Cerca nel sito



 


archivio > Articoli su Bordiga>Mario Bonini: Bordiga, Gramsci e il PCI (La Stampa, 24 marzo 1972)

aggiornato al: 28/06/2011

La Stampa, 24 marzo 1972

Nulla sappiamo di  Mario Bonini che in questo articolo (di quaranta anni fa) raggruppa e recensisce alcuni volumi apparsi sul PCI e le sue origini.

Secondo noi i due lavori più interessanti sono (oltre a quello storico di Angelo Tasca), quelli di Michele Fatica e di Luigi Cortesi. Di quest'ultimo si segnala di Le origini del PCI l'edizione ultima, rivista ed aumentata (FrancoAngeli Milano, 1999) ed inoltre il voluminoso Storia del comunismo Da utopia al Termidoro sovietico (Manifestolibri, Roma, 2010, pp.815, Euro 65) che Cortesi completò,  già malato, poco prima della morte nel settembre del 2009.

 

 

Bordiga, Gramsci e il Pci

Il ruolo dei due "leaders" alle origini del movimento comunista

 

Angelo Tasca: «I primi dieci anni del Pci» Ed. Laterza, pag. 233, lire 1000.

Luigi Cortesi: «Le origini del Pci» Ed. Laterza, pag. 466, lire 1800.

Franco De Felice: «Serrati, Bordiga, Gramsci e il problema della rivoluzione in Italia, 1919-1920», Ed. De Donato, pag. 395, lire 4000.

Aurelio Lepre - Silvano Levrero: «La formazione del Partito comunista d'Italia», Editori Riuniti, pag. 377, lire 2800.

Michele Fatica: «Origini del fascismo e del comunismo a Napoli (1911-1915)» Ed. La Nuova Italia, pag. 527, lire 4000.

 

Partendo da premesse diverse, con fini diversi e con diversa impostazione metodologica, i più recenti studi sulle origini del  movimento comunista italiano tendono a spostare indietro di quasi un decennio l'oggetto iniziale della ricerca. Dagli anni roventi del «dopoguerra rosso» ― ossia dal periodo 1918-1921, in cui l'impatto della rivoluzione bolscevica radicalizzò lo scontro fra  «massimalisti» e «riformisti» sino a rendere inevitabile la scissione, sbocco ormai fisiologico di una convivenza impossibile ― l'attenzione si trasferisce agli anni immediatamente precedenti il primo conflitto mondiale, quando per la prima volta si manifestò, anche se in modo nebuloso e velleitario, l'esigenza di una risposta più incisiva della classe operaia alle trasformazioni economico-sociali in atto nel paese e alla politica di espansione imperialistica ripresa, dopo quindici anni di letargo, con la guerra di Libia.

Non che fra il 1911 e il 1915 fosse stato posto, anche solo su un piano puramente teorico, il problema di un partito nuovo, coerentemente rivoluzionario ed esente da ogni compromissione col «nemico di classe». Fu però espressa, soprattutto da Amadeo Bordiga (nella polemica con Angelo Tasca al congresso giovanile socialista del 1912), l'esigenza di una delimitazione e autonomia netta del partito socialista, cioè dell'esclusione rigida di ogni contatto e convergenza fra i socialisti e le forze «democratico-borghesi» anche avanzate.

Non a caso abbiamo citato Bordiga e Tasca, due uomini che, muovendo da posizioni assai differenti, avrebbero avuto poi una parte di primo piano nella scissione di Livorno e nei primi anni di vita del partito comunista. Fino a non molti anni fa la storiografia comunista ufficiale, non potendo operare tout court la loro cancellazione dagli archivi, aveva sistematicamente svalutato e dileggiato il loro apporto alla formazione del partito e alla sua attività negli anni fra il 1921 e il 1924. Poi è venuto il disgelo: Paolo Spriano per primo e ora Aurelio Lepre e Silvano Levrero, sono fra gli storici militanti nel pci che maggiormente hanno contribuito a ridimensionare le semplificazioni togliattiane e a scrostare lo strato di disinformazione e di calunnia che si era accumulato su tutti gli esponenti, di primo e di secondo piano,  che non provenivano dal gruppo torinese dell' «Ordine Nuovo» o che, come Tasca, ne uscirono assai presto.

 

Gli eterodossi

Ma la revisione e la reinterpretazione degli storici comunisti sono state sollecitate, e in una certa misura imposte dalla comparsa sempre più frequente di testimonianze e studi di fonte non ortodossa. Il saggio sui primi dieci anni di vita del pci, recentemente ripubblicato da Laterza in volume con un'introduzione di Luigi Cortesi, fu scritto da Tasca vent'anni fa e comparve a puntate sul «Mondo» nel 1953, ma conserva in gran parte la sua validità soprattutto laddove riconosce, sia pure con qualche riserva determinata dalla diversità delle posizioni politiche di allora e di dopo, la parte di primissimo piano avuta da Bordiga nella fondazione del partito.

Questa priorità di Bordiga è sottolineata con forza da Cortesi nell'introduzione allo studio di Tasca e, soprattutto, nel suo ampio saggio sulle origini del partito. Cortesi cita, per esempio, un articolo di Bordiga scritto parecchi mesi prima dell'Ottobre bolscevico, in cui si afferma che  «la storia della rivoluzione russa ha la sua chiave nei rapporti fra le diverse correnti socialistiche» e che «il socialismo vecchio stile "senza aggettivi" è finito. C'è una gamma troppo estesa di opinioni nel seno degli organismi tenuti insieme da questo semplice aggettivo "socialista" perché si possa soltanto tacere la necessità di una revisione teorica e tattica dei programmi e dei metodi, seguita da immutabili e definitive separazioni».

A quel tempo ― giugno 1917 ― la posizione di Gramsci era molto più indecisa e, seconda Cortesi, viziata da idealismo e soggettivismo. Solo nella primavera del 1920 il gruppo gramsciano ―  nota ancora il Cortesi ― «scopriva la funzione del partito e per la prima volta compiva un tentativo organico di coordinamento dei problemi locali e di fabbrica con quelli generali e internazionali. Non era però... un punto d'approdo definitivo» perché anche ulteriori atteggiamenti di Gramsci e di Togliatti «rivelano un cammino faticoso, accompagnato da dubbi, da involuzioni, da crisi».

La critica a Gramsci e al gruppo dell' «Ordine Nuovo», come si vede, è radicale. Ma gli stessi Lepre e Levrero, nella premessa al loro libro, dopo aver affermato che «scontati gli effetti della riscoperta di Bordiga, dovrebbe essere ormai possibile considerarlo con sufficiente distacco», aggiungono che «occorre guardarsi, beninteso, anche dal culto di Gramsci, dalla mitizzazione di particolari aspetti del suo pensiero o di particolari momenti della sua attività».

Solo dopo Livorno, in realtà, la riflessione di Gramsci acquisterà spessore e originalità, svincolandosi dalla pregiudiziale bordighiana, che aveva trionfato al momento della scissione, sull'assoluta necessità di subordinare gli interessi delle classi operaie nazionali a quelli del movimento comunista internazionale e della rivoluzione russa assediata. A Livorno, tuttavia, permanevano in Gramsci delle riserve sull'opportunità di quella totale subordinazione; e d'altra parte proprio al 1921 risalgono le prime avvisaglie del dissidio fra lo stesso Bordiga e la Terza Internazionale, che successivamente si aggraverà fino alla rottura. Andando al di là delle stesse enunciazioni di Lenin, Bordiga ― come nota Franco De Felice nel suo studio sui tre protagonisti della polemica contro il riformismo — «tiene ben separati partito e classe e, anzi..., attribuisce al partito una funzione determinante nel processo rivoluzionario»; mentre in Gramsci, anche prima della rielaborazione teorica degli anni del carcere e del confino, è sempre presente e preminente l'esigenza di un rapporto costante, e non a senso unico, fra partito e classe operaia.

 

Momento di crisi

Come il pensiero di Bordiga, il pensiero di Gramsci — secondo De Felice — è un momento della crisi ideologica del proletariato italiano durante e dopo la guerra mondiale; ma «Gramsci di questa crisi costituisce il punto più avanzato e complesso nell'acquisizione permanente dei nuovi termini strategici e tattici in cui si imposta la lotta di classe».

Ci sarebbe da domandarsi per quali motivi la componente, per così dire, «nazionale» e potenzialmente «frontista» del comunismo italiano fosse rappresentata dal gruppo torinese dell' «Ordine Nuovo», sostenitore del movimento dei «consigli» di fabbrica, mentre la componente che si potrebbe definire, per comodità di termini, «bolscevica» e «operaista» faceva capo al gruppo napoletano di Bordiga, formatosi in un ambiente geografico e sociale relativamente lontano dalle esperienze delle avanguardie operaie del Nord.

A questo proposito, tuttavia, nota giustamente Michele Fatica che «il sottosviluppo... a Napoli coabita su di una superficie urbana estremamente ristretta col supersviluppo». E nel giugno 1914, durante la «settimana rossa», si era avvertita a Napoli la presenza di un'avanguardia operaia assai combattiva, «quella stessa di cui Bordiga interpretava le istanze rivoluzionarie e che gli permetterà di rinnovare il partito a Napoli e di stabilire i collegamenti con l'estrema sinistra italiana ed europea».

 

Mario Bonini

 

La Stampa, venerdì 24 marzo 1972