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aggiornato al: 12/03/2008

Il Corriere della Sera, 24 ottobre 1988

L'autore di questo articolo, Leo Valiani, storico e giornalista noto ed apprezzato, nacque a Fiume il 9 febbraio del 1909 (il suo vero nome era Leo Weiczen, italianizzato in Valiani).

Da subito antifascista aderì nel 1928, mentre era al confino, al Partito Comunista d'Italia. Esule poi in Francia, abbandonò il partito all'epoca del patto Hitler-Stalin (1939); aderì quindi a "Giustizia e libertà" e fu esule in Messico (dove conobbe anche Victor Serge). Questa parte della sua vita è ben ricostruita nel libro di Andrea Ricciardi "Leo Valiani, Gli anni della formazione. Tra socialismo, comunismo e rivoluzione democratica FrancoAngeli, 2007".

Ritornato in Italia partecipò alla resistenza e militò nel Partito d'Azione.

In seguito abbandonò  l'attività politica e si dedicò al lavoro di storico e giornalista.

Dal 1980 fu insignito del titolo di senatore a vita. Morì poi novantenne, a Milano, il 18 settembre 1999 dopo aver percorso e vissuto, non solo da passeggero, tutto il secolo.

Molto di quanto scrisse fu valido ed interessante; lontano dalle posizioni del comunismo rivoluzionario lo caratterizzò una coerenza ed una onestà intellettuale da rispettare.

 

 

 

 

Bordiga: l'inventore di quel Pc duro, spartano, pronto alle armi

 

Settant'anni fa, al termine della prima guerra mondiale, la rivoluzione proletaria socialista sembrava probabile in gran parte dell'Europa. In Russia, ad un anno dalla presa sovietica del potere, il governo comunista era ormai più forte dei suoi nemici, anche se la guerra civile sarebbe durata un altro biennio. In Germania ed in Ungheria alla rivoluzione democratica repubblicana, scaturita dalla sconfitta militare, faceva seguito una seconda ondata rivoluzionaria, scatenata dalle frazioni comuniste del movimento operaio. La Spagna, rimasta neutrale nel conflitto e la stessa Francia, in un primo momento ebbra di vittoria, vedevano sorgere nel loro seno grossi sommovimenti rivoluzionari.

In Italia l'ondata rossa pareva in procinto di sommergere il paese, che aveva bensì vinto la guerra, ma lamentava che gli si volesse far perdere la pace. Appena pochi giorni dopo Vittorio Veneto, la direzione del partito socialista italiano dichiarava di puntare sulla rivoluzione socialista attraverso la dittatura del proletariato.

Nel marzo del 1919, a Mosca, Lenin e i suoi compagni, fra i quali Trotski, era allora, grazie alla sua travolgente dote di oratore di masse e alla sua azione determinante nella costituzione dell'esercito rosso, il più popolare, fondarono l'Internazionale comunista. Essa venne chiamata Terza Internazionale. Si intendeva come Prima Internazionale l'associazione di gruppi operai ancora modesti, che aveva Marx, dal 1864 al 1872, nella segreteria del suo  Consiglio generale e come Seconda quella che dal 1889 al 1914 aveva riunito, con legami molto più ideologici che politici ed organizzativi, i robusti partiti socialisti e socialdemocratici di molti paesi.

La Terza internazionale fu fondata con l'intento di diventare il partito unico della rivoluzione mondiale. Il partito socialista italiano si affrettò ad aderirvi compatto. Neppure i riformisti del partito che, con Turati alla loro testa, avevano criticato sin dal primo istante la dittatura bolscevica, osarono opporsi apertamente all'affiliazione  alla nuova Internazionale che reclamava di voler rappresentare le speranze delle sterminate masse che le atroci sofferenze della guerra imperialista avevano reso desiderose di un mondo senza frontiere, di pace tra i popoli e di eliminazione degli sfruttatori. Dopo tutto, Lenin aveva osato concludere la pace per la Russia e la Germania.

La frazione rivoluzionaria del partito socialista italiano aveva una lunga storia, che risaliva al passaggio al libertarismo internazionalista di numerosi giovani mazziniani e garibaldini, delusi dalla conclusione monarchica dell'epopea risorgimentale. Alla guida del partito i rivoluzionari giunsero a più riprese e definitivamente nel 1912 con la protesta contro la guerra libica.

L'antimilitarismo era il loro cemento. Benito Mussolini il loro capo dotato di maggiori capacità politiche. Proprio il suo straordinario fiuto politico portò, però, Mussolini fuori del partito socialista, a proposito dell'ingresso dell'Italia nella guerra europea. Egli intuiva che l'intervento era inevitabile e che sarebbe stato coronato dalla vittoria militare.

Suo successore alla direzione dell' «Avanti!» e alla guida del partito fu un socialista tutto d'un pezzo, Serrati. Rivoluzionario più per rigidità dottrinaria che per temperamento, esponente d'un massimalismo più portato alla violenza verbale che all'azione violenta effettiva, amatissimo dalle crescenti masse dei suoi lettori, Serrati conobbe Lenin in una delle conferenze internazionaliste contro la guerra tenutesi in Svizzera. Si schierò dalla sua parte, senza capire che l'umanitarismo dei socialisti italiani, e segnatamente della maggioranza dei socialisti di sinistra, pacifisti ad oltranza, non aveva molto in comune con la spietatezza di Lenin che puntava, per vincere, sulla guerra civile e sulla soppressione anche fisica degli avversari e dava priorità al partito dittatoriale sull'insieme del movimento operaio.

L'impostazione leninista era sostenuta in Italia da Amadeo Bordiga. Nato in provincia di Napoli nel 1899, educato da un padre d'origine piemontese, insigne docente di agraria a Portici, Bordiga univa la tenacia, la sistematicità, la coerenza d'un uomo del Nord con la genialità dei napoletani. Era ancora più dottrinario e rigido di Serrati, ma lontano dal pacifismo umanitario e dal sentimento unitario di costui. Materialista e determinista in filosofia, come molti marxisti dell'epoca del positivismo che si voleva scientifico, da rivoluzionario Bordiga era fanaticamente votato, come lo stesso Lenin, ad una causa superiore, da perseguire senza riguardi per nessuno.

Lenin, però era pronto a servirsi di qualsiasi mezzo, a rischio dello snaturamento, che sperava momentaneo, del fine professato. Bordiga intendeva servirsi soltanto di quei mezzi che non contraddicevano le finalità della rivoluzione socialista. Queste le deduceva dogmaticamente dalle teorie del marxismo ortodosso sin da quando, non ancora ventenne, aveva fondato a Napoli un circolo giovanile intitolato per l'appunto a Carlo Marx. Inflessibilmente rivoluzionario diventò proprio in opposizione ai sedicenti rivoluzionari napoletani, socialisti politici o sindacalisti, che finirono col candidarsi, in sede comunale o nazionale, in blocchi elettorali di democrazia clientelare sovente massonica.

Nel partito socialista Bordiga non tardò a conoscere Mussolini e a diventarne compagno di frazione e altresì amico. Al congresso nazionale socialista di Ancona del 1914, Mussolini condusse e vinse la lotta contro i massoni, Bordiga quella contro i blocchi elettorali. Poco dopo la guerra li divise per sempre. Bordiga abbracciò la tesi della trasformazione della guerra imperialistica in guerra civile per la rivoluzione socialista. Non è sicuro in quale data seppe che l'ideatore più significativo di questa tesi era Lenin. Dacché lo seppe fu per Lenin e, non appena possibile, con Lenin.

Lo incontrò a Mosca, al secondo congresso dell'Internazionale comunista, nell'estate 1920, ma da quasi due anni sosteneva già, in Italia, l'urgenza dell'espulsione dei riformisti dal partito socialista.

A Mosca, al congresso che si è detto, i 21 punti elaborati dai comunisti sovietici, la cui accettazione incondizionata diventava la premessa per la permanenza di ogni partito nell'Internazionale medesima, furono resi ancora più severi su richiesta di Bordiga. Serrati non se la sentiva di effettuare l'espulsione in blocco dei riformisti dal partito, fra i cui iscritti essi erano in minoranza, ma avevano la maggioranza fra i deputati, i consiglieri comunali e gli organizzatori di sindacati e cooperative.

 

Scherzava con tutti, soprattutto con Bukharin

 

Agli occhi di Bordiga, la scissione, lungi dall'essere un male, era indispensabile. Lo stesso Turati aveva riconosciuto, molti anni prima, che essere legati insieme quando si vuole andare in due direzioni diverse è paralizzante. Turati voleva continuare a camminare verso una sempre più ampia ed avanzata democrazia parlamentare, Bordiga verso la dittatura rivoluzionaria del proletariato. Serrati avrebbe preferito questa, ma era disposto a convivere con quella.

Per Bordiga la democrazia parlamentare era nociva, diseducativa, corruttrice. La sua scelta originaria era l'astensionismo alle elezioni e l'accantonò solo su pressioni di Lenin che non voleva che ci si privasse di nessuna tribuna.

Nei mesi precedenti la scissione di Livorno del gennaio 1921, il partito comunista d'Italia (così si chiamò in un primo tempo, poi modificò il proprio nome in partito comunista italiano) fu preparato da Bordiga. A Livorno egli ne divenne il capo incontestato e lo rimase per due anni finché non entrò in contrasto con l'Internazionale.

Tolto Gramsci, Angelo Tasca, l'economicista Antonio Graziadei e pochi altri, tutti i comunisti italiani che la storia ricorda per quel periodo erano seguaci di Bordiga. A Torino stessa, numerosi compagni operai di Gramsci venivano dalla frazione astensionista bordighista. Il fascino di Bordiga derivava dalla sua dirittura, dal suo coraggio, dalla sua coerenza, dal suo grande talento di organizzatore, pieno di inventiva e anche di fantasia, dalle sue eccezionali capacità di lavoro. Voleva un partito di avanguardia, di quadri, di rivoluzionari di professione, quale quello di Lenin era stato prima del 1917 e lo creò nell'Italia che si fascistizzava sulle rovine di un movimento operaio socialista.

Del fascismo Bordiga - e questo fu il suo errore più grave - non si preoccupava. Per lui esso era un nemico non diverso dalla società capitalistica in ogni sua forma politica, democratica e socialdemocratica. La rivoluzione non era più possibile nell'immediato, ma sarebbe tornata possibile in un avvenire più o meno lontano, in conseguenza di nuove guerre e delle crisi ricorrenti dell'economia capitalistica, previste da Marx. Nel frattempo occorreva creare il partito dei rivoluzionari di professione in grado di agire risolutamente allorché l'occasione rivoluzionaria si fosse ripresentata. L'azione che Bordiga postulava doveva essere, in ultimo, azione armata, con insurrezione e guerra civile, ma non terroristica. Sulle orme di Marx respingeva categoricamente gli attentati terroristici, pur dicendosi solidale con gli anarchici di fronte alle repressioni.

Alcune migliaia di militanti comunisti, inizialmente soprattutto giovani, vissero in Italia, alla vigilia del fascismo e durante il fascismo così come Bordiga li aveva esortati a vivere. Dedicarono tutta la loro esistenza al partito, illegale di fatto anche quando formalmente era ancora legale. Vissero in spartana povertà, con spirito di sacrificio, durezza, pazienza, dedicandosi esclusivamente all'organizzazione e alla propaganda.

Abbandonarono Bordiga, dopo aver solidarizzato con lui, ancora nel 1924, contro i deliberati dell'Internazionale, allorché egli stesso lasciò la direzione del partito e si misero dietro a Gramsci e poi dietro a Togliatti, ma la loro prima formazione mentale e pratica era bordighista. Questo vale per Longo, Secchia, D'Onofrio e per molti funzionari e militanti del partito nei primi decenni della sua storia.

Fideisticamente credente nella necessità storica del comunismo, come persona Bordiga non aveva tuttavia nulla del fanatico. Era straordinariamente simpatico, cordiale, allegro. A Mosca diventò famoso per gli scherzi che, coi delegati più giovani, italiani e d'altri Paesi, combinava ai personaggi più autorevoli.

Bukharin, che sapeva come ricambiarlo di pari moneta, era uno dei suoi bersagli prediletti. Su di lui Bordiga scrisse, in francese una rima: «Resolution qu'il faut voter, faut voter all'unanimité». Bukharin chiedeva, infatti, il voto unanime delle risoluzioni, anche da parte di coloro che, come Bordiga ed i suoi, sempre più spesso non ne condividevano i contenuti.

Dei dissensi fra Bordiga ed i dirigenti sovietici dell'Internazionale correvano già quando Lenin era ancora in salute, ma si aggravarono durante la malattia del capo supremo e diventarono insanabili, fra i sovietici medesimi, dopo la sua morte. Avevano radici ideologiche, motivi personali. Poiché non tutti erano disinteressati come Bordiga, ma erano dovuti soprattutto al mutamento della situazione effettiva, nell'Unione Sovietica e nel mondo intero. Il comunismo di guerra era fallito ed aveva dato luogo ad un parziale ritorno al mercato e a possibilità, invero minuscole, di arricchimento per contadini, piccoli proprietari e per commercianti od artigiani.

In Europa l'ondata rivoluzionaria era finita dappertutto nella sconfitta dei movimenti o partiti comunisti, spesso messi fuorilegge. In Italia vinceva il fascismo. La cosa lasciava relativamente indifferente Bordiga che guardava a lunga scadenza. I dirigenti dello Stato sovietico, che erano anche i capi dell'Internazionale, non potevano, invece, non preoccuparsi della realtà in atto, dentro e fuori dei confini del loro immenso paese: Le loro opinioni sul da farsi si mescolavano con le lotte personali che li contrapponevano per la successione a Lenin.

Il conflitto con Bordiga, e con altri esponenti delle correnti di estrema sinistra, di varia provenienza ideologica e nazionale, lo aveva aperto Lenin. L'isolamento nuoceva all'Unione Sovietica. Essa aveva bisogno di relazioni diplomatiche e commerciali col massimo possibile di Paesi, quale che fosse il loro regime sociale o politico e di cooperazione politica con diversi partiti: nelle nazioni che si sentivano oppresse coi partiti nazionalisti, in quelle imperialistiche coi partiti o sindacati socialdemocratici.

 

E dopo il 1945 faceva soltanto il costruttore edile

 

Bordiga era contrario al fronte unico con le socialdemocrazie, prospettato da Lenin e ancor più alla rifusione con la maggioranza massimalista del partito socialista italiano, proposta dai capi dell'Internazionale comunista. Quanto al fronte unico, che del resto quasi tutti i partiti socialdemocratici rifiutavano, Bordiga raccontava l'aneddoto del leone e dell'asino. Essi avevano concordato di farsi portare l'uno dall'altro, di volta in volta, in salita e in discesa: Il leone si metteva sul dorso dell'asino in salita, l'asino sul dorso del leone in discesa. Il primo si aggrappava con gli artigli il secondo con un arnese più acconcio. La rifusione col partito massimalista italiano, che poi la respinse, con l'energico intervento di Nenni, secondo Bordiga avrebbe inchiodato e reso sterile il giovane partito comunista. L'Internazionale avendolo disapprovato su ambo le questioni, Bordiga uscito dal carcere in cui aveva trascorso buona parte del 1923, non volle più riprendersi la segreteria del partito e passò all'opposizione.

Questa era ancora possibile, ma solo per due o tre anni, anche nell'Internazionale ed era anzi impersonificata da Trotski. Il potere nell'URSS era passato nelle mani di Stalin, che Trotski giudicava come una ottusa mediocrità, nel che sbagliava di grosso e, contemporaneamente, come un intrigante ed ambizioso pericolosissimo, nel che coglieva nel segno. La sostanza del contrasto riguardava comunque il problema di fondo del regime comunista. Stalin sosteneva che il socialismo poteva essere edificato nella sola Unione Sovietica, anche se la rivoluzione mondiale, nella vicinanza della quale non credeva, non le veniva in soccorso. Trotski, che sperava nella rivoluzione in Europa ed in Cina e voleva che si facesse di tutto per fomentarla, negava che l'arretrata Unione Sovietica potesse costruire il socialismo da sola. Uno dei suoi compagni, il caustico e burione Radek (d'origine ebraica come Trotski) interpellò il rabbino. «Il socialismo in un solo Paese è possibile» fu la risposta «sol che si vive meglio fuori».

Bordiga si schierò con Trotski andando però più lontano nell'analisi disincantata. Per Trotski l'URSS in virtù della sua rivoluzione sociale, sboccata nella nazionalizzazione delle industrie rimaneva uno Stato operaio, che il regime staliniano, sempre più totalitario, faceva degenerare, ma che si sarebbe potuto rigenerare in futuro.

Bordiga scorgeva viceversa, nell'URSS, la prepotente ed inarrestabile avanzata del capitalismo di Stato che del socialismo era la negazione non meno drastica di quella costituita dal capitalismo privato. Lo svolgimento successivo con la collettivizzazione forzata delle campagne non gli ha dato torto. L'aver respinto l'offerta fattagli di trasferirsi a Mosca, come vicepresidente della terza Internazionale, gli salvò la vita, altrimenti avrebbe fatto la fine di molte migliaia di suoi compagni nel periodo delle mostruose purghe staliniane.

Del partito comunista italiano Gramsci, aspramente criticato allora da Bordiga, era diventato il segretario generale. Togliatti il rappresentante a Mosca, nell'Internazionale. Nel 1926 Gramsci stesso comprese che Stalin mirava a soffocare ogni voce critica ed espresse nella lettera a Togliatti di cui si è tanto parlato recentemente, le sue allarmate riserve. Ormai era troppo tardi. Nell'Internazionale lo spirito della rivoluzione aveva già ceduto ogni posto all'unanimità della risoluzione, che Bordiga aveva denunciato quattro anni prima. Bukharin ne sarà una delle più insigni vittime.

In Italia, con le leggi eccezionali dell'autunno '26, tutti i partiti antifascisti vennero soppressi ed i loro esponenti inviati al confino di polizia. Ad Ustica, Bordiga e Gramsci si ritrovarono e ridiventarono amici, pur nella permanenza delle divergenze, filosofiche e politiche. Indi furono gettati in carcere, Bordiga per alcuni mesi, Gramsci per tutta la vita. Tornato al confino, questa volta a Ponza, Bordiga vi trovò un numero sufficiente di suoi seguaci per poter manifestare una solidarietà di gruppo con Trotski, mandato in esilio dall'Unione Sovietica.

Il gesto finì col valere a Bordiga l'espulsione dal partito da lui fondato decretata dalla direzione che con Togliatti si era trasferita a Parigi. Per Bordiga la cosa non aveva più importanza. Non credeva più nel possibile risanamento dell'URSS o dei partiti comunisti esteri stalinizzati e neppure nell'azione illegale che il partito comunista italiano, coi militanti da lui forgiati e coi giovani che si aggiungevano a loro, conduceva in Italia. Non ci credeva non soltanto, come gli venne rimproverato, perchè quei militanti finivano quasi sempre nelle carceri del Tribunale speciale, , ma perchè le loro idee erano ormai manipolate dalla retorica e dai falsi dello stalinismo. Che il partito comunista italiano crescesse malgrado ciò, nelle prigioni, nella clandestinità, in esilio, non gli pareva più significativo.

Rientrato a Napoli, al termine del confino, Bordiga essendosi laureato da giovane in ingegneria, si mise a lavorare nell'attività delle costruzioni. Quasi tutte le notizie confermano il suo pessimismo. L'Internazionale fu sciolta, nel corso della seconda guerra mondiale, quando Stalin reputò di non averne più bisogno.  Bordiga non parteggiava per nessuna delle potenze belligeranti. Nelle democrazie capitalistiche non aveva maggiore fiducia che nel nazismo o nel fascismo. Non cercò di partecipare alla resistenza. Si teneva in disparte per l'eventualità che giudicava assai remota, della rinascita di una prospettiva di rivoluzione proletaria autentica, non falsata come le sovietizzazioni staliniane dei Paesi conquistati dagli eserciti dell'URSS.

Scrisse dei libri, fra i quali una storia della sinistra comunista, che aveva guidato, con tutto il partito comunista d'Italia, nel primo dopoguerra, ma li fece pubblicare anonimi, a proprie spese. Pochi militanti, rimastigli fedeli, li diffondevano. Dopo la destalinizzazione, non altri che Togliatti accennò alla possibilità di riabilitarlo, ma non esplicitamente. Non reagì al tentativo. Si spense nel 1970, senza che le grandi masse dei comunisti e del proletariato, che già s'imborghesiva, anche se non a Napoli, s'accorgessero della sua scomparsa. Il suo nome rimane nella storia, nelle illusioni, nella leggenda del movimento rivoluzionario italiano ed internazionale.

 

Leo Valiani

 

Il Corriere della sera, 24 ottobre 1988