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archivio > Articoli su Bordiga>Franco Pedone, I Congressi di Livorno del 1921 (Il calendario del popolo, aprile 1982)

aggiornato al: 16/10/2010

Il Calendario del popolo, n. 443, aprile 1982

Una descrizione "giornalistica"  del XVII congresso del PSI del 1921 a Livorno e del passaggio dal teatro Goldoni a quello San Marco in cui nacque il partito Comunista d'Italia.

Altri lavori, cui magari prossimamente attingeremo, si diffondono più ampiamente su questo Congresso e sulla nascita del Partito Comunista.

Utile, di tanto in tanto, un po' di archeologia!

 

 

I Congressi di Livorno del 1921

 

 

Dal teatro Goldoni al teatro San Marco, la cronaca dettagliata dei dibattiti di quelle decisive giornate di gennaio

Il XVII Congresso nazionale del Partito socialista italiano, che avrebbe dato origine alla scissione della frazione «comunista pura» e alla conseguente costituzione del Partito comunista d'Italia. ebbe luogo al teatro Goldoni di Livorno da 15 al 21 gennaio 1921.

Il Congresso era stato preceduto dalla stesura, da parte del Comitato esecutivo della III Internazionale, delle 21 condizioni giudicate indispensabili per l'adesione dei partiti socialisti all'Internazionale stessa. Riportiamo integralmente i punti 7, 17 e 21 che sarebbero stati al centro del dibattito dell'assise socialista.

Punto 7: I partiti che desiderano appartenere all'Internazionale comunista sono obbligati a riconoscere la completa rottura col riformismo e con la politica del «centro» e a propagare questa rottura nella più ampia cerchia politica comunista. L'Internazionale comunista chiede incondizionatamente ed ultimativamente l'effettuazione di questa rottura nel più breve tempo possibile. L'Internazionale comunista non può tollerare che opportunisti notori, quali Turati, Kautsky, Hilferding, Hillquit, Longuet, Macdonald, Modighiani, ecc. abbiano il diritto di passare per membri della III Internazionale. Ciò avrebbe soltanto per conseguenza che la III Internazionale rassomiglierebbe a pennello alla defunta II Internazionale.

Punto 17: Tutti i partiti che vogliono appartenere all'Internazionale comunista debbono cambiare il loro nome. Qualunque partito che voglia appartenere all'Internazionale comunista deve portare il nome: Partito comunista (del paese così e così), sezione della III Internazionale comunista. La questione del nome non è soltanto una questione formale, ma questione politica di grande importanza. L'internazionale comunista ha dichiarato la guerra a tutto il mondo borghese e a tutti i partiti socialisti democratici gialli. E' necessario che a ogni semplice lavoratore sia chiara la differenza fra i partiti comunisti e gli antichi partiti socialdemocratici e socialisti, che hanno tradito la bandiera della classe operaia.

Punto 21: Quei membri del Partito che respingono per principio le condizioni e le tesi formulate dall' Internazionale Comunista, debbono essere espulsi dal partito. Lo stesso vale specialmente per i delegati al Congresso straordinario.

Al Congresso si scontrano cinque frazioni e cioè: quella dei «comunisti puri», che aveva quali principali esponenti Antonio Gramsci, Amadeo Bordiga e Umberto Terracini, e che accettava integralmente i 21 punti della III Internazionale; quella dei comunisti unitari che faceva capo a Giacinto Menotti Serrati e ad Adelchi Baratono, aderente con riserva alle tesi stesse: quella di Anselmo Marabini ed Antonio Graziadei che si proponeva, quale obiettivo, di impedire la rottura fra le altre due frazioni comuniste; la vecchia frazione «intransigente-rivoluzionaria» capeggiata da Costantino Lazzari; ed infine quella «concentrazionista» (riformista) della quale facevano parte, in primo piano, Filippo Turati e Giuseppe Emanuele Modigliani dei quali, come abbiamo visto, la III Internazionale aveva chiesto l'espulsione.

Nel mese di ottobre si erano riunite a convegno, rispettivamente a Reggio Emilia e ad  Imola, le frazioni «concentrazionista» e «comunista pura». La prima, pur dichiarando la propria adesione alla III Internazionale, si era pronunciata contro qualsiasi discriminazione degli elementi socialdemocratici e per la conquista legalitaria del potere. La seconda aveva riconfermato, in un manifesto, un'incondizionata adesione ai 21 punti. Serrati invece, nel corso di una riunione di deputati della sua frazione tenutasi a Trieste, partendo dalla premessa della diversità della situazione russa da quella italiana, aveva sottolineato la necessità del mantenimento dell'unità del Partito. Al Congresso parteciparono, secondo la relazione della direzione del Partito uscente, i rappresentanti di 4.367 sezioni con 216.337 iscritti. I lavori furono aperti da Giovanni Bacci, il quale ricordò come il Partito socialista italiano fosse stato il primo a ricostruire a Lugano, a Zimmerwald ed a Kienthal le fila dell'Internazionale e come esso fosse stato fra i più accaniti difensori della rivoluzione bolscevica. Subito dopo scoppiò nella sala il primo dei numerosi tumulti che avrebbero contrassegnato il Congresso, in seguito alla richiesta da parte dei delegati comunisti dell'espulsione dalla sala dei partiti non aderenti alla III Internazionale. La calma ritornò soltanto quando il Segretario del partito uscente, Egidio Gennari annunciò che i rappresentanti di quei partiti avrebbero potuto assistere al Congresso soltanto in qualità di invitati. Seguirono i saluti di Paul Levi a nome del Partito comunista unificato di Germania e la lettura dei messaggi inviati da alcuni partiti comunisti stranieri e dalla III Internazionale. Il contenuto di questo ultimo provocò nella sala vivaci reazioni. «Le decisioni del II Congresso mondiale dell'Internazionale comunista - vi si leggeva - obbligano ogni partito aderente a questa Internazionale a rompere coi riformisti. Chi si rifiuta di effettuare questa scissione viola una risoluzione essenziale dell'Internazionale comunista e con questo solo fatto si pone fuori delle fila dell'Internazionale».

 

La speranza di salvare un'unità impossibile

Dopo l'intervento di Secondino Tranquilli (il futuro Ignazio Silone) il quale dichiarò che la Federazione giovanile socialista aveva deciso, nella sua grande maggioranza, di aderire al Partito comunista che sarebbe uscito dal Congresso, prese la parola Graziadei: «I compagni comunisti unitari - egli disse - con la speranza di salvare un'unità impossibile, contribuiscono alla divisione, nel modo più irrazionale e illogico, perché essi si separano dai più vicini per andare coi più lontani. Questo partito nuovo che in nome dell'unità avrà ucciso l'unità, che in nome della forza avrà ucciso lo spirito, messo domani tra l'Internazionale comunista e la destra, si sfalderà e a poco a poco la sinistra di questo partito, facendo perdere alla rivoluzione ore preziose, finirà con l'unirsi con la frazione comunista». Proseguendo egli chiese ai «comunisti puri» di spersonalizzare la loro richiesta di espulsione che avrebbe dovuto essere fatta non nei confronti dei compagni che avevano partecipato al Convegno riformista di Reggio Emilia ma di quelli che non accettavano le condizioni della III Internazionale e non si impegnavano ad applicarle dopo il Congresso.

Salì quindi alla tribuna quale rappresentante del Comitato esecutivo  della III Internazionale, il bulgaro Christo Kabaktceff, il cui intervento fu contrassegnato dall'applauso dei «comunisti puri» e dagli urli degli altri congressisti che, allorquando l'oratore ribadì l'espulsione dall'Internazionale comunista per coloro che avrebbero votato la mozione dei «comunisti unitari», sottolinearono con sarcasmo le sue parole: «Scomunica maggiore!» «Viva il papachieff!». Kabaktceff, che aveva preparato il suo discorso insieme con l'altro delegato dell'Internazionale, l'ungherese Mathyas Rakoczy, illustrò il punto di vista di quest'ultima. Egli disse che la lotta contro i riformisti non era una questione interna del partito socialista italiano, ma una questione internazionale. Serrati e i comunisti unitari, dichiarandosi contrari sia alla frazione comunista pura che a quella riformista, formavano il centro e non dovevano perciò protestare quando venivano definiti centristi. Se però i riformisti e i socialpatrioti si erano smascherati completamente, i serratiani erano i nemici più insidiosi perché, mentre si dichiaravano contro i riformisti a parole, di fatto ne condividevano la politica. In Italia - proseguì l'oratore - esiste una crisi rivoluzionaria permanente da quando, nell'estate 1919, è cominciato il movimento delle masse e in parecchie fabbriche sono stati creati i consigli operai e le guardie rosse. Questo movimento non è però stato coordinato verso il fine della conquista del potere politico e dell'instaurazione della dittatura del proletariato. Di questa situazione ha profittato la borghesia la quale è già riuscita ad infliggere duri colpi al proletariato e ha organizzato una guardia bianca avente il compito di spezzare, per mezzo di eccidi e di provocazioni parziali, lo slancio rivoluzionario del proletariato. D'altra parte, la Repubblica Sovietica ha respinto gli attacchi dei vassalli dell'Intesa e si appresta a passare all'offensiva per stroncare le provocazioni ed assicurare il suo pacifico sviluppo. E' necessario che il proletariato europeo si sollevi ed unisca le proprie forze a quelle del proletariato russo. A quest'azione non può mancare il proletariato italiano e non vi è perciò un momento da perdere per creare in Italia un partito comunista che sappia coordinare l'azione. Certamente il pericolo di un blocco economico e di una guerra controrivoluzionaria contro l'Italia non era immaginario, ma il proletariato italiano poteva garantirsi contro di esso stringendo i legami col proletariato degli altri paesi.

Seguì l'intervento di Baratono che disse di ritenere  che nel partito socialista italiano esistesse soltanto una grande tendenza comunista i massimalista che coincideva col partito stesso e che fino a quel momento, aveva agito in perfetta unità di pensiero e di azione. La scissione in seno ad essa era stata creata soltanto da artificiose ed esagerate interpretazioni di alcuni fatti storici. Quanto ai componenti della destra, essi non potevano essere considerati collaborazionisti, perché non avevano tentato di realizzare la socialdemocrazia quando avevano il favore della borghesia e dei ministri del re. Quanto ai rapporti tra il partito e la Confederazione generale del lavoro (in cui la corrente riformista aveva la sua maggioranza), questi dovevano essere regolati in modo che la seconda fosse subordinata al primo e tutti gli organizzatori fossero obbligati a essere tesserati e quindi disciplinati alle direttive del partito. Ma non bisognava staccare il partito dall'organizzazione operaia a rischio di indebolirlo enormemente. Proseguendo, egli disse che in Italia la dittatura di una «élite» di classe, necessaria in una situazione come quella russa, non avrebbe potuto mantenere il potere, essendo la psiche italiana diversa da quella russa, a meno che essa non fosse stata sempre pronta a fucilare i compagni ribelli. Quanto al problema della violenza, non potevano essere considerati rivoluzionari quelli che erano pronti a menare le mani e riformisti quelli che non avevano questa inclinazione. In realtà la violenza era necessaria per la conquista del potere politico. Ma essa aveva valore soltanto in quanto era al servizio di un'idea in modo tale che la forza dell'idea ne compensasse la debolezza materiale.

 

In discussione l'adesione alla Terza

Prese poi la parola Lazzari il quale esordì pronunciandosi contro il cambiamento del nome del partito ed ipotizzando il pericolo che di tale cambiamento potessero profittare i mistificatori del movimento operaio per indossare «quella divisa che il partito aveva portato onoratamente». Noi diamo tutta la nostra solidarietà - egli proseguì - «al movimento dei nostri compagni russi, ma rivendichiamo anche la dignità del nostro movimento. Noi chiediamo che la nostra adesione alla III Internazionale abbia un carattere speciale, in considerazione del fatto che essa è stata data prima degli altri partiti europei, fin dalla riunione di Zimmerwald che è stata convocata per i nostri sforzi ed ha gettato le prime basi di quella che è stata poi la III Internazionale». Quanto al problema delle espulsioni, egli disse che i socialpatrioti erano stati eliminati dal partito socialista italiano fin dal 1912. Esisteva la frazione dei concentrazionisti che faceva continuamente riserve platoniche che non potevano essere impedite, a meno che non si pensasse di avere il monopolio della verità. Tutti coloro che accettavano la lotta di classe avrebbero dovuto avere il diritto di portare il contributo delle loro idee. A Lazzari seguì Terrracini. Disse che la frazione comunista non voleva «la scissione per la scissione» ma si presentava invece come la continuatrice del programma di Bologna, dove il XVI Congresso nazionale del Partito socialista italiano, svoltosi da 5 all'8 ottobre 1919, aveva votato a grande maggioranza una mozione detta «massimalista elezionista» presentata da Serrati. La mozione di Bologna, «premesso che il programma di Genova è ormai superato dagli avvenimenti e dalla situazione internazionale» e constatato «che nessuna classe dominante ha rinunciato finora al proprio dispotismo se non costrettavi con la violenza», esprimeva la convinzione «che il proletariato (avrebbe dovuto) ricorrere all'uso della violenza per la difesa contro le violenze borghesi, per la conquista dei poteri e per il consolidamento delle conquiste rivoluzionarie». La scelta dinanzi alla quale si trovava il Congresso era quindi obbligata: o riconfermare, modificandole secondo la necessità e alla luce delle esperienze le decisioni di Bologna  e restare quindi conseguentemente nella III Internazionale o modificare il programma di Bologna e uscire dalla III Internazionale. Quando si diceva che per aderire a quest'ultima bisognava nello stesso tempo aderire alla frazione comunista pura, non si metteva quindi in atto un ricatto ma si faceva una semplice constatazione di fatto. L'oratore negò poi che la decisione di costituire il Partito comunista derivasse da programmi stabiliti «a tavolino» e disse che la questione pregiudiziale era nelle condizioni oggettive della lotta di classe. Egli ravvisava l'esistenza in Italia delle premesse materiali per la rivoluzione. La costituzione del Partito comunista ne avrebbe creato anche le premesse spirituali. Per questo la sua frazione chiedeva la scissione del vecchio Partito. In essa si pensava che la conquista del potere poteva avvenire soltanto mediante l'instaurazione di una repubblica dei consigli degli operai e dei contadini, non perché in Russia la conquista del potere era avvenuta attraverso i Soviet, ma perché ogni periodo rivoluzionario che avesse quale fine la conquista del potere da parte di una determinata classe, aveva la facoltà di creare le sue forme speciali di potere. Polemizzando coi riformisti, Terracini disse che i comunisti non propugnavano la violenza incomposta e disorganizzata che veniva loro attribuita. Essi pensavano di disciplinarla e di darle una legge affinché non si ripetesse la stessa situazione succeduta all'occupazione delle fabbriche quando, soltanto per la debolezza della borghesia, il proletariato non era andato incontro al disastro. Terracini negò poi che la scissione del Partito socialista italiano avrebbe portato con sé anche quella della Confederazione del lavoro che, come tutte le organizzazioni sindacali, se aveva una tendenza nelle questioni politiche, non aveva tuttavia un programma politico. I comunisti avrebbero tentato di acquistarla dall'interno e nello stesso tempo si sarebbero posti l'obiettivo di realizzare l'unità sindacale attraverso l'adesione alla Confederazione del lavoro di tutte le organizzazioni proletarie italiane.  «E' inutile - egli concluse - cercare o accettare ponti di passaggio che dovrebbero avere come pregiudiziale l'abbandono da parte di noi e di altre frazioni delle loro premesse. L'accettazione integrale dei 21 punti porta, secondo le tesi dell'Internazionale, alla loro applicazione in un congresso da convocare nel termine di quattro mesi dal Congresso di Mosca. Per questo il Congresso non deve sciogliersi prima di avere decretato l'espulsione dei riformisti».

Seguì l'intervento del riformista Gino Baldesi il quale, in polemica con Terracini, disse di ritenere che, se anche i comunisti avessero conquistato la direzione dell'organizzazione sindacale, non avrebbero potuto fare niente di diverso da quanto fino allora era stato fatto. Ai sindacalisti spettava infatti il compito di difendere gli interessi immediati dei lavoratori, per cui in essi vi era il lievito del socialismo non il socialismo. Proseguendo ricordò come fossero stati necessari 54 anni per ottenere le otto ore di lavoro; il controllo operaio non poteva quindi essere realizzato nello spazio di tre mesi. Era necessario che il proletariato sapesse cosa questo fosse per abituarsi a lottare e a vincere. Noi accettiamo - egli concluse - la disciplina che la maggioranza intenderà imporre alla minoranza. Discuteremo tra noi, ma in ogni maniera vogliamo dimostrare di essere unitari sul serio e, per esserlo, siamo disposti a rinunciare a qualche piccola cosa di nostro pur di non uscire dal Partito socialista italiano.

Vincenzo Vacirca, parlando a nome della frazione Lazzari, disse che non si faceva opera utile inculcando nel proletariato il mito della violenza. E non bisognava nemmeno rispondere con gli stessi metodi alle violenze dei fascisti e delle guardie bianche della borghesia, non per motivi sentimentali, ma perché su questo terreno il regime borghese aveva tanta forza da schiacciare, fin dall'inizio, i nuclei armati organizzati. Un accenno fatto a questo punto alla situazione del Bolognese, dove la predicazione della violenza si era ritorta, secondo l'oratore, a danno del partito socialista, provocò un'interruzione di Nicola Bombacci al quale Vacirca gridò, mostrando un temperino: «Rivoluzionario da temperino!».

Si vide allora Bombacci alzarsi concitato e puntare verso quest'ultimo una rivoltella. Quest'atto provocò la reazione di altri congressisti e, per una quarantina di minuti, le invettive, gli urli e le minacce si incrociarono dall'una all'altra parte con violenza inaudita fino a trasformarsi in uno scontro. Gli animi si placarono soltanto quando il presidente di turno Riccardo Roberto ebbe chiarito che Bombacci non aveva inteso con quel gesto minacciare Vacirca, ma rispondere soltanto alle invettive e al gesto di quest'ultimo.

Salì poi sulla tribuna Bordiga il quale prese le mosse dalla crisi attraversata dal movimento socialista anteriormente al 1914 quando esso, invece di essere nella lotta tra classe padronale e classe produttiva «il coefficiente decisivo del rovesciamento del capitalismo» era diventato «un coefficiente di equilibrio e di conservazione del regime borghese». La previsione rivoluzionaria del marxismo era stata sostituita dall'illusione secondo la quale l'evoluzione pacifica del regime borghese era possibile mediante iniezioni di socialismo che l'avrebbero gradualmente trasformato nella società socialista basata sulla socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio. La guerra aveva dimostrato la fallacia di questa dottrina. I partiti socialisti e le organizzazioni proletarie di numerosi paesi erano divenuti i migliori ausiliari che la borghesia poteva desiderare per portare il proletariato al sacrificio della guerra nazionale. All'indomani della guerra, nonostante gli ammaestramenti della vittoriosa rivoluzione bolscevica, gli opportunisti socialdemocratici non avevano sentito la necessità di chiamare il proletariato alla lotta per la conquista del potere.

 

L'intervento di Serrati

Per questo la III Internazionale aveva dovuto affrontare il problema del pericolo della permanenza dei socialdemocratici in seno al movimento operaio e della creazione di un nuovo strumento di lotta che non corresse il pericolo di diventare strumento di conservazione e di equilibrio capitalistico. Quanto al Partito socialista italiano, esso era riuscito a sconfiggere i riformisti e i massoni e a far ritornare il Partito «alle basi fondamentali e massimali» del marxismo rivoluzionario, ma non aveva avuto il tempo di trasferire questa affermazione «nella prassi quotidiana». Scoppiata la guerra, era avvenuta la frattura tra fautori ed avversari della stessa, frattura che non era però stata definita perché alcuni degli avversari della guerra avevano deplorato il fenomeno soltanto perché esso sconvolgeva gli antichi schemi riformisti ed umanitari, mentre altri avevano pensato che fosse giunta l'ora di passare alla guerra guerreggiata tra le classi. All'indomani del conflitto il Partito aveva cambiato formula e programma, aveva continuato ad essere diretto da uomini di sinistra, ma, nella realtà, non aveva mutato nessuna struttura fondamentale. Se esso era il migliore partito della II Internazionale, non era però maturo per essere un partito della III Internazionale. Alcuni dicono - concluse l'oratore - che noi, uscendo dal partito, faremo la stessa fine degli anarchici e dei sindacalisti rivoluzionari, perché la bandiera della lotta di classe rimarrà nel vecchio Partito. Ma per due ragioni, noi ci differenziamo da tutte le scissioni finora avvenute: perché noi rivendichiamo la nostra linea storica con quella sinistra marxista che nel Partito socialista italiano seppe combattere i riformisti, e perché aderiamo alla III Internazionale che, anche se non è una cosa perfetta, è «l'esercito mondiale che organizza il proletariato di tutte le razze».

Prese poi la parola Serrati il quale difese la politica sua e dei suoi compagni di frazione negando che essi, dopo la guerra, fossero andati a sinistra per accattivarsi la simpatia delle masse che sapevano orientate a sinistra. Essi infatti erano stati a sinistra anche quando le masse si scatenavano contro di loro perché aizzate dall'ubriacatura nazionalista. Proseguendo, egli disse che il dissenso con l'Internazionale non riguardava tanto le tesi in se stesse, quanto il loro modo di applicazione. Il Partito socialista italiano voleva assolvere al suo dovere nei confronti dell'Internazionale, ma in modo che non fossero sfaldati gli organismi di lotta del proletariato contro la borghesia. Perché era facile distruggere e poi ricostruire dieci, quindici o venti sezioni del Partito, ma bisognava nello stesso tempo considerare che la rovina delle organizzazioni economiche sarebbe stata anche la rovina dello stesso movimento rivoluzionario. Per questo era necessario che l'epurazione avvenisse nel modo più sereno, allo scopo di evitare scismi in seno a queste ultime. La III Internazionale  chiedeva invece perentoriamente che essa fosse effettuata subito. Serrati accennò poi alle divergenze esistenti nella frazione «comunista pura» tra Bordiga, Gramsci e Gennari, per cui non convinceva l'affermazione secondo la quale la scissione era dovuta alla necessità di creare un partito omogeneo. Rivolgendosi ai riformisti egli disse infine che, se vi poteva essere libertà al momento dell'elaborazione della dottrina la disciplina doveva riprendere il sopravvento quando dalla dottrina si passava all'azione.

Turati, che seguì Serrati, disse che egli e i suoi compagni di tendenza rivendicavano il diritto di cittadinanza nel Partito. Noi per primi - egli proseguì - abbiamo portato in Italia, nella lotta proletaria, la suprema finalità del socialismo: la conquista del potere da parte del proletariato costituito in partito indipendente di classe.

L'oratore sottolineò poi la propria non accettazione della violenza come programma; della dittatura del proletariato che sarebbe stata dispotismo tirannico se dittatura di una minoranza, e un non senso se dittatura di una maggioranza, perché in questo caso non dittatura ma volontà di popolo; della persecuzione dell'eresia che era stata l'origine e la vita stessa del Partito all'interno dello stesso. Quanto alla rivoluzione sociale, essa non era il fatto volontario di un giorno, di un mese o di un anno, ma il fatto di sempre che si sarebbe avverato tanto più presto quanto meno il culto della violenza, prematuro e perciò destinato al fallimento, le avrebbe ritardato il cammino. Per questo i riformisti potevano accettare soltanto con qualche riserva la formulazione della libertà di pensiero e della disciplina nell'azione, perché se quest'azione fosse durata per decenni,. non era possibile rinunciare per un periodo così lungo al pensiero e alla parola senza rinnegare se stessi. Turati espresse poi il convincimento che, una volta superato «il mito bolscevico» che non andava confuso con la rivoluzione russa per la quale egli nutriva ammirazione, i riformisti sarebbero stati vittoriosi nell'azione che egli definì «la grande pacificatrice, la grande unificatrice».

Quando avrete fatto il vostro Partito - concluse, rivolgendosi ai «comunisti puri» - voi dovrete percorrere la nostra stessa via gradualista perché «tutto il resto è orrore, è sangue, è reazione».

Seguirono le dichiarazioni di voto di Marabini, Cavina e Lazzari. Marabini rese noto che, «cessata l'illusione di unire insieme tutti i comunisti d'Italia», la maggioranza degli aderenti al gruppo Marabini-Graziadei avrebbe votato la mozione dei «comunisti puri». Cavina affermò invece che gli altri aderenti allo stesso gruppo avrebbero ripreso la loro libertà d'azione. Lazzari infine disse di rinunciare alla propria mozione e di associarsi a quella dei «comunisti unitari» sebbene essa sacrificasse «importantissimi argomenti che stabiliscono in modo indiscutibile il diritto del Partito socialista italiano di entrare e di restare nell'Internazionale comunista, interamente, col suo carattere e col suo stesso nome».

Il segretario del partito Gennari, che intervenne alla chiusura del dibattito, disse che la maggioranza dei membri della direzione uscente, dinnanzi al dilemma «unità nazionale o unità internazionale», «coi riformisti o con Mosca», aveva deliberato l'accettazione delle tesi della III Internazionale; per questo egli, a loro nome,  sosteneva la necessità, non di processi parziali, ma di una separazione che non offendeva le persone. Uniti, i due partiti, che erano all'interno del Partito socialista, si sarebbero danneggiati a vicenda. La storia avrebbe detto quale dei due avrebbe interpretato la realtà.

Dopo un breve intervento di Kabaktceff, che riaffermò i principi già precedentemente esposti, furono poste in votazione le tre mozioni superstiti: «comunista pura» (detta di Imola); «comunista unitaria» (detta di Firenze) e «concentrazionista» (detta di reggio Emilia).

La mozione «comunista pura» confermava l'adesione alla III Internazionale, impegnandosi a mettere in atto tutti quei provvedimenti che erano necessari «per rendere la struttura e l'attività del Partito conformi alle condizioni di ammissione con le quali il II Congresso della III Internazionale» (aveva) «efficacemente provveduto alla necessità di vita e di sviluppo dell'organo mondiale di lotta del proletariato internazionale» e ribadiva le esigenze dell' «abbattimento violento del potere borghese», del «partito politico di classe» quale «organo indispensabile della lotta rivoluzionaria del proletariato», dell'interpretazione della guerra mondiale «causata dalle intime insanabili contraddizioni del sistema capitalistico che produssero l'imperialismo» quale «inizio della crisi di disgregazione del capitalismo» e della «creazione dei Consigli dei  lavoratori (operai e contadini)» come «inizio della rivoluzione proletaria e prima stabile realizzazione della dittatura proletaria».

La mozione «comunista unitaria» accettava 19 dei 21 punti dell'Internazionale, respingendo soltanto quelli dell'espulsione dei riformisti e della trasformazione del nome del Partito da «socialista» a «comunista». Essa riconosceva necessario «serbare l'unità del Partito per meglio e più presto giungere alla conquista di tutto il potere politico per cui ogni mezzo (era) adottabile nell'ambito dell'assoluta intransigenza di classe e sempre al fine della rivoluzione comunista che reclamava l'integramento dell'azione politica con quella economica delle forze sindacali». La mozione riconfermava poi «la piena spontanea adesione alla III Internazionale».

La mozione «concentrazionista» infine riconfermava anch'essa l'adesione alla III Internazionale, riaffermando «l'autonomia interpretativa» nell'applicazione dei 21 punti «secondo le condizioni di ogni Paese». La mozione dichiarava poi di accettare la dittatura del proletariato «intesa nel senso massimalista di una necessità transitoria imposta da speciali situazioni e non come un obbligo programmatico».

Essa affermava infine che «la rivoluzione in Italia nella forma violenta e distruggitrice desiderata dai comunisti, con la formazione di un ordinamento di tipo russo, sarebbe destinata a crollare a breve scadenza se mancasse la concorrente azione economica e politica del proletariato di qualche paese più ricco durante l'immancabile precipitazione economica».

I risultati della votazione, comunicati la mattina del 21 gennaio attribuivano su 172.487 votanti (dei 216.337 iscritti al Partito) 98.028 voti alla mozione «comunista unitaria», 58.783 voti a quella «comunista pura» e 14.695 a quella «concentrazionista».

Quando tale esito fu reso noto, Bordiga, salito sulla tribuna, dichiarò che, essendosi la maggioranza del Congresso posta fuori dalla III Internazionale, i delegati che ad essa aderivano, venivano invitati ad abbandonare la sala ed a trovarsi alle ore 11 al Teatro san Marco per deliberare la costituzione del «Partito comunista d'Italia, sezione della III Internazionale». A queste parole i comunisti uscirono, cantando l' «Internazionale».

I lavori del XVII Congresso socialista proseguirono con l'approvazione all'unanimità di un ordine del giorno presentato da Giorgio Bentivoglio della frazione «comunista unitaria», che riconfermava  l'adesione del Partito socialista alla III Internazionale «accettandone senza riserve i principi e i metodi», e rimetteva al prossimo Congresso dell'Internazionale (che si svolse poi a Mosca dal 22 giugno al 12 luglio 1921) di valutare la controversia, impegnandosi «ad accettarne e applicarne le decisioni». A conclusione fu eletta la nuova direzione composta dai seguenti aderenti alla mozione maggioritaria: Giovanni Bacci, Adelchi Baratono, Bastiano Bonfiglio, Carlo Clerici, Domenico Fioritto, Giuseppe Mantica, Raffaele Montanari, Eugenio Mortara, Giuseppe Parpagnoli, Giuseppe Passigli, Gaetano Pilati, Giacinto Menotti Serrati, Stolfa, quale rappresentante dei socialisti slavi ed Emilio Zannerini.

 

Al teatro San Marco riparandosi con ombrelli...

Al Teatro San Marco, nella cui platea non esistevano sedie e panche nelle quali assidersi, e dove ampi squarci sul tetto infradicito facevano cadere scrosci di pioggia contro i quali esisteva soltanto il riparo degli ombrelli, si svolgeva intanto, sotto la presidenza di Kabaktceff, il Congresso costitutivo del Partito Comunista d'Italia che esauriva i suoi lavori nel corso della giornata. Dopo i saluti dei rappresentanti di alcuni partiti comunisti stranieri e di Luigi Polano che portò l'adesione della Federazione giovanile socialista, Bruno Fortichiari presentò un ordine del giorno, approvato per acclamazione, che dichiarava costituito il «Partito comunista d'Italia, sezione dell'Internazionale Comunista». Intervennero ancora Giovanni Parodi per i metallurgici torinesi, Ortensia Bordiga per le donne comuniste, Vota per i lavoratori del legno, Enrico Ferrari per le organizzazioni sindacali e Azario per i ferrovieri. Tarsia lesse poi lo Statuto proposto per il nuovo partito, Statuto che si ispirava ai concetti esposti nella mozione «comunista pura». Dopo una vivace discussione alla quale parteciparono Salvadori, Ferrari, Verdaro, Samoré, Bordiga, Arturo Caroti e Terracini, il progetto di Statuto, su proposta di Ruggiero Grieco, fu approvato, con mandato al Comitato centrale di studiarne le modifiche che sarebbero state suggerite dall'esperimento, per sottoporle al prossimo congresso. Pure approvato fu un ordine del giorno Azario che invitava i deputati comunisti a «restare al loro posto di combattimento per adempiere il mandato che ad essi (affidavano) il Partito e il proletariato italiano».

Su proposta di Terracini fu deciso di fissare la sede del partito e dei suoi organi centrali a Milano, dove si sarebbe pubblicato l'organo ufficiale bisettimanale «Il Comunista». Il quotidiano torinese «L'Ordine Nuovo» sarebbe stato uno degli organi del Partito.

Fu quindi eletto il Comitato Centrale, nel quale erano rappresentati tutti i gruppi che avevano dato vita al partito. Risultò composto da Ambrogio Belloni, Nicola Bombacci, Amadeo Bordiga, Bruno Fortichiari, Egidio Gennari, Antonio Gramsci, Ruggiero Grieco, Anselmo Marabini, Francesco Misiano, Giovanni Parodi, Luigi Polano (rappresentante della Federazione giovanile), Luigi Repossi, Cesare Sessa, Ludovico Tarsia e Umberto Terracini. Nella sua prima riunione, svoltasi la sera stessa del 21 gennaio, il Comitato centrale nominò un comitato esecutivo formato da Bordiga, Fortichiari, Terracini, Grieco e Repossi.

La Federazione giovanile socialista nel corso del suo Congresso, riunito a Firenze dal 29 al 31 gennaio, decise, a grande maggioranza di aderire al nuovo Partito e di mutare la propria denominazione in quella di Federazione giovanile comunista.

 

Franco Pedone

 

Il calendario del popolo, n. 443, aprile 1982