Una merenda del cappellaio matto
Il 15-16 giugno 1996 si tenne a Bologna (Sala Polivalente, via dello Scalo 21), a cura del «Nucleo informale Potlatch» e del «Dipartimento di Filosofia e Politica dell'Istituto Universitario Orientale di Napoli» un Incontro di studio su Amadeo Bordiga.
Nel 1999, a cura di Luigi Cortesi apparve il volume «Amadeo Bordiga nella storia del comunismo» (Napoli, E.S.I., 1999) che raccolse la maggior parte degli interventi (non tutti però, come precisò il curatore e con in più un saggio di Alexander Höbel che non era presente a quelle giornate); non trovarono posto nel volume, ad esempio, gli interventi di Domenico Ferla e di Jacques Camatte.
Durante quelle due intense giornate girò tra i convenuti al convegno un ironico e simpatico scritto ««Una merenda del cappellaio matto» che oggi ripresentiamo e mettiamo a disposizione dei lettori.
Una merenda del cappellaio matto
di Diego Gabutti e Paolo Pianarosa
S’inquietino pure i volatori frementi, che riportiamo frigidamente terra terra alla modesta altezza cui è dato a noi di levarci, a noi cui è vietato ogni eroismo e ogni romanzo, che ci atteniamo all’ironia al posto del lirismo e ci vediamo costretti a richiamare ogni tanto i troppo focosi: non fate i Fetonti!
Amadeo Bordiga, «Il marxismo dei cacagli»
Senza offesa, ma Bordiga, quanto a gusto, in letteratura doveva essere una bestia. Diceva d’apprezzare Anatole France, per esempio, e c’è da scommettere che, per quanto gli piacesse scherzare, in questo caso, ahinoi, stesse dicendo sul serio. Che cosa ci trovasse non si sa. Qualche volta citò Dante, per esempio nelle epigrafi e nei titoli degli articoli sull’«imbroglio lunare», forse il suo miglior romanzo (perché erano romanzi quelli che scriveva, con tanto d’intreccio e fior di personaggi, benché lui se ne chiamasse fuori, da quello snob che in fondo era). E magari avrà citato qua e là anche qualche altro poeta di panza e di rispetto, diciamo Shakespeare oppure Goethe, ma sempre senza impegno, così per fare, da scolarizzato, o perché li aveva citati, garantendo per loro, il vecchio e infallibile Marx prima di lui. Perché Bordiga, sia chiaro, era un uomo astuto, una testa fina e molto dura, anzi durissima, nonché un pensatore in proprio, qualunque cosa dicesse di se stesso, quando per esempio si qualificava «ripetitore» della «dottrina invariante» della quale era in realtà piuttosto il Narratore proustiano o un bizzoso Monsieur de Staal, ma come tutti aveva le sue debolezze, le sue cicatrici, e comprò da Marx più di un’automobile usata.
Oltre che una bestia, e sempre parlandone sub specie gusti letterari, Bordiga è anche un mistero. Aveva almeno letto «i russi», come si diceva ai tempi suoi? Conosceva Cervantes? E Bram Stoker? E Flaubert? Con Leopardi in che rapporti era? E con Victor Hugo? Con Zola? Con Marinetti? Gli piaceva l’ Inno a Satana di Carducci? Aveva in biblioteca Walter Scott? E il Lucifero di Rapisardi? Come vedeva Fantomas? E Nick Carter? Rocambole? Avrà letto Dickens e Nietzsche, Gregorovius, Jules Verne, Ireneo di Lione e Mark Twain? Comprò qualche volta "Il Corriere dei Piccoli"? Non se ne sa niente. Mistero. Almeno si facesse avanti qualcuno che ha visto con i propri occhi la libreria di Bordiga prima che tutti quegli appetitosi scaffali sfarinassero nel mito e nelle bancarelle di libri usati. (Ettore Barelli, preside di liceo nella Milano degli anni settanta e amicone del nostro, le cui note citiamo per intero più avanti, è un memorialista benemerito del Bordiga in pantofole, e del resto non c’è altro Bordiga che questo, ma purtroppo trascura d’entrare in particolari libreschi, quasi contassero poco, e invece contano assai, almeno per i bibliomani, tra i quali il nostro va senz’altro rubricato, se non altro a naso). Ci piacerebbe sapere se l’autore di Fantasime carlailiane e di Politique d’abord, di Marxismo dei cacagli e di Superuomo ammosciati, ha per lo meno ascoltato uno dei rari consigli giusti e assennati che Marx si è degnato di tramandare ai discepoli? Lesse, vogliamo dire, il grande Balzac?
Proprio a Balzac, sia detto di passaggio, si mormora (anzi, è Rubel a mormorarlo, se ricordiamo bene) che il padre fondatore, stanco d’economia politica e di pseudoscienze, avrebbe volentieri dedicato un signor libro, che sarebbe stato alla sua opera come, nel Nome della Rosa, la Commedia (o cos’era) stava all’opera d’Aristotele: la faccia dionisiaca e caotica — infine — la faccia dispari e guercia della rivendicazione sociale famosa, non per sua natura ma per miseria ludica dei suoi profeti sempre luttuosa e solenne, sempre animalescamente votata all’ordinamento del mondo in chiave d’utopia (come se il mondo non fosse una chiavica d’utopia già così com’è, al naturale). Peccato che il libro su Balzac, un capitolo qui e un capitolato là, abbia finito per scriverlo Lukacs, faccia fresca e battilocchio, antitesi vivente (se quella è vita) d’ogni esperienza estetica, quando invece era proprio l’esperienza estetica a sostenere come un uovo sbattuto l’opera di Marx, al punto che ormai nient’altro la sostiene, qualunque cosa ne raccontino gli specialisti di marxismo residui e redivivi, spettegolando e impillolandosi tra loro. E che sostiene, oltre gli stridori delle previsioni storiche sballate, oltre le imbarazzanti belinate economicopolitiche, anche l’opera di Bordiga. Che però, probabilmente, lesse Lukacs ma non Balzac, indignandosi col primo quando avrebbe potuto, molto più volpinamente, divertirsi col secondo. Forse l’aveva letto, del resto, ma non gli andava di parlarne. Perché Bordiga, pur scrivendo alla disperata e senza mai interompersi, neanche per prendere fiato, pur scaricando nei saggi e negli articoli tutto quello che gli passava per la testa, era nondimeno abbottonatissimo. Un muro, una Sfinge.
Altri indizi, per quel che valgono. Bordiga scrisse per «Prometeo», nei primi anni venti, un lungo saggio sull’impresa fiumana di D’Annunzio e soci, simpatizzando alla sua maniera ruvida e rugosa con quella tempesta sociale nel bicchiere d’acqua del nazionalismo, una rissa presessantottesca che suonò passatista per metà e per metà futurista, ma non crediamo abbia mai letto un solo verso di D’Annunzio, e per quanto ci riguarda fece bene, benissimo, niente da dire. Ma siamo sempre lì. Allora che cosa leggeva? Come ammazzava il tempo? Si sa che almeno una volta lesse «un giornale italiano per ragazzi», forse «Il Vittorioso» o «L’intrepido», magari «Il monello». Probabilmente saltò i fumetti, e se aveva saltato Gabriele D’Annunzio poeta poteva ben saltare anche quelli, ma lesse senz’altro una rubrica di notizie curiose che appariva su questo giornaletto e da tal rubrica ricavò un articolo famoso, titolo «A Janitzio la morte non fa paura», una cosa a metà tra la Profezia di Celestino e la descrizione in negativo del comunismo, la sola che non sia colpita da tabù. Indovinò una traccia di comunismo primitivo nel costume di certe «nobilissime popolazioni messicane», che non avrebbero avuto «terrore né orrore della morte», loro beate. (Solo Bordiga, va da sé, poteva credere a una notizia così insensata e bislacca, per di più letta sull’«Intrepido» o sul «Monello», e poi ricamarci sopra per buon peso anche una teoria piramidale, che ancora incanta i seguaci). S’innalzò nell’aria, Bordiga, come una mongolfiera in fuga dal principio di realtà e declamò che «non per retorica bolsa e demagogica, ma per possente semplicità d’una vita che è della specie e per la specie, eterna come natura e non come sciocco sciame d’anime vaganti negli estramondi, per la quale, e per il suo sviluppo, valgono le esperienze dei morti, dei vivi e dei non nati in una serie storica il cui avvicendarsi non è lutto, ma gioia in tutti i momenti del ciclo materiale». Indiana Jones e Don Juan non avrebbero detto meglio.
C’è qualcosa d’hollywoodiano e di stratosferico, qualcosa del romanzo puro, per chi lo sa apprezzare, in quest’impennata della prosa e della dottrina bordighiana, una gomena di feuilleton alla quale non per caso si sarebbero poi aggrappati molti naufraghi del bordighismo, cercando isole di Gemeinwesen nel deserto dei rapporti sociali e umani, dei libri aridi, delle letture polverose, delle riunioni di partito, di partitiello e di gruppuscolo, universi profondamente alternati e più «estramondani» che mai, però balordi e rintronati. Ma intanto, e daccapo a dodici, siamo sempre al punto di prima e lì restiamo, picchiandoci sopra, oltretutto, il naso onoratissimo. Che cosa leggeva Bordiga? Non soltanto le rubriche del «Monello», speriamo, non solo le pagine economiche dei giornali e Marx, Marx, Marx tre volte all’anno sempre daccapo (cosa che non auguriamo neppure a Mario Tronti, per dire, o ai neoministri della cultura, che se li inculi il diavolo). Ci chiediamo sul serio, magari tra parentesi e di passaggio ma seriamente e con preoccupazione sincera, come cribbio ammazzasse il tempo, Amadeo Bordiga, e come occupasse le sue giornate, visto e considerato che, da come la vedeva lui, la quaresima tra una «fase rivoluzionaria» e l’altra sarebbe stata lunga, lunghissima, interminabile più di qualsiasi cura, viaggiando dal 1926 minimo minimo fino al remoto 1975, data che lui fissò, peccando di quello che con un eufemismo si potrebbe forse chiamare ottimismo, dopo essersi fatti due conti da cabbalista. Far di conto — «è permesso? siam cifrette» — gli piacque sempre assai.
Qualcuno sussurra che leggesse Edgar Wallace e forse pure Agatha Christie. Sarebbe bello, certamente, e se non bello almeno significativo, almeno utile e istruttivo, ma noi qui dubitiamo, se permettete, anche di questo. Come dubitiamo che Bordiga abbia mai letto Gadda o accordato un’attenzione anche soltanto vaga e sbadigliante al nome del gran lombardo (cui risparmiamo qui le maiuscole in omaggio proprio a Bordiga, il quale maiuscolava sempre poco volentieri, un minuscolista convinto persino quando gli toccava nominare invano la «dittatura del proletariato», mettiamo, o la «necessità storica). Eppure i due, Gadda e Bordiga si somigliavano. Erano fratelli, se non altro di penna, due teste matte e irriducibili. Erano entrambi ingegneri, rivoluzionari entrambi, entrambi fanaticamente votati alla sovversione del linguaggio, al selvaggio e idiosincratico kung fu della scrittura, sciammannati umoristi, neologisti famosi e barocchi tutt’e due. Un drink insieme, conoscendosi, l’avrebbero preso certamente volentieri.
Bordiga stava in mezo a la gente tanto che zogavimo al waterpolo al mare e vigniva a zogar anche lui ne la squadra de waterpolo. Iera un colosso, un toco de mato cussì! Ghe montavo de sora per butarlo soto: no’ so mai riussì a butarlo soto aqua, dio can! No’ so come ch’el fazeva: mi digo che el gaveva baloni de aria de soto. Digo: «Non son mai riussì a butarte soto…» «E non mi butterai mai!» diseva.
Umberto Tommasini, «L’anarchico triestino»
Probabilmente gli studi d’ingegneria avevano qualcosa a che fare col loro fervido sbullonare e riavvitare gl’ingranaggi del linguaggio. Bordiga e Gadda — sempre loro — avevano una porca e insopprimibile passionaccia per lo smontaggio di questo particolare giocattolo. Aveva tutta l’aria, poco ma sicuro, d’una mezza deformazione professionale, questo loro sistematico sabotaggio della comunicazione tradizionale, del parlar facile, rassicurante pacifico e lineare, che va dall’«a» alla «zeta» dritto sparato, senza nemmeno una sosta all’autogrill per una brioche, un capuccino. Ma più che altro doveva essere qualcosa nell’aria.
Agli scrittori di rango, evidentemente, dev’essere capitato a un certo momento di dover mettere sul bianco delle pagine un nero particolarmente ostico, particolarmente viscido e scivoloso. Non tanto per la sua «inafferrabilità», qualità del tutto ideologica e presunta, in lungo e in largo degna dei cattivi letterati che continuano a spupazzarsela ignari del bi e del ba, quanto per il tanfo proprio di letteratura marcia, di letteratura imputridita e cadaverica, che il mondo, nell’epoca dei totalitarismi, pericolosamente tossici e niente affatto degradabili, aveva cominciato a spandere nell’aria del ventesimo secolo, cloaca massima della storia (almeno finora, finché regge il record).
Alziamo un attimo il naso dai libri e diciamo per una volta le cose come stanno. Cioé come le abbiamo viste a annusate. Ammettiamo dunque che non c’era altro che letteratura — «via, andiamo, siamo sinceri» — ammettiamo che c’era soltanto letteratura e basta dietro Hitler e Stalin (per dire i due massimi pezzi da novanta, o più bordighianamente «cazzaccioni», del secolo presente): fantasy reazionaria e tradizionalista dietro il baffetto satanista del primo, science fiction utopistica e pseudoscientista dietro il baffone socialista del secondo. E non c’è altro che letteratura, se è per questo, dietro ogni altro evento «rilevante» di questo secolo, dalle rivoluzioni culturali degli anni sessanta su su su fino alle demagogie ecologiste, ai neoliberismi da tavolino a tre gambe, ai sinistrismi da trauma post-sovietico e alla manifestazione suprema, va da sè, della moderna utopia letteraria: la teoria del complotto, l’histoire che si fa fiction, un genere intrattenitorio che se non spiega la politica spiega almeno i politicizzati. Bordiga, ancora tra parentesi e per i collezionisti, fu tra le altre cose anche un precursore del complottismo, cioè del leggendario metropolitano e del romanzo applicato, come un cerotto nicotinico, alla vita quotidiana.
Con largo anticipo su Capricorn One — un film degli anni settanta nel quale s’immagina che uno sbarco d’astronauti americani su Marte sia in realtà realizzato all’interno d’uno studio cinematografico per incantare e sodomizzare le masse — già alla fine degli anni cinquanta, con i primissimi sputnik, Bordiga s’avventurò in questo luna park d’intrighi scientificotecnologici à la X-File negando e stranegando, con calcoli ingegneristici di fronte ai quali c’inchiniamo ignari e contenti d’esserlo, che un «proietto» qualunque — per quanto forte e lontano lo si voglia sparare — possa seriamente e lecitamente sfuggire alla «terrestre gravità», che a irresistibile e inamovibile ma soprattutto impagabile giudizio di Bordiga ci tiene molto ma molto saggiamente al guinzaglio, da quei botolacci azzannapostini che non siamo altro. Erano «cifre e cifrette» oggettive e senz’appello, da come la raccontava lui, il fantascientista recidivo e svergognato. Ma poi gli scappò detta anche la morale di questa favola bella. Temeva, scrisse, che dopo le note vicende terrestri, sempre a suo modo di vedere già abbastanza trucide e infami, gli umani s’apprestassero a «impestare» e spulzellare da una parola in su «pure lo spazio cosmico», ancora vergine e inviolato. E ciò con grave scandalo degli alieni sui loro piatti volanti, ci figuriamo noi, e col dubbio risultato, inoltre, di farci conoscere all’estero, tra gli «estramondani» che popolano le spaziovie (non si sa se temendo la morte oppure giubilando, a ogni dipartenza e funerale d’Ufo, per il gaio perpetuarsi della «serie storica» di specie).
Bordiga, il quale credeva nella letteratura come credeva nella matematica, ciecamente cioé e fino in fondo, era in questo un uomo del suo tempo: non gli bastava che una cosa fosse bella e divertente, cosa di cui noi largamente e bellamente ci accontentiamo, ma pretendeva che fosse bella in quanto vera. Avesse letto, mettiamo, gli Albi di Topolino, e si fosse poniamo appassionato alle avventure del Commissario Basettoni, Bordiga avrebbe voluto fare esistere Topolinia: il suo comunismo, come tutto il comunismo del tempo suo, era fatto di questa materia, la stessa di cui sono fatti i sogni, materia sugosa finché si vuole, ma ectoplasma letterario puro. Vero che Bordiga, a differenza degli attivisti invasati contro i quali operò finché ebbe fiato, era dell’idea di prendersela comoda, di lasciar fare al «movimento reale» (o «irreale», per dir meglio, che fosse). Ma c’è insomma una mezza possibilità e di sicuro l’intenzione intera d’una traiettoria da «Protocolli dei Savi Anziani di Sion» anche dietro la più sobria e compassata delle dottrine. E non c’è bisogno di Philip K. Dick o di Oliver Stone (dicesi a caso) per immaginare e raffigurarsi un mondo in cui i fans di Batman o dell’Uomo Ragno prendono le armi per dare l’assalto al cielo nel nome diciamo dell’anticrimine in maschera.
Sono state le allegre utopie dei letterati buoni e cattivi e così così — i romanzieri involontari della Tradizione da restaurare come i maestri di feuilleton dell’inarrestabile marcia del Progresso — a trasformare la prima metà del secolo (e oltre, ben oltre) in una mostruosa Merenda del Cappellaio Matto. Bordiga partecipò come tutti alla festa. Niente di male: è così che sono sempre andate le cose, almeno finora. Proprio le sofisticate architetture metafisiche dei filosofi e degl’ingegneri sociali, che onorano le biblioteche con la loro indubbia eleganza formale intellettuale, hanno selvaggiamente marocchinato le anime e le nazioni.
E ancora insistono, per la cronaca. Ancora ci provano, pur perdendo i tocchi, il naso, una mano, per lo stato d’avanzata decomposizione in cui versano, come zombies che si levano, quali martiri nostri, dalle tombe e dai tumuli del tempo che non passa mai. Era già accaduto, naturalmente. Evangelisti e teologi e rompicoglioni di tutte le risme hanno messo a ferro e fuoco il mondo già innumerevoli volte e possiamo scommettere tranquillamente un caffé che altre innumerevoli rovine si preparano. Ma mai era capitato che le favolette dei profeti, gli assoluti dei filosofi e degli scienziati, gli abracadabra dei politici e degli altri spacciatori d’elisir avessero operato così rapidamente e su una scala così vasta, per di più godendo d’un tale consenso da parte dei bevitori di balle, mai così cornuti e contenti come sotto le stelle della supercazzola cantilenata fino alla vertigine e all’emicrania dai servizi segreti, dai media e dai minculpop dei moderni (e post) totalitarismi e antitotalitarismi. Non ci si poteva dedicare alla letteratura, dopo Auschwitz e Kolyma, dopo tutti quei Palazzi d’Inverno e quelle ricadute di fallout atomico, a cuor leggero e con la coscienza tranquilla di chi va per funghi, poniamo, o per librerie antiquarie. Forse proprio le avventure e gli azzardi della scrittura, altrettante barbe graffite sulla Gioconda delle interpretazioni scientifiche e sentimentali del mondo, testimoniano che gli scrittori erano sotto shock e che ogni loro pretesa d’innocenza — per chi ancora si guadagnava il pane così, con una sveglia al collo e l’anello al naso, quando sarebbe stato molto più onesto rubare — era invecchiata e morta. Per lo più gli scrittori continuarono a far danni, naturalmente, com’è loro inveterato costume, e a dividersi i Premi Nobel e i Premi Stalin illustrando e preparando nuove ideologie del disastro, altre pappe di gesso da masticare ai cocktail parties dell’inumanesimo. Ma alcuni di loro uscirono dal gioco del terrorismo culturale attraverso la porta di sicurezza del discorso celibe. Si vietarono puramente e semplicemente ogni proposito. Fuori e lontano.
Bordiga, lui, mentre intorno infuriava l’agit-prop delle ideologie malamente sopravvissute alla seconda guerra mondiale, liberalismi blindati e marxismi variamente esoterici, denunciò ogni forma di proselitismo e, al posto del partito politico formale, che avrebbe dovuto guidare alla vittoria il coso… sì, il proletariato, raccontò l’assurda ma simpatica fiaba del partito storico, manipolo di contemplatori pazienti, zitti e mosca, saggi e tranquilli cultori dell’apocalisse per finta, conservatori del museo rivoluzionario. Ripiegò, insomma, e fece benone, un classico, in una sorta di Club delle Giovani Marmotte, una penombra rinfrescata dalle pale d’un ventilatore silenzioso fissato al soffitto, un universo parallelo e pacificato, esente da tasse praticistiche e da gabelle storiche, immobile e invariante, il ciberspazio di chi non fa e dunque non falla.
Parrebbe, raccontato e romanzato così, che il partito storico coincida con lo spirito di setta e di racket politico o, peggio ancora, Dio ci scampi, con la torre d’avorio famosa, quella dove villeggerebbero i letterati, impipandosi secondo copione banalista delle disgrazie del mondo, e invece no, è vero il contrario. Non c’è mai stata setta, per cominciare, che non abbia pazziato per raggiungere la popolarità e per uscire trionfalmente dallo stato minoritario agitando bandiere e triccheballacche. Lenin, per questo, non ha esitato a mangiarsi vivi, un boccone e via, popoli interi. Oppure pensiamo a quella sagoma di Pol Pot e agli occultisti che hanno trasformato il «segreto esoterico» d’antan nella mostruosa vasca da bagno del New Age in cui fare tutt’insieme il bagno nudi. Idem la letteratura, almeno la letteratura dei letterati, che non è affatto separatezza ma azione, azione pura e feroce: la torre d’avorio dei letterati, lungi dall’essere il rifugio dei saggi o il Grand Hotel dell’Abisso nel quale si dice dimorasse Adorno, è sempre stato al contrario il palazzo degli stati maggiori che guidano e coglionano gli eserciti. Somari, in tarda gioventù, noialtri a dubitarne.
Ma non Bordiga, Bordiga no: l’orgoglioso settarismo di Bordiga persona era cosa assai diversa dalle miserie e dalle piccinerie della setta bordighista organica e organizzata. Così come l’antiletteratura di Bordiga in carne e ossa, seduto in pompa magna alla macchina da scrivere (e scodellante pagine che noi ancora leggiamo e rileggiamo facendoci buon sangue e senza mai stancarci, e ciò avrà pure un suo perché) era cosa a sua volta ben diversa dalle pappe insipide cucinate al ciclostile dagli epigoni. Erano, l’uno settarismo e l’altra antiletteratura, l’esatta antitesi d’ogni spettacolo, hic sunt aria pura e silenzio, relax, niente sull’orizzonte fin dove arriva lo sguardo.
Alcuni anni fa, tre quattr’anni prima che morisse, ero a Napoli in casa d’Amadeo Bordiga. Abitava in fondo a corso Garibaldi, quasi sul porto, all’ultimo piano d’un vecchio palazzone, incoronato in cima da una lunga e stretta terrazza che girava intorno al fabbricato. Una terrazza impagabile, dalla quale la vista abbracciava tutto il golfo e le isole, dal Vesuvio a Posillipo. E dietro, il forte di San Martino, Capodimonte, il Vomero e le case degradanti della città, spacciata dalle lunghe fenditure dell’antico reticolo romano. Il porto si stendeva sotto gli occhi, che pareva toccarlo con le mani; se ne vedevano entrare e uscire i piroscafi, le motonavi, gli aliscafi, con le lunghe scie oltre le dighe foranee verso l’ombra di Capri. Dal fondo della strada brontolava il rumore di Napoli; dalla vicina stazione della circumvesuviana spillava a sera una continua fiumana di gente che s’apriva al passaggio degli autobus e si richiudeva subito dopo come una corrente di sangue traversata da un globulo verde; e io ogni volta mi sorprendevo a cercare dietro i loro i corpi spappolati dei passanti. Bordiga era in una delle stanze aperte su quel terrazzo. Sedeva dietro un grande tavolo di legno grezzo posato su cavalletti, pieno di libri e di giornali polverosi, sui quali viveva immobile un meraviglioso gatto persiano chiuso dentro la sua pelliccia. Oppure stava ricurvo, la grossa testa bovina incassata tra le spalle pesanti, seduto a un tavolinetto appoggiato contro la parete, dove batteva su di una vecchia e rumorosa macchina per scrivere gli articoli per il suo foglio settimanale di Milano, l’organo del partito, che il fedelissimo Maffi stampava e diffondeva tra i compagni. Batteva pagine e pagine senza margini e spaziature, con grande rapidità e quasi senza correzioni: un ininterrotto flusso di coscienza politica, centinaia di migliaia di righe, che non firmava mai per principio, perché ostinatamente voleva che apparissero come l’eco collettiva dei suoi, sparsi per l’Italia e per l’Europa. Ma fosse seduto alla scrivania o alla macchina, gli bastava piegare il capo per scorgere, oltre il parapetto della terrazza, l’andirivieni del porto e della rada. Quando uno dei piroscafi o dei translatlantici s’accostava ai semafori delle dighe, si muniva d’un vecchio binocolo per osservare le manovre dei rimorchiatori e godersi il fischio delle loro sirene, che a quell’altezza giungeva distinto e fascinoso al di sopra dei rumori del traffico. Conosceva a memoria gli orari degli arrivi e delle partenze, o si affrettava a controllarli sulla rubrica del «Corriere mercantile»; e non sbagliava un nome. Uomo politico quant’altri mai, alla Platone, costretto dalla sua coerenza a una sdegnosa emarginazione, e dall’età e dalle gambe a restare intere giornate tra quattro pareti, proiettava in questo modo la mente e l’anima a sentire e a vivere la vita della sua città. C’era in tutto questo, ai miei occhi, qualcosa d’infantile. Ma lui ci insisteva. E poiché per lui non capivo nulla di politica, voleva che almeno sentissi l’esigenza di penetrare nel caldo fluire delle cose, di capire come ogni astrazione è follia, se avulsa dal pulsare concreto della vita reale, fatta di minuti e minuti, intrecciata di fatiche, d’ambizioni, d’affari e d’affanni. A sera poi, in quei giorni, attendeva con puntigliosa costanza sulla terrazza dove la moglie allevava in putride stie un branco di galline starnazzanti, l’apparizione del satellite Eco, che seguiva nel suo veloce passaggio sul golfo, luminoso come un astro di prima grandezza. Più tardi ne spiava il passaggio successivo, ne misurava i tempi del moto, ne controllava l’orbita regolandosi sulle costellazioni, che gli erano familiari come la dottrina di Marx. Nonostante la vista debole, era il primo a individuarlo sapendo da quale zona del cielo sarebbe apparso silenzioso e misterioso; e scuoteva la testa, e mormorava: «Un’orbita circolare e fissa: questo è difficile». E me ne spiegava il perché, mentre, con l’interesse di chi dai minimi segni già coglie i grandi sviluppi, vedeva ruotare, insieme con la terra, con lo stesso ritmo di rotazione, i satelliti geostazionari per telecomunicazioni, di cui allora nessuno parlava e di cui io stentavo a intendere l’importanza che egli invece prevedeva rivoluzionaria. Poi rideva soddisfatto e, appassionato com’era di calcio, mi diceva scherzando: «Così per televisione vedremo il Santos giocare».
Ettore Barelli, «Il liceo di Piazza Frattini»
Bordiga, come Gadda, entrambi come Joyce e le avanguardie prima di loro, evasero dunque nello sberleffo e nell’umorismo, ostili fin nella forma alla tirannia del significato, un’antiletteratura che era poi l’ultima trincea del senso, dove si ride fino alle lacrime e le parole, pur conservando il loro peso, non hanno conseguenze tragiche, ciò che fa la differenza, se non altro, tra una barzelletta e un sermone, tra il motto di spirito e lo spiritismo dei matti. Giovannino Guareschi, volendo fare un altro nome di scrittore italiano illustre, era della loro stessa pasta, come pure Achille Campanile, sempre volendo, e Leo Longanesi idem: penne ascetiche e infernali, che non soltanto detestavano l’attualità ma che, meglio ancora, non avevano nulla da proporre per peggiorarla. Stavano lì, il sorriso che gli andava da un orecchio all’altro, per metà spassati e per metà incazzosi, e si godevano lo spettacolo del mondo, indifferenti e appassionati insieme. Penne che pur vietandosi di «prendere posizione», come (direbbe Bordiga) dicono i fessi, non di meno mettevano becco, spulciando la cronaca e la storia, grattando gl’inesausti pruriti dell’attualità.
Ciascuno di loro, chi millantando «punti di vista» e sociologismi, chi facendone senz’altro a meno, ché la vita è già abbastanza breve e muffosa, in realtà aveva in testa soltanto un modello polemico: Longanesi un’Italietta piccolo borghese mai esistita se non nei suoi disegni e nei suoi epigrammi da combattimento, Guareschi un cattolicesimo allucinato che in tempi ordinati l’avrebbe portato dritto dritto davanti ai magistrati d’Anime Pulite, Campanile un’idiosincrasia assoluta verso chiunque respirasse dalla bocca e dal naso, Gadda una sghignazzante finestra di Magritte affacciata su dove chissà e Bordiga, lui, la strabiliante stanza dei giochi degli «ostinati e immobili marxisti». Come la meccanica quantistica, che secondo Roger Penrose magari qualche ragion d’essere ce l’ha ma non per questo va presa sul serio, come se funzionasse davvero, anche questi modelli polemici erano puramente formali, non bandiere ma mutande e sovente mutandoni, indossati a salvataggio di ciò che resta del pudore, per non presentarsi nudi, con le natiche di fuori, il pisello dondolante come un pendolino da rabdomante, sul campo di battaglia della filosofia e della sapienza, dove si credono tutti generali (idem nei manicomi delle barzellette, dove son tutti Napoleone). Alla dogana dei filosofi e dei riformatori — quando la tecnologia faceva i suoi primi miracoli e Beria ancora filava — costoro non avevano mai niente da dichiarare. Bordiga questo nulla da dire in proposito lo chiamava «comunismo».
Un comunismo, per spiegarci, che stava al comunismo propriamente detto, quello «realizzato» dei soddisfatti con poco e quello «tradito» degli scontenti per meno ancora, come l’antimateria alla materia, come l’anoressia all’appetito. Ma era anche un demone, un’idea fissa e divorante. Era un romanzo da leggersi d’un fiato, volando di pagina in pagina senza mai trovare l'ultima. Non si trattava, insomma, di qualcosa da realizzare, pena la barbarie o peggio, per quanto sovente negli articoli del «Programma comunista» il comunismo di Bordiga e più ancora dei bordighisti assumesse, un po' per vizio e un po' per non morir, anche la forma particolarmente squallida e oscena, del programma eternamente in cartellone al supercinema della storia. Questi appuntamenti col destino che a mancarli guai, non ci sono mai stati, naturalmente, esattamente come non ci sono mai stati neppure i vecchi tempi, almeno secondo il pistolero Jack Beauregard in «il mio nome è nessuno», e queste sono cose su cui i pistoleros e i pistola dei film western la sanno lunga.
Eppure — lue del comunismo e inevitabilmente anche del bordighismo, se ci passate un’espressione che Bordiga, potendo, non ci passerebbe mai — la banalità della meta da raggiungere, del tre volte mirabile traguardo da tagliare o, peggio che andar di notte, della «comunità umana» da vincere alla lotteria della storia, ché Dio lo vuole e per questo ci dà i numeri in sogno, quando non addirittura della lussuria metafisica da «costruire» col meccano o col Lego o col pongo delle teorie radicali, affiorano continuamente nelle pagine di Bordiga, pur mirabili per scrittura e umorismo, geniali per inanellamento dei concetti e triplo salto mortale del linguaggio, nonché uniche e sole, nella terra desolata della sinistra classista, per autonomia intellettuale e genialità dell’intreccio. Ma tant’è. Marx e il marxismo, bottegai puntuti, non hanno mai fatto sconti a nessuno. Quello il Verbo e così devi cianciare.
Fortuna per lui che, con piena evidenza, Bordiga era nato distruttore, non cercatore ma liquidatore degli assoluti. Così come, secondo Bordiga, c’è un modo di leggere i libri che somiglia al gesto con cui lo scassinatore sfoglia i pacchi di biglietti da mille, c’è anche un modo di leggere l’attualità e la storia che ricorda gli atti dei sabotatori. Bordiga, quando ricostruiva la storia del comunismo moderno, dalla rivoluzione d’ottobre in avanti, lavorando d’aneddoti e d’iperboli, agiva da letterato e da dinamitardo. S’era da sè assegnato un compito: conservare la memoria teorica del proletariato contro gl’inquinamenti degl’innovatori, dei battilocchi mai sazi, sperimentatori inesausti d’assoluti sempre nuovi. Chiamava tutto ciò «invarianza», ma era un concetto, di nuovo, assai simile al «comunismo» di cui sopra: non una protesta a capocchia contro la modernità, una sorta d’evolismo ultrasinistro, né tantomeno un altro assoluto da lanciare sul mercato delle idee minoritarie, ma ancora e sempre un modello polemico, debitamente astratto e ringhioso. C’è anche da dire, del resto, che le ripetute fughe dall’«invarianza» bordighista, gli scatti camattiani verso la «comunità» o le variazioni attivisticche della sinistra comunista affascinata in primis dagl’inquacchii tra gli estremisti collaudati della domenica postresistenziale e subito dopo, in secundis, dai mistici sconquassi culturalsituazionisti dei movimenti studenteschi, non erano tradimenti della dottrina bordighiana, ma suoi figli bastardi e forse addirittura legittimi, per quanto — è vero — poco somiglianti.
C’era più «varianza» che «invarianza», dopotutto, nel grande romanzo bordighista, qualunque cosa ne dicesse lui. Questi salti e queste fughe stavano cioé alla grande letteratura bordighista come i colpi di scena e le sorprese finali stanno ai romanzi d’avventura. Bordiga Amadeo tesseva questa «trama possente» — dramma per metà e per metà commedia, nell’intero una farsa — con l’ago e il filo d’una prosa superba e ineguagliabile. Ma questa, a pensarci, l’abbiamo già detta. Così, per chiudere, ne diciamo un’altra: non era uno stile letterario, quello di Bordiga, ma uno stile di vita, il precipitato chimico e alchemico d’una specialissima esperienza umana, quella del superletterato che si vieta le derive praticistiche, e, in soldoni, dell’ambasciatore che non porta pena.