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archivio > Articoli su Bordiga>Giuseppe Fiori, Bordiga, un combattente coraggioso e dogmatico (Stampa sera 27 luglio 1970)

aggiornato al: 25/02/2008

Stampa sera, 27 luglio 1970

Giuseppe Fiori, di cui abbiamo pubblicato un altro articolo («Il vecchio Bordiga, oggi» La Stampa, 16 maggio 1970) scrisse questo articolo un paio di giorni dopo la morte di Bordiga.

Fiori è stato presentato nell'articolo precedente; questo ci pare ben fatto ed interessante ed è inutile aggiungere altro.

 

 

Bordiga, un combattente coraggioso e dogmatico

 

Rigido e assiomatico nell'applicazione delle dottrine marxiste, capeggiò al congresso di Livorno la frazione comunista e fu alla testa del partito per qualche anno. Messo in minoranza da Gramsci al congresso del '26 a Lione, fu espulso dal pci nel '30, perchè Stalin lo sospettava di essere legato a Trockij. Confinato dal fascismo, si ritirò poi nella casa di famiglia a Formia, dove è spirato l'altro giorno a 81 anni.

 

Napoli, lunedì mattina. Si è spento sabato a Formia Amadeo Bordiga, uno dei fondatori del pci. Aveva 81 anni. Era nato a Resina (Napoli) nel giugno del 1889. Era figlio di un professore piemontese di Economia rurale, insegnante alla scuola superiore d'agricoltura di Portici e autore di Studi sul Mezzogiorno. Anche Bordiga dopo essersi laureato in ingegneria, aveva ottenuto poco dopo un incarico a Portici come assistente di meccanica agraria. Giovanissimo era entrato nella sezione socialista di Napoli, rappresentandola al Congresso nazionale della gioventù socialista del 1912. In questa occasione si era messo in evidenza con un discorso fortemente polemico nel confronti del 'leader' socialista giovanile di Torino, Angelo Tasca.

All'inizio degli anni trenta, liberato dal confino di Ponza ma anche espulso dal PCI per l'errata convinzione di Stalin d'un suo collegamento a Trockij, Amadeo Bordiga s'era ritirato a Formia. L'esercizio della professione di ingegnere gli consentiva di guadagnarsi da vivere senza compromissioni con il regime fascista. Era però ridotto all'inattività politica, dopo quasi un ventennio di battaglie combattute da protagonista nelle file del movimento operaio.

Un mattino dell'estate '35, inforcata la sua bicicletta, andò verso la periferia di Formia. Non s'aspettava certamente di incontrare di lì a poco un compagno illustre incarcerato da Mussolini nove anni prima; un compagno per il quale ancora nutriva sentimenti di tenace affetto nonostante gli scontri spesso duri degli ultimi anni di comune militanza nel pci. Era un giorno chiaro, afoso. Spuntò dall'altro capo della via un calesse occupato da due uomini: il più anziano, in occhiali, terreo in viso e di corporatura sgraziata, dava l'impressione d'essere gonfio più che grasso. Bordiga rallentò. Non poteva sbagliarsi: l'uomo in carrozzella era proprio lui, Antonio Gramsci. Per la sorpresa e l'emozione rimase un istante senza fiato. Ignorava che dal 7 dicembre '33 il vecchio compagno ed antagonista viveva a poche centinaia di metri da casa sua, internato nella clinica Cusumano. Gli avevano concesso nell'ottobre del '34 la libertà condizionale; ma, benché formalmente "scarcerato", Gramsci non poteva andare altrove per  curarsi in una clinica specializzata. Soltanto era libero d'uscire per qualche passeggiata scortato dalla polizia. Quel giorno gli teneva compagnia il fratello Carlo.

Come il calesse fu a portata di voce, Bordiga semplicemente disse: «Buon giorno Antonio». Gramsci rispose: «Buon giorno Amadeo». Nient'altro.  Non si vedevano dal gennaio del '27. non si sarebbero più rivisti. E' un episodio inedito riferitomi dallo stesso Bordiga in un incontro recente. Aggiunse: «Ci stimavamo vicendevolmente. La diversità di formazione culturale e le contese ideologiche non ebbero mai la conseguenza d'incrinare i nostri buoni rapporti. Ricordo la sua visita a Napoli nel '25. Veniva per tagliarmi l'erba sotto i piedi, in preparazione del congresso di Lione. Napoli era la mia fortezza e Antonio pretendeva d'espugnarla. Tuttavia lo ricevetti in casa. Chi ci avesse visti insieme avrebbe faticato ad immaginarci avversari. Lui prendeva sulle ginocchia la mia figlioletta Alma e facendola trotterellare come su un somarello sardo le canticchiava una filastrocca che finiva con il verso 'Nel Perù però perì'. Anche s'improvvisava cantatore di romanze d'operetta e metteva in casa un clima di giovialità».

Non sono immagini arricchite dal fervore fantastico per testimoniare strumentalmente un'amicizia. Realmente  Bordiga e Gramsci furono amici e lo rimasero anche dopo l'urto per conquistare la direzione del partito. «Hanno fatto di tutto - mi diceva il vecchio leader napoletano con allusione polemica a Togliatti - per nascondere ai giovani il tipo di legame che mi univa ad Antonio. Sono persino arrivati a censurare lo stesso Gramsci togliendo dalla prima edizione delle "Lettere dal carcere" ogni riferimento alla mia persona. Stavamo insieme a Ustica e Antonio parlava con simpatia di me alla moglie Julca e alla cognata Tania. Bene, quelle frasi le hanno soppresse». E ricordandolo Bordiga s'accendeva: anche vicino alla morte era facile a scoppi di furore. Ma perchè la censura operata da Felice Platone che nel 1945-46 riordinava, sotto la guida di Togliatti, le lettere di Gramsci? Per settarismo gratuito? Le omissioni erano ispirate da un ben preciso calcolo politico essendo viva in quegli anni la preoccupazione che Bordiga, messo in minoranza nel 1926 a Lione e poi espulso nel '30, avesse ancora dopo la Liberazione un largo seguito e fosse capace di riemergere con forza trascinante. E' stato Giorgio Amendola a rivelarci recentemente («Critica marxista», maggio 1967) la vera causa di quella censura: «Tra i motivi che consigliarono i tagli ci fu anche il proposito di togliere a Bordiga, quando ancora non si conoscevano i suoi progetti e si pensava che volesse tentare un ritorno nella lotta politica, la possibilità di giovarsi dell'autorità morale che gli veniva dai rapporti con Gramsci». Lo giudicavano dunque ancora avversario temibile. Togliatti lo aveva ammesso subito dopo la sua espulsione («Lo Stato Operaio», aprile 1930): «Espellere il bordighismo è una cosa più difficile che non espellere Bordiga». Un'affermazione certo incomprensibile oggi per chi sia rimasto alle storie non aggiornate del partito comunista e in conseguenza di ciò ignori il ruolo preponderante che Bordiga ebbe nella scissione di Livorno e nella direzione del nuovo partito fino al '24.

A Livorno Gramsci tacque e Togliatti non era presente. Capeggiava la frazione comunista assai poco omogenea il leader napoletano, troppo forte allora per temere che i "culturalisti" dell'Ordine Nuovo (così ironicamente li definiva) ne minacciassero la posizione egemonica. Intervenne la mattina del 19 gennaio 1921 parlando come un capo corrente alla cui ideologia anche i comunisti "torinesi" prima o poi si piegheranno: «Vi possono essere fra noi deboli, incapaci, incompleti, possono esservi fra noi dei dissensi: Gramsci può essere su una falsa strada, può seguire una tesi erronea quando io sono su quella vera, ma tutti lottiamo ugualmente per l'ultimo risultato».

Era schematico quanto gli "ordinovisti" erano problematici. Aveva letto e studiato i classici del marxismo ricavandone un complesso di regole assiomatiche e giuste in tutti i tempi, in tutti i luoghi e in ogni circostanza. «Egli aveva uno schema da applicare e da dimostrare: peggio per la realtà che non voleva entrare in esso» (sono parole di Togliatti scritte nel '30). Restio al confronto con le altre correnti culturali, non capiva ed energicamente rifiutava giudicandole civetterie intellettuali le posizioni dei "torinesi" attenti lettori dei filosofi idealisti. Rispose una volta ad Angelo Tasca durante una delle assise della gioventù socialista nel 1912: «La necessità dello studio la proclama un congresso di maestri, non di socialisti».

Ma il difetto di cultura era riscattato da una capacità organizzativa e da qualità del carattere non comuni. Anche quelli che lo combatterono dicono di lui che era un uomo disinteressato, privo di vanità, leale. Non ebbe mai il culto della personalità altrui e polemizzò a viso aperto con Lenin e con Zinoviev, ma nemmeno permise il culto della personalità propria. Raramente firmava gli articoli, le sue foto sono introvabili. Nel primo nostro incontro tenne a precisarmi: «Non sono mai stato segretario del partito; ero uno dei componenti del comitato centrale». Quando nel '24 Zinoviev ritenne di poterlo recuperare alla linea della maggioranza offrendogli il posto di vice presidente dell'Internazionale, Bordiga, inflessibile nella difesa delle sue tesi dogmatiche, rifiutò: non era uomo da lasciarsi corrompere da un incarico di prestigio. Aveva disgusto per il potere barattato, per la transazione ideologica, per la menzogna che altri giustificavano con i fini tattici.

«Hanno detto di me tante cose, nel bene e nel male - mi confidò una volta - ma il miglior complimento l'ho avuto da Stalin. Sai quel che Stalin pensava di me? Ricavalo da questa sua battuta: 'Quando una cosa la dice la Ruth Fischer non solo è una bestialità dottrinaria, ma è anche una bugia. Quando la dice Maslow è una bestialità e può anche essere una bugia: Dicendola Bordiga molte volte può essere una bestialità ma certamente non è una bugia».

Immagino che se non avesse avuto ripugnanza per le epigrafi, dovendo scegliere, avrebbe indicato questa per la sua tomba.

 

Giuseppe Fiori

 

Stampa sera, 27 luglio 1970