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archivio > Articoli su Bordiga>Michele Fatica, Note su Bordiga, (rivista di storia contemporanea, n. 4, ottobre 1977)

aggiornato al: 04/08/2009

rivista di storia contemporanea, n. 4, ottobre 1977

Riproponiamo un vecchio articolo di  Michele Fatica apparso più di trenta anni fa come recensione al libro su Bordiga di Franco Livorsi. Leggere Fatica, di cui il nostro sito contiene altri interventi, è sempre piacevole e stimolante per il suo tono leggermente ironico che qualche frecciata la lancia all'establishment culturale imperante (trenta anni fa come ora).

 

Nell'Ultima settimana  Avanti Barbari è stato oggetto di un attacco informatico il cui residuo è stata la presenza di virus che passavano nei computer di chi si collegava a noi. Non sappiamo chi  dobbiamo ringraziare; il problema ora è risolto e speriamo non si ripeterà più.

Ci scusiamo con i lettori ai quali abbiamo procurato qualche impiccio.  

 

 

Note su Bordiga

 

La comparsa nelle librerie ai primi del 1977, a quarant'anni di distanza dalla morte di Antonio Gramsci, di una biografia di Bordiga scritta da Franco Livorsi e pubblicata dagli Editori Riuniti (pp.469, L. 6.500), merita, a giudizio di chi scrive, un discorso a monte, mentre non manca di offrire qualche appiglio al dibattito aperto dalla «Rivista di storia contemporanea» sul «compromesso storico». E' un discorso circoscritto, nei limiti di spazio e di tempo, che, volutamente, non insiste sugli aspetti discutibili, da un punto di vista marxiano e leniniano, della prassi e della teoria di Amadeo Bordiga.

Negli ultimi trenta anni ci sono stati in Italia diversi modi, e mode, di scrivere la storia del movimento operaio e socialista contemporaneo. Inizialmente le lotte del proletariato e delle sue organizzazioni politiche hanno avuto una ricostruzione separata dagli individui e dalle personalità che quelle lotte hanno consapevolmente diretto o orientato, con un privilegiamento per le figure dei «capi», secondo un modello travasato dalla Storia del partito comunista (b) dell'Urss al Quaderno n. 2 di «Rinascita», fino, sia pure con una inversione di ruoli, alla  Storia del partito comunista italiano di Giorgio Galli e Fulvio Bellini. Nel crollo del culto della personalità, molti medaglioni, busti e statue furono abbattuti, mutilati e scalfiti. Alcuni colpi furono scagliati dalla «Rivista storica del socialismo» anche contro Antonio Gramsci, colpi che,  se suscitarono clamore fuori e all'interno della rivista e portarono alla sua chiusura, non hanno lasciato grosse tracce, tanto che nell'anno delle celebrazioni gramsciane, citazioni gramsciane sono d'obbligo in scrittori repubblicani, socialisti, del PCI, cattolici, maoisti, trockisti, stalinisti, e in scritti non solo di politica e di storia, ma anche di sociologia, filosofia, pedagogia, critica letteraria.

E, mentre nel PCI cominciava ad affermarsi una storia per «gruppi» dirigenti, un'altra corrente iniziava una ricerca volta a ricostruire la formazione del moderno proletariato italiano, il lento e faticoso progredire in esso di una coscienza di classe e politica. Questo filone, partito da premesse diverse, è approdato nei lavori del Procacci e del Merli a risultati contrastanti per non dire opposti. Il risvolto rischioso di questo tipo di ricerca consiste nel mitizzare alcuni aspetti prepolitici del proletariato, come avviene di quelli che parlano di «cultura» (nel senso antropologico e sociologico) del mondo operaio e contadino, come «alternativa» alla cultura delle classi dominanti. Il problema è se oggi, bombardati dal mercato, con proiettili che sono anche scagliati da mass media, può esistere una «cultura alternativa» e se al comunismo si debba arrivare superando dialetticamente la cultura borghese o ritornando a concezioni e forme di vita che sono di prima della rivoluzione industriale.

In un momento, come quello che stiamo vivendo, in cui la storiografia di «sinistra» è divisa tra storia del movimento con la tendenza all'esaltazione del movimentismo, e reviviscenza del biografismo con la tentazione a ricostruire nuove statue sul piedistallo (Gramsci quest'anno ne sta facendo abbondantemente le spese), proporre una biografia critica che abbia al centro Bordiga, anche oltre l'anno canonico del 1930, può essere accolto come un fatto interessante e positivo, soprattutto se si tien conto che dopo la riconsiderazione avviata da Togliatti sul ruolo di Bordiga nella fondazione del PCd'I e nella formazione dei primi quadri, è tornato a circolare il giudizio su Livorno come la più grave sciagura che si sia abbattuta sulla «classe» operaia, sciagura a mala pena edulcorata in un «provvidenziale errore». E, nell'anno delle celebrazioni gramsciane non sono mancate accuse nuove e vecchie di dogmatismo, , scolasticismo, settarismo, doppiotempismo nella concezione rivoluzionaria rivolte a Bordiga, a cui si torna a negare, come nei bei tempi staliniani, perfino la parte di fondatore del PCd'I (nei limiti in cui un partito può essere fondato dalla volontà di un solo uomo).

Il fatto ancora più interessante è che questa riproposta di Bordiga venga fatta da un militante del PCI con compiti anche di qualche responsabilità. Come se ne giustifica il Livorsi? «Bordiga è morto - egli dice - non incalza alle porte; evochiamolo senza paura per capirlo e superarlo davvero, per non assorbirlo inconsciamente» (pag. 458). Ma è probabile che dietro questa motivazione ufficiale ve ne debba essere qualche altra, inconfessabile o inconsapevole, sulla quale ritorneremo, perché il Livorsi sa bene che, se Bordiga è morto fisicamente, se c'è qualcosa nel suo pensiero che si richiami a Marx (come egli gli riconosce a p. 373), quel qualcosa non può andare in putrefazione col suo cadavere.

Lì dove l'atteggiamento del Livorsi può essere approvato è nel suo proposito di non farsi un idolo di un «capo». E' questo l'unico modo di accogliere laicamente la lezione di Marx e forse Livorsi ha inconsciamente assorbito il miglior Bordiga, quando tratta di lui senza l'accanimento di chi vuole ad ogni costo «infamarlo» o «lodarlo». In effetti l'egemonia di Bordiga tra i giovani socialisti e la sinistra del PSI iniziò proprio quando, a scoraggiare un interventismo che si voleva giustificare con l'esempio di Mussolini, di cui già esisteva un culto, mise in guardia sul pericolo di formarsi di idoli nel partito (Livorsi lo ricorda a pag. 47). D'altronde Bordiga, in questo caso, non faceva che riprendere il Marx del «non sono marxista» o il Lenin che detestava tutte le personificazioni, ma doveva avere una sorte così ingrata da finire in un mausoleo proprio lui «che demoliva gli uomini con due sole parole» (parole di Bordiga, citate dal Livorsi a p. 367). La lezione del passato avrebbe dovuto insegnare ai comunisti marxisti che il culto della personalità riempie sempre un vuoto di idee e di programmi e che la irresponsabilizzazione di massa ha per surrogato la mistica del capo. Ed è sintomatico che Bordiga nel suo declino, non solo fisico, abbia consentito il formarsi nel suo minuscolo partito comunista internazionale del culto di una divinità senza generalità anagrafiche, ma evocata con le formule di «il rappresentante della sinistra», «il rappresentante dei socialisti rivoluzionari»,«l'articolista», «il relatore della sinistra» (1).

Considerazioni sul culto della personalità a parte, ci sembra apprezzabile anche l'assunto di Livorsi di giudicare Bordiga col metro di Marx e di Lenin, perché un comunista marxista non può né deve mai rinunziare a giudicare un personaggio grande o piccolo del movimento operaio sulla base dei testi di quelli che considera ancora e nonostante tutto, suoi maestri. L'assunto è tanto più degno di nota per quanto riguarda Bordiga, il quale o si respinge e si distrugge in nome del liberalismo e della democrazia, o vuole essere confrontato con quel Marx, a cui costantemente si richiamò.

Ma vediamo come Bordiga in concreto esce, secondo Livorsi, da questo confonto. Bordiga nel 1913 sostiene: «Per essere socialista non basta sapere, né volere, che verrà il socialismo, occorre agire per affrettarlo e porlo innanzi a ogni cosa» (p. 31). A questa citazione il Livorsi poteva aggiungerne un'altra ancora più significativa. Agli interventisti che giudicavano i socialisti neutralisti «pacifisti» o «panciafichisti», Bordiga risponde con una serie di articoli sul giornale dei giovani socialisti, in cui pone un netto divario tra chi, proclamandosi «rivoluzionario», si fa sostenitore della violenza «di lor signori», e chi concepisce un uso liberatorio e proletario della violenza:

 

«Noi siamo fautori della violenza. Siamo ammiratori della violenza cosciente di chi insorge contro l'oppressione del più forte, o della violenza anonima della massa che si rivolta per la libertà. Vogliamo lo sforzo che rompe le catene. Ma la violenza legale, ufficiale, disciplinata all'arbitrio di un'autorità, l'assassinio collettivo irragionevole che compiono le file dei soldatini automaticamente all'echeggiare un breve comando [...] questa violenza che i lupi e le iene non hanno, ci fa schifo e ribrezzo» (2).

 

Ora, in queste affermazioni il Livorsi coglie toni moralistici, irrazionali, volontaristici, tipici del mussolinismo se non dell'attualismo gentiliano (p. 32-33).

Non si possono mai negare influssi del tempo sopra un pensiero, né si può escludere che in un periodo segnato dal volontarismo, di destra e di sinistra, questo abbia esercitato un'influenza sul giovane Bordiga. Ma perché non fare risalire piuttosto questo volontarismo bordighiano alla passione rivoluzionaria di un Marx? Volontarista allora, anche Marx, quando esaltava l'insurrezione parigina del giugno 1848, che notoriamente non aveva un partito alla testa, o la Comune di Parigi, nella quale la componente marxiana era insignificante o del tutto minoritaria? Certamente il volontarismo non sorretto da un'analisi della soggettività e non fortificato da un programma può portare al fascismo, ma fa riflettere il fatto che nell'oggettivismo assoluto si siano ritrovati nel secondo dopoguerra, e un PCI che per la sua via «nazionale e democratica» al socialismo invocava come pezza d'appoggio la situazione internazionale (l'Italia militarmente ed economicamente sotto il controllo americano) e il vecchio Bordiga che giustificava la scissione del nesso teoria-prassi e il proclamato dovere di ricostruire la teoria con la scusante che il proletariato aveva subito una sconfitta alla scala storica.

Non si esclude allora una dose di «volontarismo» nel giovane Bordiga, ma piuttosto che farla passare per mussolinismo, con buona dose di approssimazione e precipitazione, come fa il Livorsi, sarebbe più opportuno ricondurla a quella tensione soggettiva, a quella passione rivoluzionaria che fu trasfigurata graficamente nel Prometeo che spezza le catene della prima tessera del PCd'I, e che portò le migliori energie proletarie a militare per il comunismo.

Certamente la storia cammina e lo stesso Bordiga si rese conto assai bene, e da questo punto di vista recepì la lezione di Lenin e della Rivoluzione d'Ottobre, che la rivoluzione non si fa solo col Massenstreik, ma abbisogna di altri strumenti indispensabili quali il partito e il sindacato (cinghia di trasmissione del partito). Però quel che è notevole e che emerge dal testo del Livorsi, è che sia Bordiga sia Lenin (se il paragone è consentito), pur sostenendo la necessità della formazione di un partito disciplinato e coeso, non intesero mai la disciplina come un fatto meccanico e formale, e se Lenin guidò la rivoluzione in Russia stando in minoranza, Bordiga si avvalse della collaborazione di Antonio Graziadei per le tesi di Roma e dovette vincere non poche resistenze per ammettere Gramsci, su cui pesava l'ombra di un breve interventismo filomussoliniano, nel primo comitato centrale del PCd'I. Questo modo di concepire la disciplina di partito si può far risalire anche alla formazione culturale e giovanile dei due leaders, entrambi vissuti in un ambiente nel quale il confronto e la circolazione delle idee erano fatti normali? Può darsi. Quel che è certo è che Stalin, uscito dal seminario, imporrà nel PCUS e nei partiti stalinizzati un tipo di disciplina formale e gesuitico.

Lì dove, invece il Livorsi, prende un vero e proprio scivolone, è sull'affermazione bordighiana che quanto più uno stato è capitalisticamente avanzato e democratico-borghese, tanto più è imperialista. Commenta Livorsi: «Lenin non solo non giunse, in generale,  e soprattutto in scritti con intenti teorici, a ritenere più imperialisti gli Stati democratici, ma neppure ad equiparare sovrastrutture statali borghesi dittatoriali e democratiche» (p.69). Orbene, quasi in sincronia con quanto scriveva Bordiga (siamo nel 1919), Lenin , dando alle stampe La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky, nel capitolo intitolato «democrazia borghese e democrazia proletaria», non solo afferma che «quanto più è sviluppata la democrazia, tanto più, in ogni profondo contrasto politico che minacci la borghesia, diventano imminenti i pogrom e la guerra civile», ma aggiunge che in politica estera «l'inganno delle masse» «è cento volte più esteso e raffinato» «nella Francia, nella Svizzera, nell'America, nell'Inghilterra democratica»  «che negli altri paesi».

La differenza tra Lenin e Bordiga consisteva nel fatto che Lenin era capace, per ragioni tattiche, di rettificare e anche capovolgere quell'affermazione, e Bordiga rimarrà legato per tutta la vita ad un antidemocraticismo di principio, che contribuirà ad allontanare da lui non pochi quadri. E la superiorità tattica di Gramsci e Togliatti sta proprio nella loro capacità di prendere i provvedimenti più autoritari, facendosi scudo dietro il termine «democrazia». E mentre sotto la direzione dell' «autoritario» Bordiga vigeva nel PCd'I una «sostanziale» democrazia, sotto la direzione di Gramsci e di Togliatti, ispirata al «centralismo democratico», vivrà una democrazia di tipo tutto «formale».

A parte questi rilievi, bisogna dare atto a Livorsi di aver ricostruito quanto Bordiga scrisse e operò, con diligenza, pazienza e minuzia, dando prova di indubbia probità quando non solleva nessuno scandalo su alcune dichiarazioni che una spia fascista gli strappò a caldo nel luglio 1936, e che pure, per alcuni versi, possono sconcertare (pp.361-370). Ma perché tanto lavoro? Solo per compiere un'apprezzabile operazione di filologia su di un personaggio d'altri tempi («l'iguanodonte», di cui parlava Togliatti)? Secondo chi scrive, c'è dietro una motivazione più profonda, forse inconsapevole, per la quale, in questo momento in cui molti quadri del PCI sono smarriti o perplessi, per la distanza che separa la linea del partito non solo da Marx e da Lenin, ma anche da Gramsci, scrivere di Bordiga può appagare l'intelligenza e mettere in pace la coscienza. Perché, a parte le considerazioni del Livorsi sulla morte vera o presunta di Bordiga, c'è qualcosa  del costume politico di Bordiga, delle sue linee interpretative della storia italiana, della sua «fedeltà» ai principii che rimane vivo e vitale.

Parliamo di costume politico, perché Bordiga prese sempre posizione con chiarezza sui problemi del movimento operaio e comunista, senza mai nascondersi dietro equivoci e cortine fumogene anche di parole. Cosicché, mentre i trockisti nostrani devono fare salti mortali per trovare qualche segno di apertura di Gramsci per la problematica e il caso Trockij, Bordiga può insegnare loro come si possa prendere, con tutti i rischi personali, posizione per un uomo, la cui sconfitta si presagiva certa, nonostante le polemiche da cui erano stati divisi e che ancora li dividevano. Inoltre, se egli non rinunciò mai a giudicare col metro di Marx i movimenti alla sinistra del PCd'I, rifuggì sempre dal denunziare «collusioni oggettive» e «al limite» tra gruppi di estrema sinistra e di estrema destra. La collezione di «Prometeo» del 1924 può documentare a iosa con quanta apertura egli guardasse al movimento anarchico e agli altri gruppi che dicevano di porsi alla sinistra del PCd'I. Viceversa il Gramsci, asceso alla direzione del PCd'I, grazie anche all'appoggio del Comintern, guardò ai partiti dell'antifascismo borghese e non ai gruppi di estrema sinistra come interlocutori politici ideali e reali. Da alcune lettere di Bordiga in morte di Serrati o dirette a Gramsci prigioniero a Ustica (3), si può apprendere ancora oggi come ricordare o intrattenere rapporti da comunisti con compagni coi quali la lotta era stata ed era anche aspra. Si, egli fu ostinatamente antiparlamentare, ma seppe anche rimanere a tal punto coerente col suo antiparlamentarismo da ridere di coloro che per indurlo nel 1924 a presentarsi candidato, gli assicuravano come cosa certa l'elezione a quella camera dei deputati, che egli giudicava «mefitica e spregevole».

Parliamo di vitalità della sua interpretazione della storia italiana, perché, se egli non andò mai al di là di spunti e di intuizioni (ed è questo il primo limite suo e dei suoi seguaci), seppe per il suo anticonformismo intellettuale rimanere immune da tutta la tradizione culturale e pseudoculturale italiana.. Di qui il suo rifiuto a considerare il Risorgimento come rivoluzione borghese mancata, le distanze che sempre mantenne dal meridionalismo piagnone e pitoccante, la sua negazione del luogo comune ricorrente su Napoli come concentrato di disgregazione e di sottosviluppo (a p. 96 Livorsi sottolinea che Bordiga  «negò il carattere precapitalistico o paleocapitalistico» di Napoli, che considerò invece «la brutta faccia di un unico capitalismo italiano»; anche se lo stesso Livorsi afferma a p.16 che il proletariato industriale napoletano «costituiva si e no il 10% della popolazione lavoratrice, mentre a leggere la statistica del 1911 risulta che il proletariato industriale napoletano era circa il 10% della popolazione residente; il che è ben diverso); la sua interpretazione del fascismo come frutto del capitalismo avanzato e non di quello arretrato, come fenomeno mondiale e non italiano; la sua collocazione delle origini del fascismo a sinistra e non a destra, e, al contempo, il suo scherno per il cosiddetto fascismo di «sinistra», «misto di idealismi e di appetiti, caotico ed informe, del quale nulla di meglio le classi intermedie sapranno mai portare sul terreno del conflitto sociale» (p. 307).

Veniamo, infine, all'affermazione, che può essere giudicata anche provocatoria, della validità della fedeltà ai «principi» proclamata da Bordiga. Non si può nascondere che è una fedeltà sui generis, viziata dalla revisione, e confutazione, di due problemi che hanno sempre rivestito nel marxismo-leninismo una importanza tattica e non strategica: il problema delle alleanze o del «compromesso», come oggi si dice, e il problema della democrazia. Al compromesso, anche con i «partiti affini», egli fu ostile dagli anni della sua milizia nel partito socialista, ostilità che si manifestò prima contro la «politica dei blocchi popolari», poi, nel PCd'I contro l'unificazione su basi paritetiche con il PSI, nel 1936 contro i «fronti popolari», nel 1940-41 contro l'alleanza dell'URSS con le democrazie occidentali. L'odio contro la democrazia, portò Bordiga a rifuggire perfino dall'uso dell'aggettivo «democratico» nella formula che doveva riassumere i rapporti interni tra le varie istanze di un partito comunista («centralismo organico» contro il leniniano «centralismo democratico»). Ma è notevole che quelle stesse condizioni particolari dei paesi dell'Europa occidentale, che giustificano per Gramsci e i suoi seguaci il ricorso necessario e quasi strategico alla politica delle alleanze e alla pratica della democrazia tout court, servono a Bordiga a negare perfino in una fase di transizione forme di democrazia, pena l'obnubilazione di ogni prospettiva comunista. Se la sua chiusura sul problema della democrazia fu totale, non si può dire che fu totalmente insensibile ad ogni proposta di alleanza operai-contadini, solo che subordinò ogni riforma anche di segno democratico nell'ambito dell'agricoltura alla conquista del potere politico (su questo punto si veda Livorsi alle pp. 276-178).

Se fu parzialmente d'accordo con Lenin sull'opportunità di lottare entro le istituzioni dello stato borghese (parlamento, enti locali, esercito), fu certamente concorde con Lenin che l'obiettivo di tale lotta entro lo stato dovesse essere il suo rovesciamento e non la sua trasformazione o correzione.

 

NOTE

 

(1) Questa osservazione è in D. Montaldi, Saggio sulla politica comunista (1919-1970), Piacenza 1976, p. 22.

(2) Gli articoli sono riportati in Storia della sinistra comunista, Milano 1963, pp. 244-258.

(3) «Movimento operaio e socialista», 1972, 4, p. 133; «Studi storici», 1975, 1, pp. 146-154.

 

 

 

MICHELE FATICA

 

Rivista di storia contemporanea, n. 4, ottobre 1977