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archivio > Articoli su Bordiga>Vanni B. Montana: Ricordo di Amadeo Bordiga

aggiornato al: 30/10/2007

Vanni B. Montana, 1970

Documentiamo brevemente la figura di Vanni B. Montana (dove il B. sta per Buscemi) autore  di questo interessante articolo, scritto qualche mese dopo la morte di Bordiga.

Giovanni Buscemi nacque a Mazara del Vallo in provincia di Trapani il 12 febbraio del 1902; aderì giovanissimo al PSI e poi, dalla fondazione, al P.C.d'I.; divenne, dopo un arresto nel 1923, confidente della polizia fascista. Alla fine degli anni venti emigrò negli Stati Uniti dove assunse il nome di Vanni B. Montana; successivamente divenne un importante dirigente dei sindacati americani (e collaboratore dell'OSS) ed in questa veste fu in Italia nel 1944-45. Morirà negli USA il 3 novembre 1991.

Sulla figura di Vanni B. Montana è apparso qualche tempo fa un interessante saggio di Angela Torelli : "La doppia vita di un antifascista italo-americano. Vanni Montana da informatore della polizia italiana ad agente dell'OSS" (in: Nuova storia contemporanea, n. 1, 2004, pp. 81-94).

Nell'articolo  è presente un evidente errore: Bordiga non fu espulso dal partito nel 1926 ma (come abbiamo riportato in altra sezione) nel 1930.

 

 

Ricordo di Amadeo Bordiga

 

Al ritorno da una breve vacanza, trovo la notizia che la morte ha colto, nella residenza di Formia, Amadeo Bordiga. Aveva 81 anni.

Sicuro, Bordiga fu il vero fondatore del partito comunista in Italia, nel teatro San Marco di Livorno, febbraio del 1921. La gioventù socialista, nella schiacciante maggioranza, con in testa il suo vero figlio politico di quel tempo, Giuseppe Berti, lo seguì al canto dell'Internazionale e gli fornì il più entusiastico, direi fanatico sostegno.

Mi sono chiesto sovente, perchè Bordiga, uomo tutto di un pezzo, ingegnere che aveva «matematicizzato» il marxismo più ortodosso, negazione di ogni atteggiamento poetico, romantico, sentimentale, fosse riuscito, in quel tempo, a farsi seguire fanaticamente dalla gioventù socialista, diventata poi, in gran parte, comunista, del Partito Comunista d'Italia.

Forse la spiegazione la diede, a me curioso giovanetto, il Prof. Antonio Graziadei, rinomato marxista di quel tempo: «Bordiga ha il difetto di essere un uomo serio in un popolo ricco di buffoni e di ciarlatani»

Potrei aggiungere, forse, che la chiarezza matematica, e nel contempo massiccia e schiacciante, delle sue tesi, offrivano ai giovani le soluzioni semplicistiche e finalistiche da cui, per loro natura, erano più facilmente attratti.

Bordiga, superato l'astensionismo elettorale del periodo precedente al congresso di Livorno e che gli procurò le critiche di Lenin, ritenne che la rivoluzione non poteva che essere vicina, inevitabile, che il capitalismo italiano non sarebbe riuscito a cavarsela dai sommovimenti di quell'immediato dopoguerra, e che, data la favorevole situazione obbiettiva (la situazione definitivamente rivoluzionaria), per evitare che tutto finisse nel caos, nella fine della civiltà, occorreva approntare la condizione soggettiva, cioè la formazione immediata di un partito comunista, che rompesse con ogni forma di opportunismo politico e sindacale.

I giovani erano abbagliati, e per un momento anche chi scrive ne subì un certo incanto.

Preso, tutto preso nel suo «matematicismo» marxista, Bordiga, con le sue Tesi al Secondo Congresso della Terza Internazionale, che fece sostenere da Umberto Terracini, allora suo fedelissimo seguace, sfidò Lenin e Zinoviev, e da quel momento i suoi contrasti con Mosca non si attenuarono, anzi aumentarono di asprezza. Mosca iniziò la manovra sotterranea volta a minargli la base, per corrompergli, non solo ideologicamente, uno dopo l'altro i più fidi collaboratori, fra cui il Berti, uomo e studioso preparatissimo, forse e senza forse più di Togliatti, e da costui perciò a poco a poco declassato in questo ultimo dopoguerra, nella gerarchia suprema del partito comunista italiano. Il partito aveva assunto questo nome dopo che nel congresso clandestino di Lione Bordiga era stato espulso (mi pare che egli allora fosse in carcere in Italia) e dopo che un gruppo di irriducibili bordighiani emigrati in Francia, fra cui il Prof. Michele Pappalardi, il veemente e coraggioso operaio metallurgico toscano Bibbi, ed altri erano stati violentemente aggredito e poi, secondo una loro accusa, denunciati dai nuovi gerarchi del partito alla polizia francese ed espulsi dalla Francia. In tal modo la riorganizzazione strutturale del partito ed il suo asservimento alla politica di Mosca potè continuare senza troppi disturbi bordighiani.

Indubbiamente, l'analisi fatta da Bordiga (ed anche, del resto, da Lenin) che il capitalismo non sarebbe riuscito a risollevarsi dalla crisi del 1921, era errata. Quando il Partito Comunista d'Italia venne fondato, creando la «condizione soggettiva» si era già entrati in una situazione controrivoluzionaria, che trovava la classe operaia italiana sulla difensiva, le sue camere del lavoro, leghe e cooperative, dirette da socialisti e non da comunisti, venivano distrutte col ferro e col fuoco, per cui la scissione di Livorno non trovò né giustificazione storica né successo politico.

Tutto preso nel suo puro matematicismo marxista, Bordiga, alla vigilia dell'ottobre 1922, proprio pochi giorni prima della marcia su Roma, dichiarava che il fascismo non avrebbe preso il potere, perchè il capitalismo gli ... preferiva la democrazia. Quando arrivò a Mosca la notizia che il re  aveva reso possibile il successo della marcia su Roma chiamando al governo Mussolini, Zinoviev cercò di prendersi la «rivincita ideologica» su Bordiga, definendolo «un poteau télégraphique» senza fili e aggiungendo: «Se non fossimo sicuri della sincerità di Bordiga, dovremmo pensare ad un suo tradimento».

Un po' più tardi, Bordiga, nettamente sfidò Mosca, dichiarando che il Partito Comunista d'Italia non avrebbe mai rinunciato al suo diritto di manifestare le proprie vedute anche in dissenso con Mosca. Questo fu il principio della sua fine in quanto capo del partito.

In retrospettiva si potrebbe dire che se Bordiga non fosse finito in carcere e se il Partito Comunista d'Italia non fosse stato sciolto dalla dittatura mussoliniana, Mosca non sarebbe riuscita, come è riuscita poi, ad asservire il comunismo italiano alla sua politica. Il dissenso fra un partito comunista d'Italia, diretto da Bordiga, e il Cremlino sarebbe probabilmente aumentato fino alla rottura. D'accordo sono con coloro i quali dicono che in un certo senso Bordiga fu un precursore del dissenso maoista e del recente dissenso italiano del gruppo del «Manifesto».

Tutti i giornali italiani si occupano in questi giorni di Amadeo Bordiga, figlio napoletano di un alto funzionario piemontese e di una contessa Amidei che volle battezzarlo appunto col nome di Amadeo e non Amedeo come tanti scrivono credendolo più corretto.. Certo Bordiga, figura di assoluta integrità, per ripetere quel che una volta mi disse Graziadei, resta nella storia del comunismo italiano col ... difetto dell' «uomo serio fra tanti buffoni e ciarlatani».

Nell'agosto del 1944, trovandomi a Roma con Antonini poco dopo l'ingresso degli americani - la città era al buio, affamata - una curiosità suscitata dai ricordi giovanili mi fece cercare Amadeo Bordiga.

Un giovane socialista di gran nome, mi disse: «Vuoi vederlo? Te lo faccio vedere». E così lo incontrai. Era rimasto lo stesso del 1921, però con l'aspetto fisico molto meno teso di allora. Non volle nessun aiuto, neanche un caffè. Si ricordava di me, di un articolo che verso il 1921 avevo scritto sull'occupazione, da me capeggiata, del feudo Zafferana nelle vicinanze di Mazara del Vallo in Sicilia. La moglie, Ortensia, della famiglia di Corso Bovio, era sofferente; me lo disse una sua sorella ed a questa, sperando che raggiungesse Ortensia, diedi un po' di quel che Sheba Strunsky, dell'International Rescue Committee, mi aveva consegnato per aiutare qualche bisognoso.

 

Vanni B. Montana,  New York, agosto

 

Critica Sociale n. 16-17, 5 settembre 1970

 

 

L'ultima parte dell'articolo è ampliata e più sviluppata nelle memorie che Montana scrisse (Vanni B. Montana, Amarostico testimonianze euro-americane, Livorno, U.Bastogi Editore, 1975, pp. 285.86). Riportiamo la parte che ci interessa:

 

«Un giovane socialista di gran nome, Matteo Matteotti, mi chiese nel corso di una passeggiata serale se prima della marcia su Roma avessi conosciuto Amadeo Bordiga, l'ingegnere napoletano che, per la sua dirittura personale, anche prima del congresso di Livorno, era stato l'idolo dei giovani socialisti italiani, e continuò a rimanerlo anche dopo Livorno, per gran parte dei comunisti italiani, giovani e adulti.

-E' ancora fra i viventi? Interrogai a mia volta.

-Si, per sottrarsi ai bombardamenti, si era rifugiato in una caverna, nei pressi di Formia; ora è a Roma, la moglie Ortensia è ammalata. Un figlio, Oreste, che si specializza in critica cinematografica, pare vicino a noi giovani socialisti.

Grazie a Matteo Matteotti, incontrai Amadeo Bordiga l'indomani. Non era l'uomo dal fisico poderoso e gagliardo che mi immaginavo. Dopo le prime parole, mi accorsi che era rimasto politicamente ed ideologicamente quell'uomo tutto d'un pezzo che gli aveva procurato la defenestrazione, per volontà di Mosca, da capo del partito comunista, il partito di cui era stato il principale fondatore ed il primo segretario generale, e del quale aveva la maggioranza degli iscritti, una maggioranza che per il Cremlino non significava alcunché.

Gli offrii un caffé, gli chiesi se avesse bisogno di qualche aiuto, generi alimentari o altro, mi ringraziò dicendo che non aveva bisogno di niente. Mi nascondeva la verità, ma avrei potuto, se lo desiderassi, incontrare il figlio Oreste e portarlo a pranzo.

Incontrai poi il giovane Oreste Bordiga, e lo ebbi a pranzo, da Alfredo, in via della Scrofa. Un tipo del tutto diverso dal padre, per quanto gli rassomigliasse molto nel fisico. Mi confermò che la madre era ammalata, se lo volessi, me la farebbe incontrare l'indomani.  Che Ortensia Bordiga fosse veramente ammalata, potei avvedermene appena la vidi. Non volle accettare alcun aiuto.

L'indomani venne a trovarmi una sua sorella. Mi disse: - Ho con me un braccialettino con pietre di smeraldi. Vorrei venderlo per aiutare mia sorella Ortensia. -Quanto vale? chiesi. La somma che mi chiese equivaleva a quasi 500 dollari. Gliela diedi. -Questo è un ricordo di famiglia e ci teniamo molto. Prendo il denaro come in prestito. Poi potremo riacquistare il braccialetto. -Va bene, dissi. Il "gioiello" esaminato dai gioiellieri valeva non più di venti dollari. le pietre non erano vero smeraldo. Nulla di male se l'aiuto fosse andato alla Ortensia.».