e mal tollerata già nell'ambito della microformazione originaria, dove a volte accadeva che troppo alto si levasse il pigolio dei non pochi «chierichetti di Amadeo», secondo la definizione che un vecchio compagno che veniva da Livorno 1921 dava degli allora giovani zelanti.

 

Tutta la storiografia che si fa sulla Sinistra è [...], suo malgrado, borghese.

 

Là dove noi interponiamo i tre puntini entro parentesi quadra ci sta un «quindi» che sembra rimandare ad un qualcosa di detto prima. Si risalga a prima, e ci si accorgerà che è del tutto vano cercare nel testo una qualsiasi considerazione che con un minimo di plausibilità  d i m o s t r i  l'asserito carattere  b o r g h e s e  di «tutta la storiografia che si fa sulla Sinistra». L'esercizio del senso critico non comporterà la messa in stato d'accusa dell'estensore di un articolo in cui, poniamo, si sia infilata una sciocchezza, infortunio fin troppo facile a prodursi, bensì indurrà a cercare se, prima o dopo un'affermazione, vi sia effettivamente quella dimostrazione che l'estensore pensa di aver dato e se la dimostrazione, ammesso che vi sia, dimostri o no qualcosa. Nel caso specifico, la dimostrazione dell'asserito carattere borghese non c'è: ad ogni fine utile, ne fa le veci l'aria che tira in tutto l'articolo; e il senso critico, constatandolo,  sarà indotto a chiedersi come sia possibile fare «storia del movimento di classe e delle sue vicende» senza fare storia degli uomini che a vario titolo vi hanno avuto parte, uomini che non si saranno limitati a fungere da imballaggio di idee e tesi aventi «una vita propria, sociale e materiale», ma che a queste idee e tesi avranno tentato di conformare il loro operato di militanti riuscendovi in varia misura a seconda di circostanze obiettive e ― attenzione! ― soggettive. Nel tener conto del lato soggettivo  e individuale non c'è assolutamente nulla di specificamente borghese: da che mondo è mondo ( e quindi da molto prima dell'era della borghesia) la storia la si è scritta  a n c h e  con tanto di nomi. E si capisce: la storia è sì sottesa da costanti, da leggi, ma è sempre storia di fatti singoli, e anche gli uomini sono, per dir così, dei fatti singoli. E l'aggettivazione di «borghese» applicata alla storiografia causa il ricorso ai nominativi ci fa comprendere quanto sia arbitraria, e  c a r a t t e r i s t i c a m e n t e  arbitraria , l'idea che «Il Partito comunista» si forma dell'effettiva storiografia borghese: una storiografia, così crede la testata, tutta imperniata sul protagonismo dell'individuo, sul genio, sulla figura dell'eroe  nel senso di un Carlyle. E' un autentico quiproquo. Di poca o nessuna importanza quando si tratta della storiografia, ma significativo per il fatto che dietro di esso c'è un metodo; e il metodo è quello della sistematica esagerazione delle posizioni avversarie od estranee per farne meglio risaltare l'erroneità. E' vero che fu lo stesso Bordiga, in una delle lettere scambiate con Damen nell'imminenza della rottura del '51-52, a dichiarare che con questo metodo nel colpire una posizione sbagliata si danno buone dimostrazioni dell'erroneità di essa e non si manda in galera nessuno; e quindi passi quanto alla storiografia borghese, della quale non è che ci importi molto. Ma renderlo sistematico nella polemica politica vuol dire non già affilare il taglio dell'arma che si impugna, ma piuttosto smussarlo. E' un artificio dialettico di cui è opportuno non abusare: abusandone, l'interlocuzione può diventare difficile. Certo, per le microformazioni derivate da quella programmista l'interlocuzione non è la prima e forse neanche l'ultima delle preoccupazioni. Anche in questo sono rimaste nel solco della tradizione. Abbiamo ancora presente un articolo della seconda metà degli anni '60 in cui si poteva leggere che «non vogliamo convincere, vogliamo uccidere» (e tutto l'articolo era sullo stesso tono): il che non solo era grottesco e irresponsabile, ma era indice di una mentalità che aveva poco a che fare con quel «giusto settarismo di partito» cui faceva riferimento Bordiga (verbatim, Parma 1958) ed alla quale mai si sarebbe dovuto indulgere: tanto meno, poi, quando ormai si era suppergiù alle soglie di quello che era stato previsto (ce se ne ricorda?) come possibile «decennio della grande pedata». Ma questo è un  altro discorso e la digressione va chiusa qui. ― Per dei risultati che dovessero restringersi ad un ambito puramente intellettuale e culturale, probabilmente non metterebbe conto, in questa sede, di fare appello al senso critico. Il punto è che esso ha un suo ruolo in  p o l i t i c a . E la storia di «Programma» è, al riguardo, istruttiva anche se a contrario.

 

* * * * *

 

Da queste note esula ogni pretesa di dare una caratterizzazione dettagliata dell'esperienza programmista nel trentennio che va dal '51-52 all' 82 — data, quest'ultima, alla quale certe contraddizioni interne, certi nodi irrisolti allora e adesso portavano alla frantumazione del gruppo ―, e segnatamente nella fase che va dalla sua nascita al '66, anno in cui Bordiga esce di scena. Si cercherà invece di focalizzare l'attenzione su di un aspetto di quell'esperienza, un aspetto, se si vuole, parziale, ma che è quello dal quale discende, con molte altre cose, anche l'idiosincrasia de «Il Partito comunista» e di tutti i gruppi che si richiamano a «Programma» nei confronti degli «"storiografi"» della Sinistra il lavoro dei quali si bolla come borghese, quand'anche il loro approccio al tema sia metodologicamente marxistico, solo perché per designare gli uomini impiegano nomi e cognomi, e perché nel fare storia, e storia politica, seguono il concetto di guardare agli uomini in ciò che questi hanno di impersonale e collettivo, ma anche in ciò che hanno di insopprimibilmente e magari fastidiosamente individuale. Il che, nel mondo a tre dimensioni, non rappresenta alcunché che possa venire assimilato ad un prosternarsi davanti all'uomo d'eccezione, al genio, al titano o all'eroe.

Come è del tutto chiaro, di suo (ma non solo suo) l'estensore dell'articolo ci ha messo soltanto un maneggio singolare della logica. Se si prescinde da ciò, siamo di fronte a nient'altro che ad un'applicazione ad una circostanza specifica delle vedute di Bordiga circa l'irrilevanza del ruolo dell'individualità nel processo storico, della perniciosità dell'elemento individuale, della conseguente necessità di renderlo, nella prassi politica, il più marginale possibile, fino alla cancellazione dei dati essenziali alla sua identificazione. Noteremo incidentalmente che le vedute di Bordiga avevano sempre, e non già solo nella questione accennata, qualcosa di estremo, tendevano sempre ad attestarsi e definirsi sul limite al quale un'idea poteva venire spinta. A ciò che un tempo si sarebbe chiamata una filosofia della storia ― una filosofia peraltro ancorata al materialismo storico ― le vedute in parola conferivano una fisionomia accentuatamente (ci si passi il termine) antindividualitaria. E, poiché in Bordiga tutto si tiene, questo radicale antindividualitarismo, che naturalmente informa tutta l'opera e l'operato di lui, lo si ritrova nel  c e n t r a l i s m o   o r g a n i c o , alla codificazione del quale fu consacrata l'ultima fatica teorica del vigoroso pensatore marxista che egli fu. La formula aveva alle spalle una lunga storia che risaliva all'inizio degli anni '20 (è del '22 Il principio democratico), ma solo nel '64-66, a seguito di accadimenti interni al gruppo, egli si accinse a sistematizzare la materia in un'esposizione che comportava la esplicitazione di un metodo che diventava normativo per la vita dell'organismo rappresentato dal gruppo programmista. Il punto è che tale metodo (la cui esplicitazione ebbe come effetto immediato il distacco della quasi totalità degli effettivi della sezione nel cui seno era attivo il coordinatore del gruppo) era stato applicato di fatto  ― ma senza, per quanto si sa, che la cosa fosse mai prima del '64 dichiarata ed esplicitata in tutti i suoi presupposti e in tutte le sue conseguenze ― all'organamento del gruppo stesso fin dal primo giorno dell'esistenza di esso. Le esplicitazioni parziali e i riferimenti dati in antecedenza non valsero ad impedire che la quasi generalità dei compagni (ivi compreso il compagno che da sempre agiva da coordinatore), per non dire senz'altro la generalità, percepisse le tesi del '64 e le conseguenze che si traevano dalla formula come cosa quasi del tutto nuova: circostanza che palesemente pone più di un interrogativo. Se non vi fossero altri motivi di ritenere augurabile che la storia del P.c.int. recentemente pubblicata da Sandro Saggioro (Né con Truman né con Stalin. Storia del Partito Comunista Internazionalista (1942-1952), Edd. Colibrì, Milano, 2010) riceva la sua naturale prosecuzione, basterebbe questo: che una storia di «Programma» pensata e scritta in termini di  e s s e r e , e non di  d o v e r   e s s e r e  , cioè una storia non mitologica ( e dunque una storia di taglio borghese, stando alla nota ottica), agevolerebbe e solleciterebbe una verifica della sostenibilità in generale e dell'efficacia in generale di quella che si esita a considerare come una vera e propria formula organizzativa (come lo è, ad es., il centralismo democratico), mentre invece si ha dinanzi una filosofia della forma-partito: una filosofia che, posta l'immutabilità della dottrina e del programma, e posta l'azione del partito come oggetto della  t a t t i c a , si incardina sul superamento di ogni processo e meccanismo formale di decisione in ordine all'azione presentando questo superamento come reso possibile dal fatto che le indicazioni tattiche emananti dal centro del partito potrebbero scaturire dalla presa in considerazione di «una "rosa" di possibili mosse [tattiche] già previste in corrispondenza di non meno previste eventualità». La riconduzione (operata a partire dalla dottrina e dall'esperienza storica) di ciascuna delle varie situazioni ipotizzabili ad un modello, ad un t i p o , consentirebbe la definitiva eliminazione di qualsiasi conta delle teste e agirebbe così da barriera nei confronti dell'opportunismo, fatalmente veicolato da tattiche elaborate situazione per situazione.

Si poteva osservare, e all'epoca venne fatto osservare a Bordiga, che la teoria materialistica vede sì nelle idee un riflesso delle cose nel cervello degli uomini, ma non postula affatto che la medesima cosa si rifletta in modo eguale in tutti i cervelli (da cui una sempre possibile disparità tra punti di vista che richiede il funzionamento di un meccanismo convenuto di composizione), e che, l'aborrita conta delle teste potendo avere applicazione in tre ambiti: tra il partito e la società, tra il partito e la propria base, all'interno del centro del partito, restava sempre,  anche ad escludere i due primi ambiti, il problema del processo decisionale all'interno dell'ultimo, per le quali ragioni non poteva considerarsi esente dall'interferenza della soggettività la funzione valutativa della corrispondenza o non-corrispondenza della situazione concreta al tipo. L'obbiezione rimane, ma chi obbiettava dava per scontato che il processo decisionale coinvolgesse più soggetti e non poneva mente al fatto che per Bordiga il centro poteva, in date condizioni, essere rappresentato anche da un solo soggetto individuale. La continua tensione antindividualitaria di Bordiga, la sua ininterrotta cura di spersonalizzazione ― cose che in lui stavano alla base della pratica dell'anonimato e che nei suoi discepoli si spingono, peraltro non senza che l'esempio sia venuto da lui, non solo all'anonimato nello scrivere di storia, ma alla sistematica identificazione come «borghese» di ogni lavoro sulla Sinistra che si attenga ai canoni più largamente accolti nella ricerca storica  ― possono avere una delle loro radici in qualche suggestione esercitata sul giovane napoletano da certo positivismo storiografico fortemente critico in ordine alla rilevanza da ascrivere al ruolo individuale (in definitiva, della formazione culturale di lui si sa ben poco), ma è del tutto plausibile che a renderle imperative sia intervenuta l'esigenza di assicurare carattere di impersonalità al centro. In ultima analisi, l'assunto di fondo è che la funzione del centro sia eminentemente impersonale in quanto le direttive possibili sono già immutabilmente stabilite, e ciascuna situazione ne comporta, fondamentalmente, una e una sola. Si sa già tutto ciò che occorre sapere. Qualsiasi interferenza personale, soggettiva, può soltanto riuscire deleteria. «I grandi uomini sono più dannosi che utili» (è una frase di Bordiga che appartiene al ricordo di chi ha avuto la fortuna di conoscerlo di persona).

Il centro può, a rigore, essere costituito da più soggetti o da uno solo. Ma la mancanza di meccanismi decisionali di composizione e, su un piano diverso, l'investitura da parte di Bordiga di un proprio  successore, e non la nomina, sempre esclusa, di un organismo collegiale, nella guida del gruppo programmista sono circostanze che non lasciano spazio a dubbi circa le sue vedute al riguardo, anche se non mancano elementi che testimoniano di un Bordiga incline a subordinare un eventuale allargamento del centro ad un accrescimento quantitativo del gruppo stesso, ferma peraltro restando l'esclusione della conta delle teste: il che implica una suddivisione di ordine tecnico, non una collegialità decisionale (cfr. lettera di Bordiga a B. Bibbi, 8 apr. 1961, in Saggioro, op. cit., p. 224).

Che il partito possa, date certe condizioni, essere guidato da un solo soggetto che concentri nelle proprie mani tutti i poteri non è un fatto che necessariamente presupponga l'adozione del centralismo organico, talché già da parte di Lenin si era avuto il riconoscimento che la dittatura del proletariato potesse venire rappresentata ed esercitata anche da un singolo posto al vertice dell'apparato statale creato dalla rivoluzione. Ma l'esclusione di meccanismi consultivi e decisionali permette di comprendere come in Bordiga la concentrazione del potere in un singolo soggetto doveva prospettarsi come soluzione  n o r m a l e  dei problemi di direzione politica (compito di questo soggetto ― anonimo: «la rivoluzione si rialzerà tremenda, ma anonima» ― essendo in definitiva, lo sappiamo, quello di operare la riconduzione delle «eventualità» tipizzate in modelli ad «una "rosa" di possibili mosse [tattiche]»), laddove in Lenin l'ipotesi della concentrazione del potere in un solo soggetto individuale si configurava come un astratto caso-limite. Soluzione normale, si è detto, giacché, per un verso, non sempre il partito può disporre del soggetto che sia idoneo alla funzione di  c a p o ; per un altro verso, l'emersione del soggetto idoneo a tale funzione è vincolata ad un insieme di condizioni ― oltre che naturali ― storiche, sociali e politiche l'assenza delle quali ultime è tratto peculiare delle epoche di controrivoluzione. Comunque si voglia considerare la riconduzione delle «eventualità» alla «"rosa"», questa, si potrebbe dire, prontuarizzazione, che dovrebbe chiudere la strada a qualsivoglia innovazione rispetto alla dottrina, al programma e alla altrettanto immutabile tattica, corrispondeva in Bordiga ad un atteggiamento di cautela consapevole del fatto che l'essenziale consisteva nel limitare gli errori, l'innovazione in materia tattica rappresentando per lui, lo si è detto, la via regia del tralignamento opportunistico; ma al tempo stesso corrispondeva all'esigenza che la direzione monocratica del gruppo (del partito) possa, al bisogno (vale a dire mancando il soggetto particolarmente idoneo), venire affidata a persona la cui dotazione di capacità non oltrepassi una misura normale. ― Ma che prezzo si paga per tutto questo? Il punto è se l'ambiente posto in essere da un'entità organizzata nella quale si impara, magari si studia, e magari si svolgono verso l'esterno certi compiti di ordine pratico (ad es., la diffusione della stampa), ma dove non si dibatte, non si discute alcunché; se l'ambiente nel quale la conoscenza dei testi classici è, sì, sollecitata e promossa, ma è soggetta ad un filtraggio non dichiarato, e magari perfino inconsapevole (stante l'assunto che questa entità organizzata ― «il partito» ― parla [parlerebbe] il marxismo a quel modo che, secondo l'ideologia giuridica borghese, lo Stato parla il diritto), filtraggio che finisce, in un certo senso, per limitare la comprensione di essi; se l'ambiente che n o n   f a  p o l i t i c a  nel senso usuale dell'espressione non finisca per risultare politicamente incapacitante. E il senso critico, di ciò si può essere certi, ne è la prima vittima. Rimani dentro, e prima o poi la tua condizione diventerà quella di quei tali di cui parla da qualche parte Diderot, gente che porta una benda sugli occhi ed è convinta che, stringendola, vedrà meglio. Vivo ancora, ma definitivamente fuori gioco, Bordiga, lo sbarco sulla luna ― se ebbe luogo; ma allora nessuno pareva dubitarne ― sembrava smentire diametralmente la previsione che mai all'uomo sarebbe stato consentito di uscire durevolmente dal campo gravitazionale terrestre, conclusione già presentata come coerente alla filosofia che supporta il materialismo storico; e nessuno, alla lettera, aveva aperto bocca: il che ― è anche autocriticamente che lo diciamo ― dà la misura  oltre che del senso critico, della reattività di un elemento umano cui, pure, si insegnava (ed era insegnamento in sé giustissimo) che, in quanto partito, era chiamato ad un compito essenziale. Riprendiamo il filo del discorso.

Il criterio che vale per il soggetto individuale sul quale cade la scelta formale (parliamo della investitura) ― sempre che scelta formale vi sia, e non vi sia, invece, un'emersione del capo davvero organica, cioè supportata da tale una serie di  e v i d e n z e  da far apparire chiaro che, se scelta formale dovesse mai esservi, non potrebbe cadere su altri che non fosse il soggetto emergente ― è quello stesso che a suo tempo ha operato, o si presume abbia operato, su chi effettua la scelta, anche se nel caso del  c h i  una scelta formale non vi sia stata: entrambi i soggetti sono venuti fuori da una sorta di selezione naturale  che "premia" in base ad un'esperienza la quale può inscriversi soltanto nel tessuto organico dell'attività di partito. Di fatto, il criterio cui Bordiga si attenne quando monocraticamente indicò il proprio successore come guida, fu il possesso di qualità collaudate in un percorso di molti anni durante i quali la persona indicata aveva funto da coordinatore generale della microformazione (il cosiddetto c.u., cioè il commissario unico... della nazionale di calcio: Bordiga era un appassionato di sport, ma non è difficile capire che l'acronimo, con sorridente malizia riferito ad una, diciamo, autorità del partito, rispondeva al suo gusto in quanto giocosamente evocativo di un lemma che non occorre precisare).

Egli ha spesso ripetuto che il marxismo non è suscettibile di «arricchimento» ma che lo è di sviluppo. Non di arricchimento in quanto è dottrina del tutto autosufficiente per ciò che concerne il suo patrimonio concettuale, il che comporta che essa non abbia alcun bisogno di quegli innesti eterogenei che in passato sono stati presentati come tali da arricchirla. Di sviluppo, in quanto essa rimane se stessa se si amplia l'ambito della sua normatività incorporandole lo svolgimento di spunti o presenti, ma non svolti (o, per una ragione o per l'altra, non sufficientemente svolti), nella sua firma originaria, o logicamente (dialetticamente) impliciti negli enunciati dei fondatori. Ci domandiamo, ma rinunciamo a rispondere qui e ora al quesito, se lo sviluppo non abbia a volte incluso anche la  r e t t i f i c a  di aspetti del pensiero dei maestri considerati, giusto o sbagliato che questo fosse, erronei. La questione è di una delicatezza estrema e investe tutto il ripensamento del marxismo da parte di quanti lo hanno nel '900 ripensato in base ad un presupposto di ortodossia programmatica. Per quel che concerne Bordiga, si constata, ad es., che, a proposito dell'esistenza di una funzione amministrativa nel socialismo compiuto, tra lui ed Engels si coglie una dissonanza totale.  ― Torniamo al nostro tema. Non riesce facile comprendere di quali spunti significativi presenti nella dottrina originaria possa essere necessario svolgimento la teoria del centralismo organico. E' immanente al marxismo la critica della democrazia come ideologia e come istituzione dell'ordine politico borghese, ma questa constatazione è lungi dall'esaurire il tema  dell'atteggiamento marx-engelsiano nei confronti della democrazia al di là, ma anche, lo si noti bene, al di qua dello spartiacque rappresentato dal 1871: il che non vuol dire, beninteso, che quell'atteggiamento sia riproponibile tale e quale oggi, ma che perfino oggi è indispensabile essere ben vigili in ordine a ciò che è deducibile e a ciò che invece non lo è dal fatto incontestabile della realtà storica di quello spartiacque epocale. (Per fare un esempio in materia di strategia e di tattica circa l'al di qua, si pensi al discorso tenuto da Marx ad Amsterdam nel 1872, nel quale egli, parlando ad un pubblico operaio, affermava che negli Stati Uniti, in Inghilterra e forse anche in Olanda esisteva la possibilità che i lavoratori conseguissero «i loro scopi con mezzi pacifici», cioè grazie  al semplice fatto del  p o s s e s s o  della forza organizzata; e si badi che, se negli Stati Uniti vigeva la democrazia formale, l' Inghilterra e l' Olanda erano rette, all'epoca, da ordinamenti non già democratici, ma semplicemente liberali. Per contro, continuava Marx, «nella maggior parte dei paesi del continente è la forza che deve essere la leva delle nostre rivoluzioni»: e qui, al contrario che per Stati Uniti, Inghilterra e forse Olanda, il riferimento è all'  u s o  della forza.)― Il postulato dell'allineamento della «cosiddetta tattica» (così nel '53) alla dottrina e al programma mediante il conferimento alla medesima del carattere di questione di principio, e dunque di un carattere invariante e vincolante da riconoscere alle «possibili mosse», e non soltanto questo postulato, ma la concezione stessa di un partito in cui non vi sia luogo a meccanismi consultivi e decisionali in quanto, in sostanza, nulla vi sarebbe da decidere, sollevano parecchi problemi. Qui ci limitiamo a formularne uno la cui rilevanza sia storica sia politica ci pare tale  da non ammettere sottovalutazioni.

Ed è questo: se in Bordiga la nozione di  l o t t a   p o l i t i c a , e specialmente questa nozione con il significato di cui in Marx ed Engels essa si caricava in antitesi all'anarchismo, non abbia ricevuto uno  s v i l u p p o   n e g a t i v o , cioè esprimibile mediante il segno matematico di  m e n o , vale a dire un restringimento del suo campo applicativo, un restringimento a monte o a valle del quale sta quel concetto della «cosiddetta tattica» e del partito; restringimento drastico, se si ha presente la distanza che separa i contenuti della lotta politica quali i maestri la preconizzavano in opposizione al bakuninismo dai contenuti che in ambito programmista si ascrivevano alla formula quando essa veniva illustrata allegando la natura politica sia della lotta rivoluzionaria per la conquista del potere sia dell'esercizio della dittatura di classe ad opera del partito. Nessuno, speriamo sia chiaro, dubita della natura politica dell'una e dell'altra cosa. La questione, però, è se questo restringimento, che fa coincidere la lotta politica con i momenti culminanti del processo rivoluzionario (tanto che, fatte salve le debite differenze, la formula così ristretta risulterebbe, in parte se non tutta, accettabile anche a chi professi il convincimento che la vecchia CNT spagnola compendiava nel motto secondo cui la politica no interesa a los trabajadores), sia davvero da addebitare  t u t t o  alle condizioni obiettive connesse allo storico mutamento di fase segnato dal passaggio all'imperialismo, con quanto di mortifero ne è seguito (compresa la eliminazione del partito dalla scena), o non sia, invece,  a n c h e da mettere in conto ad una linea di pensiero la cui logica interna non poteva non portare ai punti di approdo che si rispecchiano in quel restringimento.

 

Marzo 2011

c. sal.