Cerca nel sito



 


archivio > Articoli su Bordiga>Diego Gabutti: Bordiga sul viale del ritorno

aggiornato al: 07/10/2007

Il Giornale, 22 gennaio 1982

Dopo «Una merenda del cappellaio matto» (nella sezione "Rassegna") un altro bell'articolo di Diego Gabutti tratto da «Il Giornale» del 22 gennaio 1982.

Bordiga sul viale del ritorno

Quando tutti gli oppositori, nei partiti del Comintern, l'Internazionale comunista proclamata a Mosca nel 1919 sulle ceneri di quella socialista, venivano espulsi come trotzkisti o zinovievisti o buchariniani, Amadeo Bordiga venne cacciato perchè bordighista. Tentarono, è vero, di caricargli sulla schiena la croce trotzkista, ma la cosa non convinse nessuno.
Di Bordiga, negli ultimi anni, si è sovente parlato, ma per lo più a vanvera, specie da parte dei comunisti, i quali non hanno certe interesse a evocarne lo spettro. Sono apparsi molti libri, anche una grossa biografia intellettuale firmata da Franco Livorsi per gli Editori Riuniti, però nulla d'eccelso. Un nuovo libro viene annunciato in queste settimane da Longanersi e C.; speriamo in bene.
C'è chi lo liquida sprezzantemente come il sinistro operatore della scissione di Livorno che, spaccando a metà la mela socialista, avrebbe aperto la strada al fascismo e consegnato il milieu operaio militante in mani russe, dispotiche e impure, e chi lo mitizza invece come oppositore di Stalin ante litteram. E tutte sono letture possibili, certo, ma non tengono conto d'un fatto preciso e mirabolante, cioè a dire che il comunismo, prima di farsi chiesa oppressiva e totalitaria, è stato giovane e puro come un Ordine di cavalieri. E Bordiga, fra tutti, fu il più intrepido e solare.
Nacque a Resina, presso Napoli, nel giugno 1889 dalla nobildonna Zaira degli Amidei e da Oreste Bordiga, un liberale d'origine piemontese che insegnava economia agraria a Portici. A diciotto anni, iniziato ai misteri rivoluzionari dal suo professore di filosofia lesse il Manifesto del partito comunista: studio che in seguito avrebbe detto sufficiente, anche da solo,  a dare un fondamento alla vita di qualunque uomo dabbene. Tre anni più tardi, già quasi ingegnere, s'iscrisse alla sezione napoletana del Partito socialista italiano. Nemico giurato da subito dei riformisti che controllavano le clientele elettorali con dita di camorra, Bordiga si segnalò per la sua difesa intransigente del marxismo rivoluzionario. Erano gli anni in cui Mussolini dirigeva «l'Avanti!» da posizioni estreme, attirando a sé tutte le tendenze rivoluzionarie, compresa quella animata da Bordiga a Napoli, che vi aveva fondato il «Circolo Carlo Marx». Ma Bordiga, che era bordighista fin da allora, non fu mai mussoliniano e fu anzi tra i pochi che, quando Mussolini si fece interventista e fondò «Il Popolo d'Italia», provocando panico e delusioni amorose tra i socialisti, ne registrò puramente e semplicemente la capitolazione. Perchè Mussolini, dal suo punto di vista, non fu mai altro che un battilocchio fra tanti, come Stalin e Churchill dopo di lui. Battilocchio, nel linguaggio moralistico e pittoresco della scuola partenopea di marxismo, che sempre negò qualsiasi ruolo alla personalità individuale, è l'uomo del destino, il demiurgo che s'illude di fare la storia. «Tutta la spiegazione di questa palingenesi», scriverà Bordiga nel secondo dopoguerra «sta nel dire che il gregariame segue il Capo e la stretta corte che lo spalleggia perchè ravvisa in lui un carisma, ossia una grazia come divina, che egli solo possiede e può amministrare ad altri se vuole. Il Capo non diviene tale perchè è il più sapiente, ma il suo verbo fa testo perchè egli è il Capo: sia pure un cazzaccio, diviene il Migliore». Escluso Marx, per il quale avrebbe messo sul fuoco la mano del mondo, non ebbe maestri.
Allo scoppio della prima guerra mondiale, anziché occuparsi dei grandi destini mussoliniani, Bordiga rifletteva piuttosto sul fallimento del movimento operaio internazionale, miseramente crollato in quel fatale agosto 1914, quando i prestigiosi partiti socialisti europei, dopo aver minacciato per tanti anni tempesta in caso di conflitto, votarono i crediti di guerra dei rispettivi parlamenti. È vero che il partito italiano non aderì alla guerra, ma neppure la sabotò. Il tradimento disse Bordiga, era stato consumato lo stesso, visto che la guerra imperialista non era stata trasformata in guerra civile, secondo la promessa degli statuti socialisti poi riesumata da Lenin. E così, mentre Togliatti partiva volontario per il fronte con l'approvazione di Gramsci, Bordiga ingoiò l'affronto e andò militare, perchè comandato, a Verona. Non perse, però, il buonumore. «Nella sua divisa di soldato» racconta Alfonso Leonetti,  «Bordiga sembrava più giovane e sbarazzino. La sua testa vigorosa e intelligente, costruita come un masso vivo, era quella che si ama immaginare in un tribuno, cioè una testa possente. Portava anche lui occhiali a pince-nez, secondo la moda del tempo. Il suo parlare era travolgente. Al contrario di quello di Gramsci, così lento e sommesso, il suo dire era spiritoso, allegro, sfottenete. La battuta napoletana e salace si mescolava di frequente alle riflessioni più acute».
Senza esitazione, due anni più tardi, salutò il colpo di mano pietroburghese dei bolscevichi come l'inizio della rivoluzione operaia mondiale, l'ultima e la sola vera. E appena congedato, prima ancora che i leninisti proclamassero la necessità di chiamare comunisti i nuovi partiti operai per differenziarli dalla socialdemocrazia traditora, battezzò il suo gruppo «Frazione comunista astensionista del Partito socialista italiano». Finis delle lotte elettorali per sempre, decretò. L'ora è venuta. La posta, in quei giorni, appariva universale e fantastica: posta grande, posta di cavalieri. Fu subito stabilita un'alleanza con il gruppo torinese di Gramsci e Terracini, potente tra i lavoratori dell'industria e nei sindacati, che nel giro di pochi anni tumultuosi portò alla fondazione del PC italiano: del quale Bordiga senza essere un cazzaccio, fu fatto capo. Era il 21 gennaio 1921.
«Amadeo Bordiga», racconterà Terracini di quel diciasettesimo congresso socialista di Livorno che sancì la scissione, dà l'annuncio dalla tribuna con voce di ghiaccio, "I delegati che hanno votato la mozione della Frazione comunista abbandonino la sala. Sono convocati alle 11 al Teatro San Marco per deliberare la costituzione del Partito comunista, sezione italiana della Terza Internazionale". Immediatamente, una parte della platea  si avvia verso l'uscita al canto dell' Internazionale. Quelli che restano rispondono scandendo l' Inno dei lavoratori.

L'appuntamento del 1975


Bordiga avrebbe sempre difeso in seguito la scelta di Livorno, ma senza entusiasmo. «È da dire che in Italia, dopo Livorno» scriverà, «nessuno, e tantomeno nella estrema ala sinistra, ha mai affermato che fosse il momento storico per sferrare l'attacco insurrezionale. Il nostro convincimento fu sempre che , per colpa del criminale centrismo e per l'eccesso di parlamentarismo volgare, negli anni 1919 e 1920 l'ora storica era suonata, ma invano»». Il partito era stato proclamato troppo tardi e sulla base di un compromesso politico: «Noi avremmo dovuto essere ancora più rigidi nell'applicazione della nostra linea». Sono parole del 1924.


«Mai deputato»
Il gruppo gramsciano, schierandosi sulle posizioni del Comintern, ereditò il controllo del Comitato centrale italiano. Bordiga, che era stato arrestato nel 1923 all'uscita da un recapito clandestino del partito, venne designato come capolista comunista, alle elezioni del 1924, per la sua immensa popolarità tra gli operai, accresciuta da un comportamento paradossale e umoristico al processo. Rifiutò più sprezzantemente che mai. «Nulla scorgo di più filisteo e opportunistico per gli elettori e per gli eletti», scrisse al delegato del Comintern  Jules Humbert-Droz, «di questo tradizionale fatto: pochi mesi di carcere portano alla conseguenza che la vittima presenti al proletariato la nota spese e la riscuota sotto forma di voti». Senza contare che, come parlamentare, sarebbe stato costretto a parlare delle proprie divergenze col partito, a meno che qualcuno non gli avesse scritto e controllato i discorsi. «Ma in questo caso», disse, «bisogna scegliere un altro fonografo» E aggiunse: «Non sarò mai deputato, e, più presto farete i conti senza di me, meno fatica e meno tempo perderete».
Luigi Longo ricorda Bordiga sul treno per la Russia «sempre indaffarato a preparare la refezione per tutti, a fare il caffè con una macchinetta speciale, a giocare a scopone». Il napoletano non dimenticò mai quei giorni di fiaba, quando aveva veduto brillare sulle guglie delle mille chiese moscovite la luce tonante del mondo nuovo. Ed ebbe sempre nostalgia per il «casto Bucharin», per «l'ardente Trotzky», per «il lampo nello sguardo di Lenin», per il «frigido Zinoviev», persino per l' «organizzatore e cospiratore formidabile Stalin». Ma l'ingiustizia la vide fin dal primo giorno. Camilla Ravera, nelle sue memorie, racconta che Bordiga, la sera, era solito guidare i delegati italiani fin sotto le finestre dei capi bolscevichi per cantare loro buffe e crudeli serenate. Resolution, resolution / toujours resolution!  stonavano quei menestrelli. Ma Giuseppe Berti ricorda che Bordiga diffidava dei russi, e del loro programma, già nel 1920.

Tavole rotonde
Cercò scampo, allora, in un'idea di partito che solo Marx, prima di lui, aveva osato coltivare. I partiti comunisti veraci, parlò Bordiga, vivono solo un giorno, come le rose. Il partito non prepara la rivoluzione, di cui è l'anima, ma l'attende e, al più, la sospira. Lo accusarono, senza capire nulla, di voler creare una piccola setta. Ma lui pensava che i partiti comunisti fossero Tavole rotonde e che sorgessero, come Re Artù dalla sua tomba segreta, solo quando la congiuntura storica li chiamava alla vita.
Accettò, ancora nei primi mesi del 1924, di entrare nella segreteria dell'Internazionale perchè Zinoviev, suo Gran Mogol, lo pregò «con le lacrime agli occhi». Ma Bordiga, dopo Livorno, e senza dir niente a nessuno, fondò un nuovo partito: il partito storico del proletariato, abitato da lui soltanto, con il compito di attendere giorni migliori. Che non sarebbero, ahimè, venuti mai. Calcolò, con un diluvio di grafici e di equazioni, che il prossimo appuntamento rivoluzionario era fissato per il 1975, un milione di anni più tardi. Ma non se ne lasciò sgomentare, fiducioso e determinista com'era. «Tu sei padrone di credere che sia un gesto» scrisse a Terracini in quei giorni, «ma io resto nella mia attitudine. Mi fa ridere che ci si allarmi per la mia cocciutaggine. Non la si conosce ancora abbastanza».
Parlò un'ultima volta a Mosca nel 1926, al VI Esecutivo allargato dell'Internazionale. Edward H. Carr, nella sua Storia della Russia sovietica afferma che il discorso di Bordiga è di gran lunga il documento più significativo dell'opposizione al Termidoro russo, di fronte al quale sbiadiscono le filippiche di Trotzky e le altre pappe di congiurati. Bordiga inveì contro la bolscevizzazione dei partiti e contro la teoria nefasta del socialismo tra i soli mugicchi, soprattutto contro l'Inquisizione rossa praticata alla stregua d'uno sport dalla centrale moscovita. Eppure non ci furono contro di lui le urla e gli insulti che coprivano gli interventi degli altri oppositori: solo discorsi pacati e come vergognosi. Comandato a colpire Bordiga con una mazzata fu Togliatti, tra i grandi meteorologhi del Comintern, esperto nel sapere sempre da che parte il vento tirava. «Avete sentito tutti Bordiga», disse, «e sembra che abbiate una certa simpatia per lui. Pone i problemi in modo sincero e pare avere la forza di un capo. Ma noi non crediamo che sia un grande capo rivoluzionario. Nella situazione storica attuale non si può costruire un partito comunista che situandosi sul terreno dell'Internazionale». E ci sono, per vero dire, situati ancora.

Don Carlo e Don Federico


Persino Stalin, che non usò tali cortesie mai più a nessuno, accettò d'incontrarsi personalmente con Bordiga per rendergli conto del pasticcio sovietico. Bordiga trascorse la notte precedente all'incontro in un lungo colloquio con Trotzky che terminò solo alle prime luci dell'alba. «Non avrei mai creduto che un comunista potesse parlarmi così. Dio vi perdoni per averlo fatto», esclamò Stalin quel mattino, come si legge nel verbale dell'incontro tra lui e Bordiga tramandato da Berti. Ma l'ex seminarista era affascinato dal napoletano, così gli chiese di restare a Mosca per operare a pieno tempo nel Comintern. Bordiga rifiutò. Rispose picche anche all'ultrasinistro tedesco Karl Korsch che lo voleva invece a Berlino per coordinare le attività d'una nuova Internazionale, ostile a Mosca e ai suoi cesariani. Prima dei lasciare la Russia, raccontò lui stesso, si ritrovò un bel mattino con Trotzky nella Piazza Rossa innevata, di fronte al mausoleo di Lenin. Trotzky scosse la neve col colbacco, poi sospirò e disse con mestizia: «Non è che faraonismo, compagno Bordiga». La rivoluzione, in buona lingua, era fottuta.
Tornò a Napoli, perchè non era slavo nè matto. Le cose, là nelle steppe, si mettevano male assai. Fece un po' di confino, una volta in Italia, poi si ritirò a vita privata, progettando case e ammazzando il tempo come poteva. Giorgio Amendola, convertito di fresco al comunismo, fu incaricato di contattarlo per conto del centro parigino del partito. «Avvicinai Bordiga nel 1930», scrisse più tardi, «per fargli la proposta di espatriare legalmente. Bordiga respinse l'offerta col consueto linguaggio pesante. Dopo l'arresto di Sereni, di Rossi Doria e d'un gruppo d'operai che avevano ricostruito l'organizzazione di partito in fabbrica, Bordiga m'incontrò in piazza Municipio, a pochi passi dalla questura e, rompendo ogni regola cospirativa, mi invitò a non seguire l'esempio di "quei poveri fessi che si sono fatti mettere in carcere", aggiungendo che la responsabilità spettava a "quei criminali di Parigi che mandano i compagni allo sbaraglio"».

Cinque «big»
Venne espulso nel 1930, senza chiasso. La motivazione ufficiale fu che, al confino aveva espresso solidarietà per Trotzky. Ma aveva lasciato il partito già da molto tempo. I comunisti, dopo la guerra, scordandosi il patto di Monaco tra Hitler e Stalin e purghe che inghiottirono milioni di uomini, ebbero il buon gusto d'affermare che Bordiga, durante il regno mussoliniano, era vissuto senza fastidi, da quella carogna fascista che era sempre stato. Mussolini lo conosceva meglio e l'Ovra, che continuò a spiarlo sino alla fine, lo descriveva nei suoi rapporti come uno dei comunisti più pericolosi.
Riemerse dal letargo fascista come trasfigurato dal genio della satira e dell'idiosincrasia. Chiamava Marx ed Engels Don Carlo e Don Federico, Togliatti Palmirone o Palmiraccio, dava del fetente e dello scornacchiato a quelli che, vent'anni prima, diceva revisionisti e socialpatrioti. Scriveva pagine epiche e visionarie che erano all'altezza, per sollazzo e invenzione linguistica, dei racconti di Carlo Emilio Gadda. Ma era sempre lo stesso. Tra le sue fotografie che circolano, poche e ingiallite prima del tempo, ce n'è una che lo ritrae mentre, con una bacchetta da maestro di scuola, indica su un grafico alle sue spalle la caduta tangenziale del saggio di profitto: tomba e sudario, per Marx, del capitale. Traduceva con «politica da bordello» quella «politique d'abord» che Nenni poneva a base nel nuovo programma socialista. La sua polemica contro la democrazia, dopo Yalta, si era fatta fragorosa. «Tutte le volte che questi poteri mondiali s'incontrano», scriveva, «siamo lontani spettatori di un'adunata di quattro o cinque personissime accampate al vertice dei quattro o cinque governi degli Stati più mostruosi. E tutto si decide, in questo democratico e popolare mondo, da quei cinque al massimo "big": ossia da cinque tipi su due miliardi di membri della specie umana, tutti "demosovrani": cinque altissime figure a cui votammo l'apostrofe di un dimenticato poeta, citata come il più bell'endecasillabo della letteratura italiana: O big piramidal, che fai tu li?». Giunse ad augurarsi, durante la Seconda guerra mondiale, la vittoria dell'Asse: la democrazia, per lui, fu sempre la truffa suprema. Suoi vecchi discepoli fondavano il Partito comunista internazionalista, al quale Bordiga non s'iscrisse mai ma di cui, sarebbe rimasto sino alla fine l'ispiratore e il maestro, trasformando il suo bollettino parrocchiale, titolato «il programma comunista», in una rivista presto leggendaria in virtù dei suoi articoli digrignanti e brillantissimi. Ma Bordiga non ne firmò mai nessuno. Il marxismo è scuola anonima e impersonale, diceva, e la proprietà privata intellettuale è la più infame che esista. Ci fu, nel partitino, una scissione tra chi voleva impegnarsi nella lotta politica ed attiva e chi non ne voleva sapere.
Attendeva che il 1975 venisse, tra incantesimi e magie. «La profezia non è per il fesso», scrisse ancora. E verso il 1957, a proposito di profezie, quando lo spazio si riempì di sputnik e satelliti artificiali, il marxista napoletano scoprì quello che si prese subito cura di battezzare l'imbroglio lunare. Insorse contro questo scandalo con lunghi articoli di taglio ingegneristico, tra i suoi più belli e immaginosi, nei quali dimostrava, «cifrette alla mano», che mai l'uomo sarebbe sceso sulla Luna «per impestare, dopo la crosta terrestre, anche gli spazi cosmici» Ciò è scientificamente assurdo, ruggì, e fuor di questione. Pare fosse uso interrompere le riunioni di lavoro che periodicamente presiedeva ad ammaestramento dei bordighisti, per correre nel bar più vicino ad assistere alla tappa del Giro d'Italia. Fu chiamato a testimoniare, per la carica che ricopriva nell'albo degli ingegneri partenopei, a chissà quali udienze del comune di Napoli dedicate ai crimini edilizi: seppellì tutti i presenti, tra i quali molti notabili democristiani e comunisti, sotto una valanga di moralismo bordighista. Preparava la pizza per la regina d'Olanda che svernava spesso in una villa accanto alla sua  e che lui onorava della sua amicizia.


Senza discepoli
Morì a Formia nel luglio del 1970: senza lasciar discepoli, tranne qualche somaro. Io ero militare, ricordo, e raggiunsi la sede bordighista più vicina per vedere, in un'occasione così disperata, almeno un paio di facce tristi. Non ne vidi nessuna: solo biffe studentesche di futuri professorini che, della potente e beffarda mitologia bordighiana, avevano masticato soltanto le incrostazioni pseudoscientiste e tracce, vaghissime, di marxismo invecchiato e cabalistico. Lessi, giorni dopo, un suo necrologio persino su «Rinascita». Berlinguer rivelò che, in gioventù, era stato bordighista lui pure. O Bordiga! O umanità!


Diego Gabutti, Il Giornale 22 gennaio 1982