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archivio > Articoli su Bordiga>Christian Riechers: Bordiga immaginario, (L'Internazionalista, n. 1 e 3, 1975)

aggiornato al: 20/08/2009

L'Internazionalista, n. 1e 3, 1975

Questo scritto, diviso in due parti, apparve sui numeri 1 e 3 di L'Internazionalista nel 1975. La piccola pubblicazione che apparve a Milano in quell'anno, organo di un «gruppo comunista internazionalista autonomo»,  giungerà a fatica al n. 14 dell'aprile 1991 con il quale terminò.

Di esso facevano parte una serie di compagni che in periodi diversi erano usciti da il programma comunista : c'erano compagni della scissione milanese del 1962, compagni che avevano fatto parte della scissione sempre milanese del 1964 e che poi si erano staccati da chi aveva iniziato a pubblicare La Rivoluzione Comunista, compagni sparsi infine come Christian Riechers, Giancarlo Tacchi e un paio di bolognesi usciti nel 1973 da il programma comunista.

L'autore di questo articolo è Christian Riechers, studioso tedesco che aveva conosciuto, negli anni sessanta, Amadeo Bordiga e Bruno Maffi anche se non aveva mai militato nel partito comunista internazionalista.

Riechers è conosciuto per un bel libro su Gramsci che uscì in Germania nel 1970 con il titolo Antonio Gramsci - Marxismus in Italien. Il libro venne pubblicato anche in Italia, nel 1975, presso la casa editrice Theleme di Napoli e poi, nel 1993, dalla Graphos di Genova, questa volta con il titolo Gramsci e le ideologie del suo tempo. Riechers, professore universitario ad Hannover, ha pubblicato vari altri scritti sullo stalinismo e su Amadeo Bordiga. E' morto, ancora giovane nel 1993, era nato nel 1936.

E' Riechers stesso che italianizza l'articolo che, come si leggerà, è fondamentalmente un attacco ad una visione mistica di Amadeo Bordiga che è ben più vasta della cerchia ristretta dei seguaci, all'epoca, di Invariance, che avevano pubblicato una raccolta di scritti di Bordiga introdotti da un testo di Jacques Camatte Bordiga e la passione del comunismo.  

 

Bordiga immaginario

 

Tra gli scritto di Amadeo Bordiga recentemente pubblicati con nome e cognome dell'autore va segnalata  una buona scelta di «Testi sul comunismo» (Ed. La Vecchia Talpa, Napoli - Ed. Crimi, Firenze). Si tratta di una serie di trattazioni svolte durante le riunioni del Partito comunista internazionale e pubblicate in «Programma comunista» nel '58 e nel ' 59. La difficoltà di procurarsi le annate complete di questo giornale rende le pubblicazioni come quella di cui ci occupiamo ora particolarmente utili, specie per le nuove leve che vogliano assimilare l'insegnamento del grande e paziente esegeta del marxismo rivoluzionario, e in più consentono di leggere Bordiga «nell'originale» senza l'obbligo di tentare di distinguere, attingendo alla fonte prima, cioè il giornale, cosa nell'anonimato generale, era di Bordiga e cosa invece è dovuto (talvolta in perfetta imitazione del caratteristico linguaggio del maestro) ai suoi discepoli ufficiali. Non è affatto roba da eruditi il compito di elencare tutti gli scritti di Bordiga apparsi in questo dopoguerra, perché solo così sarà possibile chiarire le ragioni delle  autolimitazioni giustificate all'interno del Partito - compito primario, la rimessa in vigore dei caposaldi teorici del marxismo - e di quelle derivate, contingenti, espressione di un atteggiamento ciecamente reverenziale di fronte al verbo del maestro. Si tratta di vedere se all'invarianza marxista intesa come insieme di esperienze reali riflesse dai maggiori rappresentanti della dottrina in sede internazionale non si sia quasi insensibilmente sostituito, per l'effetto incrociato dell'isolamento oggettivo e dell'autoisolamento soggettivo, una sorta di autarchica invarianza del gruppo.

Leggendo gli scritti compresi nella suddetta raccolta si arriva, infatti, a cogliere la singolarità di una posizione marxista che non trova riscontro alcuno né nei lavori dei pochissimi superstiti rivoluzionari che hanno cercato di restare fedeli alla linea classica dell'Ottobre russo, né nelle teorizzazioni della giovane generazione marxisteggiante. La linea della previsione scientifica del futuro stadio comunista, che in Marx trova la sua manifestazione più vistosa nella «Critica al programma di Gotha», Bordiga la riprende e continua, ampliandone le conseguenze in contrapposizione dialettica alle falsificazioni del «socialismo romantico» staliniano.

Evidentemente, i «Testi sul comunismo» non raccolgono tutto quanto detto e scritto da Bordiga sulla natura del comunismo. Si può dire che tutti i maggiori scritti di Bordiga del dopoguerra sono pervasi da questa profonda visione, che nella melma del vigente disordine capitalistico individua l'opposto dialettico dell'ordinamento della specie umana e che riandando da questa raggiante posizione all'analisi del capitalismo contemporaneo, riesce a cogliere, di quest'ultimo, i tratti salienti - quei tratti che nelle analisi di economisti tipo Mandel rimangono oscurati nella loro cieca, immediata positività (cfr. «Proprietà e capitale - Vulcano della produzione e palude del mercato», Ed. Gruppo della Sinistra comunista, Torino, 1972 ).

Se siamo abbastanza spregiudicati da salutare la pubblicazione di scritti di Bordiga ad opera di chi non appartiene alla cerchia dei discepoli ufficiali, questo nostro atteggiamento non implica affatto una aprioristica concordanza di vedute con chi si fa promotore di siffatte iniziative. L'introduzione ai «Testi», intitolata «Bordiga e la passione del comunismo», esige la nostra critica, e non per il fatto che osa criticare Bordiga per taluni suoi presunti limiti. Lasciamo che altri si mettano i paraocchi. Criticare vuol dire mettere in crisi; e, se i rapporti sociali creati dal capitalismo sono rapporti di crisi acuta di un sistema che ancora non può morire perché chi lo ucciderà manca di essere operante oggi, è lecito e, anzi, necessario mettere in crisi, vedere come espressione contraddittoria anche l'operato di chi ha, secondo noi, dato l'apporto più fondamentale alla restaurazione del marxismo rivoluzionario nei venti anni successivi all'ultimo conflitto. La spersonalizzazione del marxismo come programma sta bene, ma la si raggiunge veramente solo se nei contributi teorici della persona Amadeo Bordiga riusciamo a distinguere il contingente dal necessario. Solo dopo una tale disamina, necessaria e vitale per il movimento futuro, saremo in gradi di affermare con il Manifesto dei comunisti che non sosteniamo «dei principi particolari, settari, secondo i quali vogliamo modellare il movimento proletario»; solo allora acquistano un senso reale le parole scritte quaranta anni or sono da Ottorino Perrone: «Il bordighismo, la riduzione del nostro movimento alla persona di Bordiga, è la più stupida deformazione delle opinioni dello stesso compagno Bordiga, che sulla scorta di Marx, ha distrutto ogni rilevanza dell'individuo in quanto tale ed ha provato teoricamente che solo la collettività e gli organismi sociali devono e possono dare significato all'individuo stesso» (Bilan, n. 2, dic. 1933).

I critici di detta introduzione, che si richiamano al cenacolo di «Invariance», trattano l'opera di Bordiga come il fu Pierre-Joseph Proudhon trattava il capitalismo: c'è un lato positivo e c'è un lato negativo: «Abbiamo ... bisogno di afferrare questo rivoluzionario, quest'uomo di partito, nel suo legame con il futuro, poiché più di ogni altro egli visse di questo». Ecco il lato positivo: quello, per così dire, avveniristico. Ma c'è poi il lato negativo, e risiede nel passatismo di Bordiga: «e tuttavia simultaneamente egli fu responsabile di un passato mistificatore, occultatore di questo futuro» (p. 9). Gli si rimproverano più volte «altri aspetti passivisti e partecipi di un'epoca storica ormai chiusa» (p. 13). Il metodo marxista di Bordiga diventa, nella prosa di questi critici, «una specie di ermeneutica rivoluzionaria», la quale «disgraziatamente ... non può bastare quando bisogna affrontare la novità. In ciò risiede il punto difficile. Studiare quest'ultima può portare ad un arricchimento della teoria» (p. 4). Vietiamoci di arricciare il naso per il fatto che qui affiorano concetti come «novità» e «arricchimento della teoria»: se è corretto insistere sulla necessità di un linguaggio chiaro e non equivoco nel definire le posizioni marxiste di fronte ai nostri avversari, è altrettanto vero che spesso, nelle propaggini della Sinistra italiana, si è esagerato in direzione di un certo «criticismo lessicale», per cui chi impiegasse parole come «problema», «concreto», «immediato» correva il rischio di venire bollato come «problemista», «concretista», «immediatista», con relativi effetti di  mutismo «di base» da una parte e, talora, di acrobatico «spaccapelismo» dall'altra. Vediamo, dunque, cosa c'è sotto i concetti sopra indicati, sforzandoci di non indiziarli aprioristicamente per la forma in cui sono espressi. Per dirla in breve, gli egregi studiosi di «Invariance» pensano che tra gli scritti del compagno Marx. c'è un liber librorum, il sesto capitolo inedito del «Capitale», dove sta scritto che più il capitale si sottomette tutta la produzione, più l'estorsione del plusvalore relativo diventa dominante di fronte all'estorsione di quello assoluto, meno formale e più reale si fa il dominio del capitale su tutti i rapporti sociali. Esisterebbe, insomma, un salto di qualità che rende totalitario il  dominio del capitale. Nella testa di «Invariance», posto che  «nell'ora attuale  tutto è capitale» (p. 22), la conseguenza è che anche chi si ribella contro l'onnipotente dispotismo del capitale può essere integrato nel suo onnidivorante meccanismo; ragion per cui la sola via d'uscita sta in questo: «Il comunismo, teoria-anticipazione del divenire della classe proletaria, non esclude, ma al contrario reclama che si fondi questa anticipazione, altrimenti essa può apparire come un'affermazione magica» (p. 31).

Peccato che l' «ermeneutico» Bordiga non l'abbia capito: «sarebbe stato necessario creare un campo che l'avversario potesse difficilmente accostare perché era quello investito dal comunismo» (p. 18). Il compagno Amadeo, tuttavia, merita egualmente un dieci e lode per «la sua utilizzazione d'una lingua non espurgata, non strettamente definita, né statizzata (?)», espressione del  «suo pensiero che è quello di un essere che in parte sfugge ancora al dispotismo linguistico del capitale» (p. 7 ss.). Questa musica non suona nuova. Ricorda quanto dissero i teorici del «gran rifiuto», primatista il defunto Adorno, meno fesso del suo amico Marcuse perché non ne fece un sistema confusionario-contestatario, ma assai vicino, come tutti i maggiori rappresentanti della Scuola di Francoforte del secondo dopoguerra, alle tesi dei nostri invariantisti per ciò che concerne la presentazione fatalistica del capitale come mostro totalizzante. Va detto di sfuggita che il «discorso multiforme e torrenziale», che i critici lodano in Bordiga, anziché contribuire a «creare un campo che l'avversario potesse difficilmente accostare», conduce sovente al risultato di rendere particolarmente malagevole l'impegno di chi vuole capire da compagno la sostanza della sua analisi: presentare come un pregio ciò che, almeno in parte, è il prodotto di una situazione di isolamento - si confrontino a tesi contraria i cristallini, classici interventi al sesto Esecutivo allargato del 1926 - è davvero comportarsi da intellettuali organici... della coscienza infelice di hegeliana memoria.

Il nocciolo del problema, però, non sta nella maggiore o minore elaborazione della «teoria-anticipazione» del comunismo, alla quale elaborazione, almeno nel testo che andiamo esaminando, gli egregi critici contribuiscono soltanto con il ripetere a più riprese - ci risparmiamo altre citazioni - che Bordiga era capace di elaborare, ma non l'ha fatto. Il problema centrale è il modo in cui presentano la fase attuale del capitalismo e cosa propongono per abbatterlo.

 

(Segue)

 

 

     

Bordiga immaginario (2)

 

Avevamo salutato nella prima parte di questo scritto la pubblicazione di una buona scelta di «Testi sul comunismo» di Amadeo Bordiga (Ed. La Vecchia Talpa, Napoli - Ed. Crimi,Firenze) senza nascondere però - per dirlo pacatamente - certe nostre perplessità leggendone la prefazione. Avevamo notato di sfuggita come gli autori della prefazione distribuivano rimproveri da un lato  e entusiastiche adesioni dall'altro all'operato teorico del compagno Amadeo. Non era nostro intento di entrare troppo nella discussione dell'immenso valore e degli innegabili limiti di quel gran continuatore del marxismo classico che è Amadeo Bordiga - i pochi cenni dati da noi nella prima parte testimoniano chiaramente che saremo gli ultimi a fare gli agiografi a tempo perso. Ci interessava però prima di tutto vedere come gli autori della prefazione - aderenti al cenacolo di «Invariance» - presentano la fase attuale del capitalismo e cosa propongono per abbatterlo.

Esiste infatti una tendenza all'estremismo «infantile» anche nelle schiere di coloro che a torto o a ragione si richiamano alla sinistra comunista «italiana» e al suo massimo rappresentante. Qui non si tratta di riandare nei tempi passati per scoprire eventuali vizi d'origine che pur ci possono essere. Bisogna dire in poche parole che il ciclo di controrivoluzioni - ciclo da vedere sempre contrassegnato da ribellioni sporadiche, di autentiche lotte di classi rimaste purtroppo isolate sul piano nazionale o addirittura locale, di lacerazioni della compagine interna di classe della stessa borghesia (movimento studentesco, maggio '68) - che questo ciclo di controrivoluzioni ha distrutto quasi ogni passaggio di esperienze di lotta dalla generazione dei rivoluzionari autentici a quelle che seguono. Ed è forse non tanto la natura palpabile, materiale della controrivoluzione quanto una troppo avveniristica e in sostanza troppo superficiale «analisi» di essa che porta a delle prese di posizioni di un vero e proprio «indifferentismo in materia politica».

Già nel numero unico de «L'Internazionalista» (luglio 1973, p. 5) ci chiedemmo: «Invariance» e via dicendo cadono forse dal cielo e non sono piuttosto l'indice rivelatore dell'inevitabile gravitare verso l'attitudine speculativa a «interpretare  il mondo» da parte di un indirizzo generale che in definitiva subordina di fatto l'azione all'obbiettivo di emergere delle sue condizioni ottimali?

Dobbiamo constatare che queste condizioni non sono più da aspettare. Per gli autori invariantisti della prefazione queste condizioni ottimali già esistono, eccome! Sciocconi noi passatisti, che non ce ne siamo accorti.

«Così nella fase finale del capitale, che, in una certa misura, si può chiamare decadente, questo scimmiotta la società a venire e realizza le rivendicazioni del proletariato, socializzazione della produzione, instaurazione di un piano di produzione, negazione dell'individuo, dominio sulla natura, ecc. Sotto forma mistificata, vi è in un certo qual modo la realizzazione del dominio del proletariato e di alcune misure del socialismo inferiore». (p. 29). Il cauto «in un certo qual modo» si presenta di maniera più rigorosamente perentoria qualche pagina prima (p.21): «Bisogna individuare come il capitale ha realizzato di fatto» - lo sottolineiamo noi ignoranti - «lo stadio di transizione e in una certa misura il socialismo inferiore».

Ecco a distanza di quasi cent'anni - la prefazione «Bordiga e la passione del comunismo» risale al gennaio 1972 - una commovente celebrazione della critica del programma di Gotha. Si tratta, beninteso, non di una celebrazione da parte eterodossa del «socialismo» orientale, camuffamento storicamente «necessario» di giovani capitalismi, ma del capitalismo sans phrase, quello «occidentale»,  «che in una certa misura, si può chiamare decadente», quello che si vede appropriatamente «sviluppando l'analisi contenuta nei Grundrisse e nel libro III del Capitale» (p. 21). Bisogna avere una visione idilliaca del capitalismo per poter sostenere tranquillamente quanto affermano i più incalliti apologi del capitalismo, che cioè il capitalismo abbia realizzato le rivendicazioni principali del socialismo. Siamo sinceri, lo ha fatto davvero, ha realizzato un determinato socialismo, un «socialismo» impregnato in tutte le sue determinazioni teoriche dalle forme che di continuo il modo di produzione capitalistico genera sia come forme reali («stati di benessere», «sicurezza sociale» ecc.) sia come forme del pensiero immediato che vi corrispondono. Ma la pensano in questo modo, piatto, apologetico, i nostri appassionati del comunismo? Certo no, c'è stata la storia...

«La controrivoluzione opera distruggendo le forze rivoluzionarie rappresentate da aggruppamenti di uomini, dei partiti; in seguito essa realizza dall'alto, lentamente e mistificandole, le rivendicazioni di questi ultimi; quando il suo compito è finito, quando dunque la rivoluzione inevitabilmente riviene, essa può rallentare il processo rivoluzionario solo immergendo i rivoluzionari nel discorso ritrovato dall'epoca anteriore» (p. 21). Ci siamo. La controrivoluzione ha dunque sbrigato i compiti dei rivoluzionari, come se questi compiti si riducessero esclusivamente al raggiungimento delle rivendicazioni immediate del proletariato. Seguendo la prefazione, si ha l'impressione che i rivoluzionari sono i più piatti immediatisti, comprensibile dunque se fanno confusione tra riforme e rivoluzione: «La maggior parte dei rivoluzionari lo sono solo per la rivoluzione stessa, essi sono la sua incarnazione immediata, oppure sono la personificazione di un discorso sulla rivoluzione. In genere essi concepiscono il comunismo come qualcosa che si situi obbligatoriamente al di là d'un momento particolare: la rivoluzione. Ciò che importa allora è quest'ultima e non il comunismo». (p. 12 seg.).  In quanto alle rivendicazioni immediate del proletariato sappiamo che al limite uno statalismo fascista può anche esaudirle perché - ridotte alla loro gretta immediatezza e distrutta la pur infima autonomia di organizzazioni proletarie che ne potrebbero far sperare una barlume dell'andar oltre - si dimostrano necessarie per la manutenzione della forza lavoro sociale sotto rapporti di produzione ad alta composizione organica del capitale. La sinistra ha sempre ribadito questa posizione in contrapposizione all'antifascismo, frontepopulista, rinnegatore di tutti i capisaldi del marxismo, che volle far credere che il fascismo fosse un ritorno al medioevo, antimoderno, feudale, ecc. Sta però scritto nei «Testi sul comunismo» (p. 103), autore autorevole Amadeo Bordiga, che «ogni nostra tesi va impiegata dopo aver chiarito l'antitesi che la sollevò storicamente». Se quindi diciamo che il fascismo è espressione politica del capitalismo moderno e non alleanza di forze precapitalistiche con frazioni di capitalismo retrogrado e via discorrendo, non esprimiamo con ciò un giudizio sulle qualità «riformistiche» che renderebbero (o avessero rese) superflue e antirivoluzionarie addirittura le lotte quotidiane del proletariato per i suoi bisogni più immediati. E se guardiamo il quadro generale odierno del presunto socialismo inferiore realizzato nell'Europa occidentale, bisogna pur ammettere - anche se a denti stretti -  che questo stadio precario si è raggiunto anche attraverso le lotte  operaie che riformisti staliniani e socialdemocratici molte volte e a controcuore hanno dovuto capeggiare (per poi annacquarle come di rito). E' francamente assurdo attribuire tutto quanto raggiunto alla forza della controrivoluzione. Dietro questa concezione si nasconde una visione del percorso storico, che va avanti nel susseguirsi di stadi a scatola chiusa. A Bordiga per es. si attribuiscono «preoccupazioni erronee di un'epoca storica ormai chiusa» (p. 13). E' mai possibile considerare la storia così? E se così fosse davvero per noi comunisti, già ebbe a dire Lenin più di cinquanta anni fa, non lo sarà così per le masse che prendono coscienza della loro esistenza sociale e politica proprio attraverso forme di coscienza illuministicamente ritenute  «sorpassate». Tocca ai rivoluzionari marxisti liberarsi come primi del tutto da tutte queste forme di coscienza per poi affrontarle nel contatto col proletariato, muniti da tutte le armi della critica - e non dal solito cannone rivolto a schiacciare un povero passero - e in grado di espletare nell'agitazione quelle «generosa semplificazione» (Bordiga) che è solo possibile ed efficace sulla base di una duratura appropriazione dello strumentario teorico del marxismo. Se solo si trattasse di «raddrizzare» la coscienza ai proletari e a noi per finalmente aprire gli occhi e prendere visione di un autentico socialismo inferiore già esistente, sarebbe ben facile.

Purtroppo di questo socialismo inferiore, che secondo la Critica del programma di Gotha presuppone il dominio politico del proletariato, non troviamo traccia alcuna. E' assai rivelatrice la logica fragile che sostiene che «nella fase finale del capitale... questo scimmiotta la società a venire» (p. 29). Questa credenza credula in una evoluzione unuilaterale a tappe, a stadi storici, non è tanto dissimile al sentimento progressista socialista pre 1914. Come si può scimmiottare una società futura, che, altro che socialista inferiore, può anche essere il rusultato di una catastrofica ricaduta storica se i proletari non fanno niente per salvare se stessi? Staremo a guardare e a studiare beatamente il futuro? Il futuro lo studiamo nel passato per non perdere la bussola nel presente. Congediamoci dal cenacolo degli appassionati del comunismo con un richiamo al realismo, che valga almeno per noi, annotato dal compagno Marx in margine a «Stato e Anarchia» dell'egregio Bakunin: «Siccome il proletariato durante il periodo della lotta per rovesciare la vecchia società agisce ancora sulla base della vecchia società e quindi si muove ancora in forme politiche che più o meno ad essa appartenevano, di conseguenza non ha ancora raggiunto la sua costituzione finale durante questo periodo di lotte e adopera mezzi per la liberazione che vengono soppressi dopo la liberazione: perciò il signor B. desume che piuttosto non deve fare nulla affatto... deve aspettare il  giorno della liquidazione generale - dell'ultimo giudizio».

 

C.R.

 

L'Internazionalista, n. 1 e 3, 1975