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archivio > Articoli su Bordiga>Mario Paone, Il libro bianco del bordighismo (La Nuova Europa, n. 4, ottobre 1970)

aggiornato al: 24/07/2008

La Nuova Europa, n. 4, ottobre 1970

Tempo fa avevamo già inserito, in questa stessa sezione, uno scritto di Mario Paone «Amadeo Bordiga, l'Ajace del comunismo italiano»; ad esso rimandiamo per le notizie sull'autore. Completiamo ora quanto Paone dedicò a Bordiga con questo secondo articolo  pubblicato sempre su «La Nuova Europa» nel n. 4 dell'ottobre 1970.

Lo spunto all'articolo è dato dalla pubblicazione del n. 2 di «i testi del partito comunista internazionale» che portava il titolo «In difesa della continuità del programma comunista» e raggruppava tesi di Partito che andavano dalle "Tesi della frazione comunista astensionista" del 1920 a quelle "sul compito storico, l'azione e la struttura del partito comunista mondiale" del 1965.

 

 

Il libro bianco del bordighismo

 

Ora che l'uomo è morto, può essere adoperato anche da parte nostra, ma nel suo giusto senso, quel termine «bordighismo», che in altri tempi veniva usato a significare un fenomeno patologico del movimento operaio, non molto dissimile dall'altro, che nella letteratura comunista di quegli anni andò sotto il nome di «trotskismo», e del quale anzi veniva considerato una semplice variante italiana, (come spiegava la «Piccola Enciclopedia del Socialismo e del Comunismo» del compianto Giulio Trevisani, che tra tante buone qualità aveva - anche per quei tempi - il difetto di un conformismo di tipo addirittura catechistico.

«Libro bianco del bordighismo» può essere dunque definito, per il suo estremamente interessante contenuto polemico e dialettico, non meno che per la sua veste editoriale, questa pubblicazione che, apparsa or ora sotto il significativo titolo «In difesa della continuità del programma comunista» [1], raccoglie, con ampie note di presentazione e di collegamento, i testi bordighiani, dai lontani tempi delle tesi «astensioniste» (1919/20), fino alle più recenti prese di posizione degli anni 1965-66.

Naturalmente non mancano neppure qui la veemenza delle espressioni e -pur con qualche attenuazione rispetto alle precedenti pubblicazioni bordighiane - la tendenza alla invettiva, caratteristiche del grande lottatore marxista testé scomparso. Ma non ce ne scandalizzeremo, se è vero che anche la violenza verbale è talvolta una delle forze levatrici della storia. Ricordiamo infatti che Lenin chiamò «rinnegato», perfino nel titolo di un suo famoso lavoro, il vecchio teorico marxista Kautsky, cui pur riconosceva  il sostanziale contributo dato in precedenza agli studi sul fondatore del moderno socialismo scientifico e della I Internazionale. Ricordiamo ancora che la tendenza all'invettiva è parte integrante della nostra migliore storia letteraria e politica, dal padre Dante della «Commedia» al Gioberti del «Gesuita Moderno». Volgendo poi lo sguardo oltr' Alpe e oltre Manica, si può risalire alla furibonda polemica che arse in buon latino rinascimentale tra Martin Lutero ed Enrico VIII - allora defensor fidei - prima che l' Inghilterra cessasse d'essere l'isola dei Santi. Lasciamo invece da parte, perchè si trattò di semplici monologhi, le requisitorie di Visinski - che pure era un colto giurista - ai grandi processi di Mosca contro la vecchia guardia leninista (di sinistra e di destra ) le jene trotskiste, le vipere zinovieviane, i cani bukariniani, le vespe rikoviane, e chi più ne ha più ne metta.

D'altra parte, quale marxista, quale comunista che si rispetti, anche in tempi di benvenuto apaisement  dell'Unione Sovietica con l'odierna Germania di Willy Brandt, potrebbe rimproverare ad Amadeo Bordiga di aver scritto in questo libro che le mani dei socialdemocratici tedeschi del 1919 (Scheidemann, Noske, ecc.) taluni anche di origine operaia, erano «lorde e grondanti del sangue di Carlo e di Rosa?». L'insurrezione dello Spartakusbund, che appena qualche mese prima aveva energicamente aiutato i socialdemocratici a prendere il potere, era stata già domata dalla potenza dell'apparato militare e poliziesco, che quel governo provvisorio aveva ereditato dagli Hoenzollern; eppure Carlo Liebkneckt e Rosa Luxemburg, catturati e imprigionati, vennero poi barbaramente massacrati a freddo.

Quale comunista coerente potrebbe contestare a Bordiga la legittimità dell'accusa da lui mossa a Stalin, in nome dei principi rivoluzionari e della storia degli eventi successivi, di aver fatto accogliere in seno all'Internazionale Comunista, sia pure quale «simpatizzante», il Kuomintang del «boia» Cian-Kai-Shek, quegli stesso che (qualcuno, vivaddio, se ne ricorderà!) Benito Mussolini esaltava come il simbolo vivente della «Nuova Cina»?

Certamente, il discorso cambia, e, può dar luogo a disparità di vedute, allorché Bordiga definisce un «mostro», una «suprema bestemmia contro Marx e contro Lenin» la scelta del 1926, cioè la brusca conversione staliniana al programma della «edificazione socialista in un solo paese» e il conseguente abbandono della strategia rivoluzionaria su scala europea e mondiale; ma una siffatta grave questione va in ogni caso posta ed affrontata storicamente, e non partendo da una accettazione acritica e dogmatica di quella «grande scelta». Non basta dire che essa fu necessitata dalla repressione dei tentativi rivoluzionari nella Germania del 1923; occorre domandarsi se, malgrado quegli eventi, ove fosse stata tenuta accesa in Germania e in tutta Europa la fiamma rivoluzionaria e lo spirito dell'internazionalismo proletario nella sua originaria accezione (e non in quella che si ebbe poi, attraverso una conversione su se stessa di almeno 170 gradi), il consolidamento del fascismo in Italia, il rafforzamento e il successivo trionfo del nazismo in Germania, la definitiva vittoria della reazione franchista in Spagna, sarebbero stati facilitati o meno. Anche in Russia la rivoluzione del 1905 si era chiusa con ben magri risultati, di carattere puramente costituzionale, sempre nell'ambito del sistema zarista. Eppure, 12 anni dopo, la rivoluzione si riaccese e divampò fino alle sue estreme conseguenze.

 

* * *

 

Nel nostro articolo commemorativo di Amadeo Bordiga [2] scrivemmo che da quei «testi di partito» sembrava emergere che, pur nelle vivacità della forma, essi fossero la manifestazione piuttosto di una amarezza paterna verso l'antico partito che non un appello verso la secessione interna. Il libro che qui brevemente commentiamo sembra portare piena luce a quella nostra interpretazione. E' sintomatico infatti che Bordiga non abbia mai cercato di riunire sotto la propria guida i vari groupuscules allignanti alla sinistra del P.C.I. e che anzi si infastidisca quando taluno gli chieda di far «più rumore» intorno alla propria iniziativa politico-ideologica. La fermezza, la inesorabilità, la... ostinatezza della sua critica appaiono costantemente rivolte contro la politica del P.C.I., ossia contro l'indirizzo ad essa impresso fin dai tempi difficili del suo III Congresso (Lione, 1926) e del periodo preparatorio, iniziatosi già dal tempo in cui Bordiga era in carcere (per la conferma di questo punto, vedasi specialmente il saggio di Togliatti «La formazione del gruppo dirigente del P.C.I.» e i suoi importantissimi allegati), non mai contro il partito nel suo assieme, ossia l'organizzazione politica nata dalla scissione socialista di Livorno. In sostanza la critica bordighiana, in questi testi - legati dal primo all'ultimo da un unico filo conduttore, tanto che sembra che Bordiga continui a parlare dall'interno del P.C.I. anche dopo le sue tesi di minoranza al Congresso di Lione e dopo l'espulsione del partito - tende alla dimostrazione che dall'eccessivo lealismo verso le mutevoli esigenze della «Internazionale Comunista» - in cui predominanti erano naturalmente la posizione dl partito bolscevico e le sue preoccupazioni anche di politica estera - il P.C.I. avesse subito un grave riflusso rispetto alle categoriche, originarie posizioni rivoluzionarie, riconosciute giuste e volute dalla stessa Internazionale, e che appunto avevano portato a quella drastica e non indolore rottura con le altre correnti o frazioni dell'antico Partito Socialista. Per Bordiga il «tatticismo» (che più tardi, consule Stalin portò addirittura alla politica dei fronti popolari), ossia la ricerca delle più ampie intese possibili, non soltanto con i «terzini» (ossia con quei socialisti italiani che, pur aderendo alla III Internazionale, non avevano seguito fin dal momento della scissione il P.C.I., ma vi entrarono di lì a poco), ma anche con i massimalisti del P.S.I. e perfino con i riformisti turatiani era opportunismo, era abbandono dei principi. A siffatta politica del tutto nuova e di cui si dette il nome di «fronti unici», tendenti alla instaurazione dei cosiddetti «governi operai» dovunque fosse possibile per vie elettorali e legalitarie (una politica che in verità non portò ad alcun apprezzabile risultato), Bordiga fu decisamente contrario. Egli dichiarò esplicitamente di non potervisi adeguare, se non per disciplina, e come semplice iscritto al partito, esclusa ogni sua corresponsabilità quale dirigente. Il tentativo fatto da Zinoviev e del quale è traccia anche nel ricordato libro di Togliatti, per cercare di riportarlo all'ovile con l'offerta della vicepresidenza della III Internazionale e con la conseguente possibilità di controllare gli sviluppi di quella nuova politica, che Bordiga invece contestava alla radice, andò fallito. Tra l'altro egli non risparmiò le sue censure neanche a Trotski, di cui pure era grande estimatore e che in quei tempi era ancora - o sembrava - all'apogeo della sua potenza e della sua gloria di deuteragonista della Rivoluzione d'ottobre e di invitto condottiero delle armate rosse contro le spedizioni mercenarie dei vari Wrangel, Denikin e Kolciak. Non era ancora venuto il tempo della più grave e decisiva polemica con Stalin, perchè questi al tempo del cosiddetto «interregno» (ossia il periodo in cui Lenin, infermo, non poté continuare a tenere con mano salda il potere) se ne stava apparentemente chiuso nel suo burocratico ufficio di segretario del comitato centrale, ufficio che non era ancora quello, altamente politico di segretario del partito.  Stalin, anche se all'indomani della Rivoluzione di ottobre aveva coperto in seno al Consiglio dei Commissari del popolo la carica di Commissario per le nazionalità, era ancora sconosciuto o quasi agli osservatori occidentali, comunisti e non. [3]

 

* * *

 

«Per Amadeo la strategia era tutto, la tattica era niente». Così ci diceva  giorni or sono, in una rapida conversazione telefonica, l'ex senatore Luigi Gigliotti, che, antico discepolo di Bordiga e suo compagno di lotte nella Napoli dell'altro dopoguerra, all'avvento del fascismo ne condivise anche le vicende ... carcerarie e giudiziarie [4].

Strategia dunque, non tattica e meno ancora «tatticismo». Proprio tutto il contrario - si può osservare - di quel revisionismo bernsteiniano, per cui la tattica, identificantesi con il riformismo è tutto e la strategia rivoluzionaria sembra perdere, in definitiva, ogni ragione di essere.

Ma una siffatta concezione edulcorata della lotta di classe significava per Bordiga quell'abbandono dei principi, quell'opportunismo, che nella sua visione non cessavano di essere tali solo perchè, a praticarli, non era più il vecchio partito socialista, diviso ormai in tre tronconi.

E' interessante però notare come dell'opportunismo, concepito oggettivamente quale modo accomodante di condurre la lotta del proletariato contro l'oppressione capitalistica, Bordiga dia un giudizio che, pur mantenendosi fermamente negativo sul piano politico ed ideologico, prescinde da censure di carattere etico e morale. L'opportunismo, del pari che il suo aspetto pratica, il riformismo, la politica del giorno per giorno, portano confusione nelle file del proletariato, portano alla perdita della grande prospettiva rivoluzionaria della conquista del potere, di tutto il potere, da parte della classe operaia.

«Propter  vitam, vivendi perdere causam»: questa è, per Bordiga, la fatale conseguenza del riformismo e dell'opportunismo, di ogni e qualsiasi  concessione ad esigenze di carattere tatticistico in sede politica, anche se animata da buone intenzioni e perseguita in buona fede. Unità in campo sindacale, sì; collaborazione con altri partiti, sia pure di sinistra, sia pure a base operaia, no, intransigentemente no. Tutt'al più si ammette da lui un'occasionale convergenza di lotta tra i comunisti e gli altri partiti di sinistra; ma nella condotta di una tale lotta i comunisti devono conservare la loro assoluta autonomia ed indipendenza d'iniziativa, non devono assolutamente entrare in comitati, in organi di direzione interpartitici, non devono sottostare al potere decisionale di eventuali maggioranze non marxiste e non comuniste.

Sul piano dei rapporti interni di partito la concezione bordighiana della disciplina è invece più tollerante di quella affermatasi nel P.C.I. Bordiga è in linea di massima contrario alle sanzioni disciplinari, a quelle decisioni, sia pure di maggioranza, che la minoranza dissenziente debba considerarsi obbligata ad eseguire, anche se esse, adottate in vista di transitorie difficoltà, non corrispondano ai principi ideologici e politici del comunismo e del marxismo rivoluzionario. Alla concezione del centralismo democratico, egli contrappone quella di un centralismo organico, che si ponga sopra la guida di una chiara e sicura visione ideologica (l'invarianza del marxismo) e che renda quindi superflua la verifica «democratica» delle singole decisioni da adottare; salvo a chi non sia d'accordo la possibilità d'andarsene tranquillamente dal partito.

Comunque, niente compressioni, niente terrorismo ideologico, e tanto meno del tipo di quello che consentì a Stalin di debellare e distruggere anche fisicamente i suoi oppositori, adoperando contro di loro, cioè contro gli stessi membri del partito, l'arma machiavellica della calunnia e la feroce macchina repressiva dello Stato. Dalla dittatura del proletariato alla dittatura sul proletariato, insomma (non per nulla Gramsci fin dal 1930 dovette insistere presso la direzione del carcere e anche più in alto, per poter leggere la «Revolution defigurée» di Leone Trotski: «Lettere dal carcere» pag. 364).

Si può dunque far torto a Bordiga per aver pensato e detto da tempo ciò che la denuncia kruscioviana del 1956 rese palese al mondo intero? Non di certo, quando si ricordi che anche Togliatti, in una sua famosa intervista di allora, riconobbe che nella lunga dittatura dell'ex rivoluzionario georgiano vi erano stati «elementi di tirannide». Quanto a Gramsci, già gravemente ammalato e spentosi in prigionia quando appena quella dittatura aveva cominciato a manifestarsi come aperta tirannide, sarebbe forse tempo di riaprire il discorso, anche cominciando da ciò che di lui è stato finora pubblicato. Tutto sommato, il fascismo e il nazismo (senza tralasciare naturalmente, il salazarismo e il franchismo), deviando allora l'attenzione del mondo intero e dello stesso proletariato di tutti i Paesi verso altri, certamente più urgenti e più gravi problemi (forse qui è la parte più opinabile dell'intransigenza bordighiana, mentre resta più che mai forte ed attuale la sua indefettibile avversione al capitalismo e all'imperialismo americano), hanno finito con l'essere, oggettivamente, i veri, grandi alleati dello stalinismo. Ormai tutti lo abbiamo capito.

 

Mario Paone

 

Note

 

[1] Edizioni «il programma comunista», casella postale 962, Milano 1970. Anche questa pubblicazione, come la «Storia della sinistra comunista» (finora ferma al 1919), è apparsa come «opera collettiva». I discepoli e collaboratori di Bordiga hanno però avuto cura di renderla meno... ermetica delle precedenti, introducendo qua e là il nome di lui e rendendo così un doveroso omaggio al loro maestro, anche contro la di lui presunta volontà.

[2] In questa rivista, n. 3 (settembre 1970).

[3] E' significativo in proposito, che in un suo scritto del 1924, all'indomani della morte di Lenin, Piero Gobetti, vicinissimo a Gramsci ed ammiratore di Trotski, nel passare in rassegna i nomi dei più prestigiosi capi bolscevichi e possibili successori di Lenin, non si accorgesse neppure della esistenza di Giuseppe Stalin anzi irridesse a chi si faceva portatore delle voci su «presunte disgrazie politiche di Trotski». Lo scritto di Gobetti, pubblicato sotto il titolo «Una classe dirigente» nel volume postumo «Il paradosso dello spirito russo» (1926) è stato ripubblicato da Feltrinelli nella raccolta di articoli di «Rivoluzione Liberale».

[4] Gigliotti, ora vicepresidente del Consiglio regionale del Lazio, è noto anche e soprattutto per la serietà,  la severità, l'intransigenza esemplare e tipicamente bordighiana della lotta che dal suo posto di consigliere comunale del P.C.I. in Campidoglio seppe condurre per oltre 20 anni contro l'Amministrazione D.C. 

 

 

La nuova Europa, n. 4, ottobre 1970