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archivio > Saggi e inediti>Una merenda del cappellaio matto (Diego Gabutti e Paolo Pianarosa)

aggiornato al: 26/10/2007

Una merenda del cappellaio matto
Il 15-16 giugno 1996 si tenne a Bologna (Sala Polivalente, via dello Scalo 21), a cura del «Nucleo informale Potlatch» e del «Dipartimento di Filosofia e Politica dell'Istituto Universitario Orientale di Napoli» un  Incontro di studio su Amadeo Bordiga.
Nel 1999, a cura di Luigi Cortesi apparve il volume «Amadeo Bordiga nella storia del comunismo» (Napoli, E.S.I., 1999) che raccolse la maggior parte degli interventi (non tutti però, come precisò il curatore e con in più un saggio di Alexander Höbel che non era presente a quelle giornate); non trovarono posto nel volume, ad esempio, gli interventi di Domenico Ferla e di Jacques Camatte.
Durante quelle due intense giornate girò tra i convenuti al convegno un ironico e simpatico scritto ««Una merenda del cappellaio matto»  che oggi ripresentiamo e mettiamo a disposizione dei lettori.

Una merenda del cappellaio matto

di Diego Gabutti e Paolo Pianarosa

 S’inquietino pure i volatori frementi, che riportia­mo frig­idamente ter­ra terra alla modesta altezza cui è da­to a noi di le­varci, a noi cui è vietato ogni eroismo e o­gni ro­manzo, che ci atteniamo all’ironia al posto del li­ri­smo e ci vediamo costretti a richiamare ogni tanto i troppo focosi: non fate i Fetonti!
Amadeo Bordiga, «Il marxismo dei cacagli»

 

Senza offesa, ma Bordiga, quanto a gusto, in letteratura doveva es­se­re una bestia. Di­ceva d’apprezza­re Anatole Fran­ce, per esempio, e c’è da scommettere che, per quan­to gli piacesse scher­zare, in que­sto ca­so, ahinoi, stesse dicendo sul serio. Che cosa ci trovasse non si sa. Qual­che volta ci­tò Dan­te, per esempio nelle epigrafi e nei titoli degli articoli sul­l’«imbroglio lu­nare», forse il suo miglior ro­manzo (perché era­no romanzi quelli che scriveva, con tanto d’intreccio e fior di personaggi, benché lui se ne chiamasse fuori, da quello snob che in fondo era). E ma­gari avrà citato qua e là anche qualche altro poeta di panza e di rispet­to, dicia­mo Sha­ke­speare oppure Goethe, ma sempre sen­­za im­pe­gno, co­sì per fare, da sco­la­­riz­zato, o perché li a­ve­­­va citati, garanten­do per lo­r­o, il vecchio e infallibile Marx prima di lui. Perché Bor­diga, sia chiaro, era un uomo a­stuto, una testa fina e molto dura, anzi durissima, nonché un pen­satore in proprio, qualunque cosa di­cesse di se stesso, quan­do per esem­pio si qualificava «ripetitore» della «dot­trina invariante» della quale era in realtà piut­tosto il Narratore prou­stia­no o un bizzoso Monsieur de Staal, ma co­me tut­ti aveva le sue de­bolezze, le sue cicatrici, e comprò da Marx più di u­n’automobile usata.
Oltre che u­na bestia, e sempre parlandone sub specie gusti letterari, Bordiga è anche un mi­ste­ro. Aveva al­meno letto «i russi», come si diceva ai tempi suoi? Co­nosceva Cer­vantes? E Bram Stoker? E Flau­bert? Con Leopar­di in che rap­por­ti era? E con Victor Hu­go? Con Zo­la? Con Ma­ri­netti? Gli piaceva l’ In­no a Satana di Carducci? Aveva in biblioteca Wal­­ter Scott? E il Lucifero di Rapisardi? Come vedeva Fanto­mas? E Nick Carter? Rocambole? Avrà letto Dickens e Nietzsche, Gregorovius, Jules Verne, Ireneo di Lione e Mark Twain? Comprò qualche volta "Il Corriere dei Piccoli"? Non se ne sa niente. Mistero. Al­meno si facesse a­vanti qual­c­uno che ha vi­sto con i propri occhi la libreria di Bor­­diga prima che tutti quegli ap­peti­to­si scaffali sfarinassero nel mito e nelle bancarelle di libri usa­ti. (Et­tore Barelli, preside di liceo nella Mila­no degli anni settanta e amicone del no­stro, le cui note citiamo per intero più avanti, è un memoriali­sta bene­me­rito del Bordi­ga in pantofole, e del resto non c’è altro Bordiga che questo, ma pur­trop­po tra­scura d’entrare in parti­co­lari li­breschi, quasi con­tassero poco, e invece contano assai, al­me­no per i bi­bliomani, tra i quali il nostro va senz’altro rubricato, se non al­tro a naso). Ci pia­cereb­be sa­­pe­re se l’au­to­re di Fan­ta­si­me car­lailia­ne e di Poli­ti­que d’a­bord, di Mar­xi­smo dei ca­ca­­gli e di Su­­pe­ruo­mo am­mo­scia­ti, ha per lo meno ascol­ta­to uno dei ra­­­­ri con­­­si­gli giusti e assen­nati che Marx si è de­gnato di traman­da­re ai di­sce­po­li? Les­se, voglia­mo di­re, il grande Balzac?
Proprio a Balzac, sia detto di passaggio, si mormora (anzi, è Rubel a mormorarlo, se ricordiamo bene) che il padre fon­datore, stan­co d’eco­no­mia po­litica e di pseudo­scienze, avreb­be volentieri dedicato un signor li­bro, che sarebbe stato alla sua opera come, nel No­me della Rosa, la Com­me­dia (o cos’era) stava all’opera d’Aristotele: la faccia dio­nisiaca e caoti­ca — infine — la faccia dispari e guercia della rivendi­cazione sociale fa­mo­sa, non per sua natura ma per miseria ludica dei suoi profeti sempre luttuosa e solenne, sempre animale­sca­mente votata al­l’ordinamento del mondo in chiave d’utopia (come se il mondo non fosse una chiavica d’u­to­p­ia già co­sì com’è, al naturale). Pecca­to che il li­bro su Balzac, un capi­to­lo qui e un capitolato là, ab­bia fi­nito per scri­verlo Lu­kacs, faccia fresca e battilocchio, an­titesi vivente (se quella è vita) d’o­gni e­spe­rienza esteti­ca, quando inve­ce era proprio l’esperienza estetica a so­ste­­nere come un uovo sbattuto l’opera di Marx, al punto che or­mai nien­t’al­tro la sostie­ne, qua­lun­que co­sa ne raccontino gli specialisti di mar­xi­smo residui e redivivi, spettego­lan­do e impillo­lan­do­si tra loro. E che so­stiene, oltre gli stri­dori del­le previ­sio­ni stori­che sballa­te, ol­tre le im­baraz­zanti belinate eco­no­mi­co­politiche, anche l’opera di Bordi­ga. Che però, proba­bil­men­­te, lesse Lu­kacs ma non Bal­zac, indignandosi col primo quan­do avreb­be po­­tuto, mol­to più vol­­pi­na­men­te, diver­tirsi col se­condo. Forse l’aveva letto, del resto, ma non gli an­dava di parlarne. Perché Bordiga, pur scrivendo alla disper­a­ta e senza mai interompersi, neanche per prendere fiato, pur scaricando nei saggi e negli articoli tutto quello che gli passa­va per la testa, era nondimeno abbotto­natis­si­mo. Un muro, una Sfinge.
Altri indizi, per quel che valgono. Bordiga scrisse per «Pro­meteo», nei primi anni venti, un lungo saggio sul­l’im­presa fiumana di D’Annunzio e soci, sim­patizzando alla sua ma­niera ruvi­da e rugo­sa con quella tempe­sta sociale nel bicchiere d’acqua del nazionali­smo, una rissa presessantot­tesca che suonò pas­sa­tista per metà e per metà futurista, ma non credia­mo abbia mai letto un solo verso di D’An­nunzio, e per quanto ci riguarda fece bene, benissimo, niente da di­re. Ma siamo sempre lì. Al­lora che cosa legge­va? Come ammazzava il tempo?  Si sa che al­me­no una vol­ta lesse «un giornale ita­liano per ragaz­zi», forse «Il Vittorioso» o «L’intre­pi­do», ma­gari «Il monello». Proba­bil­mente saltò i fumetti, e se a­ve­va sal­tato Ga­briele D’An­nunzio poeta poteva ben saltare anche quelli, ma les­se sen­z’altro una rubrica di notizie curiose che appariva su questo gior­na­let­to e da tal rubrica ricavò un arti­colo famoso, titolo «A Janitzio la morte non fa paura», una cosa a metà tra la Profe­zia di Celestino e la de­scrizio­ne in ne­­gativo del comunismo, la sola che non sia colpita da tabù. Indovinò u­na trac­cia di co­muni­smo primitivo nel costume di certe «nobilissime po­po­la­zioni mes­si­ca­ne», che non avrebbero avuto «terrore né orrore della morte», lo­ro bea­te. (So­lo Bor­di­ga, va da sé, poteva cre­de­r­e a una notizia così insen­sa­ta e bi­slac­ca, per di più letta sull’«Intrepi­do» o sul «Monello», e poi rica­marci so­pra per buon peso anche una teo­­ria pi­ra­midale, che ancora incan­ta i seguaci). S’innal­zò nell’aria, Bor­diga, come una mon­golfiera in fuga dal principio di realtà e declamò che «non per re­to­rica bolsa e demagogi­ca, ma per pos­­sente semplicità d’una vi­t­a che è del­­la specie e per la spe­cie, e­terna come natura e non come sciocco scia­me d’anime vaganti negli e­stramondi, per la quale, e per il suo sviluppo, val­gono le esperienze dei morti, dei vivi e dei non nati in una serie storica il cui avvicendarsi non è lutto, ma gioia in tutti i momenti del ciclo ma­teria­le». Indiana Jones e Don Juan  non a­vreb­bero det­to meglio.
C’è qualcosa d’hollywoodia­no e di stratosferico, qualcosa del roman­zo puro, per chi lo sa apprezzare, in quest’impennata del­la prosa e della dottrina bordighiana, una gomena di feuilleton alla quale non per caso si sarebbero poi aggrappati  molti naufraghi del bordighismo, cercando isole di Gemein­wesen nel deserto dei rapporti sociali e umani, dei libri aridi, del­le letture polverose, delle riu­nio­ni di partito, di partitiello e di gruppusco­lo, univer­si pro­fondamente al­­ter­nati e più «estramondani» che mai, però balordi e rintronati. Ma intanto, e daccapo a dodici, siamo sempre al pun­to di pri­ma e lì restiamo, pic­chian­doci sopra, oltretutto, il naso onoratis­simo. Che co­sa leggeva Bordiga? Non soltanto le rubriche del «Mo­nel­lo», speriamo, non solo le pagine e­cono­miche dei giornali e Marx, Marx, Marx tre volte all’anno sempre dac­capo (cosa che non au­gu­­ria­mo neppure a Mario Tronti, per dire, o ai neo­ministri della cultura, che se li inculi il dia­volo). Ci chiediamo sul serio, magari tra pa­ren­tesi e di passag­gio ma seriamente e con preoccu­pazione sincera, co­me cribbio am­maz­zasse il tem­­po, Amadeo Bor­di­ga, e come oc­cu­passe le sue giorna­te, visto e con­si­dera­to che, da co­me la ve­de­va lui, la quaresi­ma tra una «fase rivoluzionaria» e l’altra s­a­rebbe stata lunga, lun­ghissima, in­ter­mi­na­bile più di qualsiasi cu­ra, viag­giando dal 1926 mi­nimo mini­mo fi­no al remoto 1975, data che lui fissò, pec­cando di quello che con un eufe­mi­smo si potrebbe forse chiama­re ot­ti­mi­smo, dopo esser­si fatti due con­ti da cab­balista. Far di conto — «è permesso? siam ci­fret­te» —  gli piac­­que sempre assai.
Qualcuno sussurra che leg­gesse Edgar Wallace e forse pure Agatha Chri­stie. Sarebbe bello, certamente, e se non bello almeno significativo,  al­meno utile e istruttivo, ma noi qui dubi­tia­mo, se permettete, an­che di questo. Come dubitiamo che Bordiga a­bbia mai letto Gad­da o ac­cordato un’attenzione an­che soltanto va­ga e sbadiglian­te al nome del gran lom­bar­do (cui rispar­mia­mo qui le maiusco­le in omag­gio pro­prio a Bor­di­ga, il quale ma­iu­scola­va sempre po­co volentieri, un mi­nu­­scolista con­vin­to per­sino quando gli toc­­ca­va no­minare invano la «dittatu­ra del prole­t­­a­riato», mettiamo, o la «ne­ces­sità sto­ri­ca). Ep­­pu­re i due, Gadda e Bordiga si so­mi­glia­va­no. E­ra­­no fratelli, se non altro di penna, due te­ste matte e irri­du­ci­bi­li. Erano entrambi ingegneri, rivolu­zionari en­trambi, en­tram­bi fana­ti­ca­men­te vo­tati al­la sovver­sio­ne del lin­guag­gio, al selvaggio e idiosin­cra­tico kung fu della scrittura, sciamman­nati u­mo­ri­sti, neologisti famosi e ba­roc­chi tutt’e due. Un drink in­­­sie­me, cono­scen­do­si, l’a­vreb­be­ro pre­so cer­ta­­men­te vo­­len­tieri.


Bordiga stava in mezo a la gente tanto che zoga­vi­mo al waterpolo al mare e vigniva a zogar anche lui ne la squadra de waterpolo. Iera un colosso, un toco de mato cu­ssì! Ghe montavo de sora per butarlo soto: no’ so mai riussì a butarlo soto aqua, dio can! No’ so come ch’el fa­zeva: mi digo che el gaveva baloni de aria de soto. Digo: «Non son mai riussì a bu­ta­rte soto…» «E non mi butte­rai mai!» diseva.
Umberto Tommasini, «L’anarchico triestino»

Probabilmente gli studi d’ingegneria avevano qualcosa a che fare col loro fervido sbullona­re e riavvitare gl’ingranaggi del linguaggio. Bordiga e Gadda — sempre loro — avevano una porca e insopprimibile passionaccia per lo smontaggio di questo particolare giocattolo. Aveva tutta l’aria, po­co ma sicuro, d’una mez­za deformazione professionale, questo lo­ro siste­matico sa­bo­taggio della comunicazione tradizionale, del parlar facile, ras­sicurante pacifico e linea­re, che va dall’«a» alla «zeta» dritto sparato, sen­za nemmeno una sosta all’autogrill per una brioche, un capuccino. Ma più che altro dove­va es­sere qual­cosa nell’aria.
A­gli scrittori di rango, eviden­te­mente, dev’es­se­re capitato a un cer­to momento di do­ver mettere sul bian­co delle pagi­ne un nero par­tico­lar­men­te ostico, par­ti­co­larmente viscido e sci­voloso. Non tanto per la sua «inaf­fe­r­rabili­tà», qualità del tut­to ideo­lo­gica e pre­sunta, in lungo e in largo de­gna dei cat­tivi let­te­rati che continuano a spupazzarse­la i­gna­ri del bi e del ba, quan­to per il tanfo proprio di lette­ra­tu­ra marcia, di letteratura impu­tri­dita e cada­verica, che il mondo, nel­l’epo­ca dei to­talitari­smi, perico­lo­sa­mente tossici e nien­te affatto de­grada­bili, aveva cominciato a span­de­re nell’aria del ventesimo secolo, cloa­ca mas­si­ma del­la sto­ria (almeno fi­­no­­ra, fin­ché regge il record).
Alziamo un attimo il naso dai libri e di­cia­mo per una volta le cose co­me stanno. Cioé come le abbiamo viste a annusa­te. Ammettiamo dunque che non c’era altro che letteratura — «via, an­dia­mo, sia­mo sin­ceri» — ammettiamo che c’era soltanto let­te­ratura e ba­sta dietro Hi­­tler e Stalin (per di­re i due massimi pezzi da novanta, o più bor­di­ghianamente «cazzaccioni», del secolo presente): fan­ta­sy reazionaria e tradizionalista dietro il baffetto satani­sta del primo, scien­­­ce fiction utopi­stica e pseudoscientista die­tro il baffo­ne socialista del se­condo. E non c’è altro che letteratura, se è per questo, dietro ogni altro e­vento «rilevante» di questo secolo, dalle rivoluzioni cul­turali de­­gli anni sessanta su su su fino alle demagogie ecologiste, ai neolibe­ri­smi da tavo­lino a tre gam­be, ai sini­strismi da trauma post-sovietico e al­la ma­nifesta­zione su­pre­ma, va da sè, della moderna utopia lette­ra­ria: la teo­ria del complotto, l’histoire che si fa fiction, un genere intrattenitorio che se non spiega la politi­ca spiega almeno i politicizzati. Bordiga, ancora tra pa­rentesi e per i collezionisti, fu tra le altre cose anche un precursore del complottismo, cioè del leggen­da­rio me­tropolitano e  del romanzo applicato, co­me un ce­rotto nicotinico, alla vita quotidiana.
Con lar­go anticipo su Capricorn One — un film degli anni settanta nel quale s’immagina che uno sbarco d’astronauti a­me­ricani su Marte sia in realtà realizzato all’interno d’uno studio cine­matografico per incantare e sodomizzare le masse — già alla fine degli an­ni cinquanta, con i primissi­mi sputnik, Bor­diga s’av­ven­turò in questo luna park d’intrighi scien­ti­fico­tecnologici à la X-File ne­­gando e stra­negando, con calcoli ingegneristici di fronte ai quali c’inchi­nia­mo i­gna­ri e contenti d’esserlo, che un «proietto» qualunque — per quanto fort­e e lon­tano lo si voglia sparare — possa se­ria­­mente e lecitamente sfug­­gire alla «terrestre gra­vi­­tà», che a irresistibile e inamovibile ma soprattutto impagabile giu­dizio di Bor­diga ci tiene molto ma molto saggiamente al guin­­za­glio, da quei bo­to­lacci az­zan­napo­stini che non siamo altro. Erano «ci­fre e ci­fret­te» oggettive e senz’appello, da co­me la raccontava lui, il fan­­ta­scien­ti­sta re­ci­divo e svergognato. Ma poi gli scap­pò detta anche la mo­­rale di que­sta fa­vola bella. Te­me­va, scris­se, che dopo le note vicende ter­restri, sempre a suo mo­do di ve­dere già ab­ba­stan­za trucide e infami, gli uma­ni s’apprestassero a «im­pe­stare» e spulzellare da una parola in su «pure lo spazio cosmi­co», ancora vergine e inviolato. E ciò con grave scan­dalo degli alieni sui loro piatti volanti, ci figu­ria­mo noi, e col dubbio risul­ta­to, inoltre, di farci co­no­sce­r­­e all’este­ro, tra gli «e­stra­mondani» che po­po­lano le spaziovie (non si sa se temendo la mor­te op­pu­re giubilando, a o­gni dipartenza e fu­nerale d’Ufo, per il gaio perpe­tuarsi della «serie sto­ri­ca» di specie).
Bordiga, il quale crede­va nella letteratura come credeva nella mate­matica, ciecamente cioé e fino in fondo, era in que­sto un uo­mo del suo tempo: non gli bastava che una cosa fosse bella e divertente, cosa di cui noi largamente e bellamente ci accontentiamo, ma pretendeva che fosse bella in quanto ve­ra. Avesse let­to, mettiamo, gli Albi di To­polino, e si fosse poniamo appassionato alle av­­ven­tu­re del Com­­missa­rio Basettoni, Bordi­ga a­vrebbe voluto fare esi­ste­re Topolinia: il suo com­u­nismo, come tutto il co­­muni­smo del tempo suo, era fatto di questa ma­teria, la stessa di cui so­no fatti i sogni, materia su­gosa finché si vuole, ma ectoplasma let­te­rario puro. Ve­ro che Bordiga, a differenza degli atti­visti invasati  contro i quali operò finché ebbe fiato, e­ra dell’i­dea di pren­dersela comoda, di la­sciar fare al «movimento reale» (o «irrea­le», per dir me­glio, che fosse). Ma c’è insom­ma una mezza pos­si­b­i­li­tà e di sicuro l’in­tenzione intera d’u­na traiettoria da «Pro­to­c­olli dei Savi Anziani di Sion» anche dietro la più so­bria e com­passata delle dot­tri­ne. E non c’è bi­so­gno di Philip K. Dick o di O­liver Stone (di­ce­si a ca­so) per im­ma­gi­nare e raf­figu­rar­si u­n mon­­do in cui i fans di Bat­man  o del­l’Uomo Ra­gno prendono le armi per dare l’as­sal­­­­to al cielo nel no­me dicia­mo del­l’an­ti­cri­­mi­ne in maschera.
Sono state le allegre uto­pie dei letterati buoni e cattivi e così così — i ro­man­zieri invo­lontari della Tra­dizione da restau­ra­re come i ma­e­­stri di feuilleton del­l’i­narrest­a­bi­le marcia del Progresso — a trasformare la prima me­tà del secolo (e oltre, ben oltre) in una mo­struo­­sa Merenda del Cap­pellaio Matto. Bordi­ga partecipò come tutti alla festa. Niente di male: è così che sono sempre an­da­te le cose, almeno finora. Pro­prio le sofistica­te architet­ture metafisiche dei filo­so­fi e de­gl’ingegneri so­ciali, che o­no­rano le bi­­blio­te­che con la loro indubbia e­legan­za formale in­te­l­lettuale, hanno sel­vag­gia­­men­te ma­­roc­­chinato le anime e le nazioni.
E anco­ra insisto­no, per la cronaca. Ancora ci provano, pur perdendo i tocchi, il naso, una mano, per lo stato d’avanzata de­com­po­sizione in cui versano, come zom­bies che si levano, quali martiri nostri, dalle tombe e dai tumuli del tempo che non passa mai. Era già accad­u­to, na­tural­men­te. E­van­gelisti e teo­logi e rompicoglioni di tutte le risme hanno mes­so a ferro e fuoco il mondo già innumerevoli vol­te e possiamo scommettere tran­quillamente un caffé che altre innumerevoli rovine si pre­parano. Ma mai era capitato che le favolette dei profeti, gli asso­luti dei filosofi e de­gli scien­ziati, gli abraca­dabra dei politici e de­gli al­tri spacciatori d’elisir aves­sero o­perato co­sì ra­pi­da­men­­te e su u­na scal­a così vasta, per di più go­den­do d’un tale con­sen­so da parte dei bevi­tori di balle, mai così cornuti e contenti come sotto le stelle della super­cazzola  can­tilenata fino alla verti­gine e all’emi­cra­nia dai servizi se­greti, dai media e dai minculpop dei mo­derni (e post) totali­tarismi e an­tito­ta­litarismi. Non ci si po­te­va de­d­i­care alla letteratura, dopo Auschwitz e Kolyma, dopo tutti quei Palazzi d’Inverno e quelle ricadute di fallout atomico, a cuor leggero e con la coscienza tranquilla di chi va per funghi, poniamo, o per librerie antiquarie. Forse proprio le avventure e gli azzar­di della scrit­tura, altret­tante bar­be graffite sulla Gioconda del­le interpretazioni scien­ti­f­i­che e sentimen­ta­li del mondo, testimoniano che gli scrittori erano sot­to shock e che ogni lo­ro pretesa d’innocenza — per chi ancora si guada­gna­va il pane così, con una sveglia al collo e l’anello al naso, quan­do sa­rebbe stato molto più onesto rubare — era invecchiata e morta. Per lo più gli scrittori continuaro­no a far dan­ni, naturalmente, com’è loro inveterato co­stume, e a dividersi i Pre­mi No­bel e i Premi Stalin illu­stran­do e prepa­rando nuove ideologie del disastro, al­tre pappe di gesso da masticare ai cocktail parties dell’inumanesimo. Ma alc­u­ni di loro u­sciro­no dal gioco del terro­ri­smo cultu­ra­le attraver­so la porta di si­cu­rezza del discorso celibe. Si vietarono pura­men­te e sem­pli­c­e­­mente o­gni propo­si­to. Fuori e lontano.
Bordiga, lui, men­tre intorno infuria­va l’agit-prop delle ideo­logie ma­la­mente so­pravvissute alla se­conda guer­ra mondiale, libera­lismi blindati e marxismi variamente esoterici, de­nunciò ogni for­ma di pro­se­li­t­i­smo e, al po­sto del partito politico formale, che a­vrebbe dovuto guidare alla vit­to­ria il coso… sì, il proletariato, raccontò l’assur­da ma simpatica fia­ba del par­tito storico, mani­polo di contemplatori pa­zienti, zitti e mo­sca, saggi e tranquilli cultori dell’apocalisse per finta, con­servatori del mu­seo rivolu­zio­nario. Ripie­gò, in­somma, e fe­ce benone, un classico, in una sorta di Club del­le Gio­vani Mar­mo­t­te, una penombra rinfrescata dal­le pale d’un ventilato­re si­len­zioso fis­sato al sof­fitto, un u­nive­r­so pa­rallelo e pacificato, esente da tas­se prati­cistiche e da ga­belle storiche, immobile e in­va­rian­te, il ciber­spa­zio di chi non fa e dunque non falla.
Parre­b­be, raccontato e romanzato così, che il partito storico coincida con lo spirito di setta e di racket politico o, peggio ancora, Dio ci scampi, con la tor­re d’a­vorio fa­mosa, quella dove villeggerebbero i letterati, im­pi­pandosi secon­do co­pione banalista delle di­sgra­zie del mondo, e invece no, è vero il con­trario. Non c’è mai stata setta, per cominciare, che non abbia pazziato per raggiungere la po­polarità e per uscire trionfalmente dallo stato minorita­rio agi­tando ban­­die­re e triccheballacche. Lenin, per questo, non ha esitato a mangiarsi vi­vi, un boccone e via, popoli interi. Oppure pensiamo a quel­la sagoma di Pol Pot e agli occultisti che han­no trasfor­ma­to il «se­greto eso­te­rico» d’antan nella mostruosa vasca da bagno del New Age in cui fare tutt’insie­me il bagno nu­di. Idem la lette­ra­tura, al­meno la let­te­ratu­ra dei letterati,  che non è affatto separatezza ma a­zio­ne, azio­ne pura e feroce:  la torre d’avo­rio dei letterati, lun­gi dal­l’es­sere il ri­fu­gio dei sag­gi o il Grand Hotel dell’A­bisso nel quale si dice di­­morasse A­dor­­no, è  sem­pre stato al contrario il pa­lazzo degli sta­ti mag­gio­ri che gui­da­­no e co­g­lio­­na­no gli eser­citi. Somari, in tarda gio­ventù, no­ialtri a dubitarne.
Ma non Bordiga, Bor­diga no: l’orgo­glio­so setta­ri­smo di Bor­diga per­so­na era cosa assai diversa dalle mi­se­­rie e dal­le piccinerie della setta bor­di­ghi­sta orga­nica e organizzata. Co­sì co­me l’an­ti­let­­­te­r­a­tura di Bor­­d­i­ga in carne e ossa, seduto in pom­pa magna alla macchi­na da scrivere (e sco­del­lante pagine che noi ancora leggia­­mo e rileggiamo fa­cendoci buon san­gue e sen­za mai stancarci, e ciò avrà pure un suo perché) era cosa a sua vol­ta ben diversa dalle pappe insi­pi­de cucina­te al ciclo­stile dagli e­pigo­ni. Erano, l’uno settarismo e l’altra antiletteratura, l’esatta antitesi d’ogni spetta­colo, hic sunt aria pura e si­len­zio, relax, nien­­­te su­ll’oriz­zonte fin do­ve ar­ri­­va lo sguardo.


Alcuni anni fa, tre quattr’anni prima che morisse, ero a Napoli in casa d’Amadeo Bordiga. Abitava in fondo a corso Garibaldi, quasi sul po­rto, all’ultimo piano d’un vecchio palazzone, incoronato in cima da una lunga e stretta terrazza che girava intorno al fabbricato. Una terrazza im­pagabile, dalla quale la vista abbracciava tutto il golfo e le isole, dal Vesuvio a Posillipo. E dietro, il forte di San Martino, Capodimonte, il Vo­mero e le case degradanti della città, spacciata dalle lunghe fenditure de­ll’antico reticolo romano. Il porto si stendeva sotto gli occhi, che pareva toccarlo con le mani; se ne vedevano entrare e uscire i piroscafi, le moto­navi, gli aliscafi, con le lunghe scie oltre le dighe foranee verso l’ombra di Capri. Dal fondo della strada brontolava il rumore di Napoli; dalla vi­cina stazione della circumvesuviana spillava a sera una continua fiumana di gente che s’apriva al passaggio degli autobus e si richiudeva subito dopo come una corrente di sangue traversata da un globulo verde; e io ogni vol­ta mi sorprendevo a cercare dietro i loro i corpi spappolati dei passanti. Bordiga era in una delle stanze aperte su quel terrazzo. Sedeva dietro un grande tavolo di legno grezzo posato su cavalletti, pieno di libri e di gior­na­li polverosi, sui quali viveva immobile un meraviglioso gatto persiano chiu­so dentro la sua pelliccia. Oppure stava ricurvo, la grossa testa bo­vi­na incassata tra le spalle pesanti, seduto a un tavolinetto appoggiato con­tro la parete, dove batteva su di una vecchia e rumorosa macchina per scrivere gli articoli per il suo foglio settimanale di Milano, l’organo del par­­­tito, che il fedelissimo Maffi stampava e diffondeva tra i compagni. Ba­tteva pagine e pagine senza margini e spaziature, con grande rapidità e quasi senza correzioni: un ininterrotto flusso di coscienza politica, centinaia di migliaia di righe, che non firmava mai per principio, perché ostinat­a­mente voleva che apparissero come l’eco collettiva dei suoi, sparsi per l’I­talia e per l’Europa. Ma fosse seduto alla scrivania o alla macchina, gli ba­stava piegare il capo per scorgere, oltre il parapetto della terrazza, l’andirivieni del porto e della rada. Quando uno dei piroscafi o dei tran­slatlantici s’accostava ai semafori delle dighe, si muniva d’un vecchio bin­o­colo per osservare le manovre dei rimorchiatori e godersi il fischio delle loro sirene, che a quell’altezza giungeva distinto e fascinoso al di sopra dei ru­mori del traffico. Conosceva a memoria gli orari degli arrivi e delle pa­r­tenze, o si affrettava a controllarli sulla rubrica del «Corriere mercanti­le»; e non sbagliava un nome. Uomo politico quant’altri mai, alla Pla­t­o­ne, costretto dalla sua coerenza a una sdegnosa emarginazione, e dall’età e dalle gambe a restare intere giornate tra quattro pareti, proiettava in questo modo la mente e l’anima a sentire e a vivere la vita della sua città. C’era in tutto questo, ai miei occhi, qualcosa d’infantile. Ma lui ci ins­i­steva. E poiché per lui non capivo nulla di politica, voleva che almeno sen­ti­ssi l’esigenza di penetrare nel caldo fluire delle cose, di capire come ogni a­­strazione è follia, se avulsa dal pulsare concreto della vita reale, fatta di minuti e minuti, intrecciata di fatiche, d’ambizioni, d’affari e d’affanni. A sera poi, in quei giorni, attendeva con puntigliosa costanza sulla terrazza dove la moglie allevava in putride stie un branco di galline starnazzanti, l’apparizione del satellite Eco, che seguiva nel suo veloce passaggio sul golfo, luminoso come un astro di prima grandezza. Più tardi ne spiava il pa­s­sag­gio successivo, ne misurava i tempi del moto, ne controllava l’orbita re­golandosi sulle costellazioni, che gli erano familiari come la dottrina di Marx. Nonostante la vista debole, era il primo a individuarlo sapendo da quale zona del cielo sarebbe apparso silenzioso e misterioso; e scuoteva la testa, e mormorava: «Un’orbita circolare e fissa: questo è difficile». E me ne spiegava il perché, mentre, con l’interesse di chi dai minimi segni già co­glie i grandi sviluppi, vedeva ruotare, insieme con la terra, con lo stesso ri­tmo di rotazione, i satelliti geostazionari per telecomunicazioni, di cui allo­ra nessuno parlava e di cui io stentavo a intendere l’importanza che egli in­­vece prevedeva rivoluzionaria. Poi rideva soddisfatto e, appassionato co­m’era di calcio, mi diceva scherzando: «Così per televisione vedremo il San­­tos giocare».
Ettore Barelli, «Il liceo di Piazza Frattini»

 Bor­diga, come Gad­da, entrambi co­me Joy­ce e le avanguardie prima di lo­ro, e­va­sero dunque nello sberleffo e nell’u­morismo, ostili fin nella for­ma alla tirannia del si­gnifi­cato, un’antilet­te­ra­tu­ra che era poi l’ultima trincea del sen­so, dove si ride fi­no al­le lacrime e le parole, pur conservan­do il lo­ro peso, non hanno conseguenze tragiche, ciò che fa la differenza, se non altro, tra una barzel­let­ta e un ser­mone, tra il motto di spirito e lo spi­riti­smo dei matti. Giovannino Guareschi, vo­len­do fare un altro nome di scrit­tore i­taliano illustre, e­ra della loro stessa pasta, co­m­e pure Achille Cam­panile, sempre volen­do, e Leo Longanesi idem: penne asce­ti­che e in­fernali, che non sol­tanto de­testavano l’attualità ma che, meglio anco­ra, non avevano nulla da propor­re per peggiorarla. Stavano lì, il sorriso che gli andava da un o­recchio all’altro, per metà spassati e per metà in­cazzosi, e si gode­va­no lo spettacolo del mondo, indif­ferenti e appas­sio­nati insie­me. Pen­ne che pur vie­tan­do­si  di «prendere posizio­ne», come (di­rebbe Bordi­ga) di­co­­no i fes­si, non di meno mette­va­­no becco, spul­cian­do la cronaca e la sto­ria, grat­tando gl’inesausti pruriti dell’attualità.
Ciascuno di loro, chi millantando «punti di vista» e sociologi­smi, chi facen­done sen­z’altro a meno, ché la vita è già abbastanza breve e muffo­sa, in realtà aveva in te­sta soltanto un mo­dello polemico: Longanesi un’I­ta­­lietta pic­co­lo bo­r­ghese mai esistita se non nei suoi disegni e nei suoi e­pi­gram­mi da combattimento, Guareschi un cattoli­ce­simo allucinato che in tempi or­di­nati l’avrebbe por­tato dritto dritto davanti ai magistrati d’Ani­me Pulite, Cam­panile un’idio­sin­c­rasia assoluta  verso chiun­que re­spi­ras­se dalla bocca e dal na­so, Gad­da una sghignazzante fi­ne­stra di Ma­gritte af­fac­ciata su dove chissà e Bordiga, lui, la strabiliante stanza dei giochi degli «o­stinati e immobili marxisti». Co­me la meccanica quan­ti­stica, che se­condo Ro­ger Penrose magari qualche ragion d’essere ce l’ha ma non per questo va presa sul serio, come se fun­zio­nasse davvero, anche questi mo­delli pole­mici e­ra­no puramente for­ma­li, non bandie­re ma mu­tan­de e so­vente mu­tandoni, indossati a salv­a­taggio di ciò che resta del pu­dore, per non pre­sentarsi nudi, con le natiche di fuori, il pisello dondo­lante come un pendolino da rabdomante, sul campo di battaglia della fi­lo­sofia e della sapienza, dove si credono tutti generali (idem nei manico­mi delle barzellette, dove son tutti Napoleone). Alla dogana dei fi­lo­sofi e dei ri­formato­ri — quando la tecnologia faceva i suoi pr­i­mi miracoli e Beria ancora filava — costo­ro non a­vevano mai niente da dichiarare. Bordiga que­sto nu­lla da di­re in pro­­po­si­to lo chiamava «co­mu­ni­smo».
Un comunismo, per spie­garci, che stava al co­munismo propria­mente detto, quello «realiz­zato» dei sod­di­sfatti con poco e quello «tra­di­to» degli scontenti per meno ancora, come l’anti­ma­te­ria alla mate­ria, come l’ano­res­sia al­l’ap­pe­ti­to. Ma era an­che un demone, un’idea fissa e divoran­te. E­ra un romanzo da leggersi d’un fiato, volando di pagina in pagina senza mai trovare l'ultima. Non si trattava, insomma, di qualcosa da realizzare, pena la barbarie o peggio, per quanto sovente negli articoli del «Programma comunista» il comunismo di Bordiga e più ancora dei bordighisti assumesse, un po' per vizio e un po' per non morir, anche la forma particolarmente squallida e oscena, del programma eternamente in cartellone al supercinema della storia. Questi appuntamenti col destino che a mancarli guai, non ci sono mai stati, naturalmente, esattamente come non ci sono mai stati neppure  i vecchi tempi, almeno secondo il pistolero Jack Beauregard in «il mio nome è nessuno», e queste sono cose su cui i pistoleros e i pistola dei film western la sanno lunga.
Eppure — lue del comunismo e ine­vitabilmente anche del bordighi­smo, se ci passate un’espressione che Bordiga, potendo, non ci passereb­be mai — la banalità della meta da rag­giun­gere, del tre volte mirabile tra­guardo da tagliare o, peggio che andar di notte, del­la «co­munità umana» da vincere alla lotteria della storia, ché Dio lo vuo­le e per questo ci dà i nu­meri in sogno­, quando non addirit­tu­ra della lussuria metafisica da «co­strui­re» col mec­ca­no o col Lego o col pongo delle teorie radicali, af­fio­rano conti­nua­men­te nel­le pa­gi­ne di Bor­diga, pur mirabili per scrittura e umo­ri­smo, geniali per ina­nella­mento dei concetti e triplo salto mortale del lin­guag­gio, nonché u­niche e sole, nella terra desolata della sinistra clas­si­sta, per autonomia intellettuale e genialità dell’intreccio. Ma tant’è. Marx e il mar­xi­s­mo, bot­tegai puntuti, non hanno mai fatto sconti a nessuno. Quel­lo il Verbo e così devi cianciare.
Fortuna per lui che, con pie­na evidenza, Bordiga era na­to distruttore, non cercatore ma liquidatore degli assoluti. Così come, secondo Bordiga, c’è un modo di leggere i libri che somiglia al gesto con cui lo scassinatore sfoglia i pacchi di biglietti da mille, c’è anche un mo­do di leg­gere l’attuali­tà e la storia che ricorda gli atti dei sabotatori. Bordiga, quando ricostrui­va la storia del comunismo moderno, dalla rivoluzione d’otto­bre in avan­ti, lavorando d’aneddoti e d’iperboli, agi­va da letterato e da dinamitardo. S’era da sè assegnato un  compi­to:  con­ser­vare la memoria teo­rica del pro­le­tariato contro gl’inquinamenti de­gl’in­novatori, dei battilocchi mai sazi, speri­men­ta­tori inesausti d’assoluti sempre nuovi. Chiamava tut­to ciò «in­va­rianza», ma era un concetto, di nuovo, as­sai simile al «comunismo» di cui sopra: non una protesta a capocchia contro la modernità, u­na sorta d’evolismo ultrasinistro, né tantomeno un altro as­so­luto da lanciare sul mer­cato delle idee minoritarie, ma ancora e sempre un modello polemico, debi­ta­mente astrat­to e rin­ghioso. C’è an­che da di­re, del resto, che le ripe­tute fughe dall’«invarianza» bordi­ghista, gli scatti camattiani verso la «co­mu­nità» o le variazioni attivisticche della sinistra co­mu­ni­sta affascinata in primis dagl’inquacchii tra gli estremisti collau­da­ti del­la do­menica postre­si­stenziale e subito dopo, in secundis, dai mistici scon­quas­si culturalsitua­zio­ni­sti dei mo­vi­menti studenteschi, non erano tra­d­i­men­ti della dottrina bor­di­ghiana, ma suoi figli bastardi e forse addi­rit­­tu­ra  legittimi, per quanto — è vero — poco so­miglianti.
C’era più «varianza» che «in­va­rianza», do­po­tut­to, nel grande roman­zo bordighista, qualunque cosa ne dicesse lui. Questi salti e que­ste fughe sta­va­no cioé al­la grande lette­ratura bordighista come i colpi di scena e le sor­prese finali stan­no ai romanzi d’av­ventura. Bordiga A­madeo tesseva questa «tra­ma pos­sente» — dramma per metà e per me­tà commedia, nel­l’in­tero una far­sa  — con l’ago e il fi­lo d’u­na prosa superba e inegua­glia­b­i­le. Ma que­sta, a pensarci, l’abbia­mo già detta. Così, per chiudere, ne di­­cia­mo u­n’altra: non e­ra uno stile letterario, quello di Bor­diga, ma uno sti­le di vi­ta,  il precipita­to chi­mico e alchemico d’una spe­cialissima e­sperien­za umana, quella del su­per­letterato che si vieta le derive pra­ti­cisti­che, e, in soldoni, del­l’am­ba­sciatore che non porta pena.