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archivio > Archivio sulla sinistra>La terra scotta (Il Programma comunista, n. 10, 25 maggio 1965)

aggiornato al: 22/06/2012

Il Programma comunista, n. 10, 25 maggio 1965
Un bell'articolo di più di quaranta anni fa su di un mondo, allora come oggi, in fiamme. Allora il centro della rivolta fu il Vietnam dove giovani forze di masse contadine e di senza riserve condussero una lotta epica e vincente contro l'imperialismo americano senza che tutto questo, purtroppo, risvegliasse o muovesse alla solidarietà di classe il proletariato d'occidente.
 
La terra scotta
 
Buttando alle ortiche l'ultima delle ipocrite finzioni di cui le guerre imperialiste sogliono ammantarsi, il governo e lo stato maggiore americani hanno lanciato «per la prima volta» nella lotta contro i guerriglieri vietnamiti quei marines che si diceva avessero l'unica missione di proteggere le basi aeree, navali e terrestri del corpo di ... consiglieri USA presso il governo fantoccio tenuto faticosamente in carica a Saigon.
Che cosa significa ciò, se non l'aperta confessione di un fatto che solo i ciechi ormai non vedono: che cioè l'esistenza di una popolazione del Sud Vietnam supinamente genuflessa davanti agli altari di una democrazia dalla quale per anni ed anni non ha ricevuto se non fame, e non disposta a battersi se non in una piccola, insignificante minoranza di pazzi o di...venduti, apparteneva alle comode leggende che servono solo a dare una vaga apparenza di «legittimità» al brigantaggio? I marines devono da ora in poi fare la guerra che i sud-vietnamiti non hanno nessuna intenzione di muovere ai loro fratelli del sud, del centro e del nord: devono presentarsi apertamente come poliziotti. Nessuno li appoggia: neppure il governo, che è sempre stato un castello di carta; meno che mai i civili.
A S. Domingo avviene suppergiù lo stesso ― sebbene in altra forma. Dopo le prime sparatorie... filantropiche, le truppe americane si sono «limitate» ad imporre una specie di tregua per consentire a Washington, dietro le quinte, di cucinare e, a cottura avvenuta, servire in tavola il governo che piace a lei (o ai grossi pesci monopolizzanti l'economia e le risorse naturali dell'isola). La «pace» (cioè la tregue d'armi) ha lo stesso senso qui che la guerra guerreggiata là: un'operazione di volgare polizia democratica, per imporre alle masse stanche di una miseria atroce la soluzione più conveniente non certo a loro, ma al capitale mondiale, quello USA in specie. Qui come là le masse gridano: ABBIAMO FAME! Il capitalismo risponde: VI SBAGLIATE, SIETE DELLE PEDINE DI MAO O DI CASTRO: NOI VI NUTRIAMO A GRANATE, POI ― SE VINCIAMO ― VI NUTRIREMO A SCHEDE!
Il guaio è che le masse inferocita da un lungo sfruttamento imperialistico trovano a «confrontarle nella lotta» o dei paesi «socialisti» i quali ripetono fino alla noia che è necessaria una soluzione «negoziata» del conflitto (altro modo di dire: il vostro sangue, cari amici, deve essere sacrificato agli interessi mercantili della coesistenza internazionale fra ladroni), o dei partiti che si mettono a posto la coscienza con la promessa di un invio di volontari «se saranno richiesti», avendo da tempo rinnegato la visione marxista che affida la salvezza dei popoli coloniali alla lotta rivoluzionaria dei proletari delle metropoli contro i LORO governanti... Gli uni, mentre laggiù si combatte, gridano pecorescamente: TRATTATIVE E PACE!     Gli altri, in patria, gridano vilmente:VIA PACIFICA E PARLAMENTARE al socialismo!
 
* * * * *
 
Eppure, dal sottosuolo della società capitalistica sale il grido di vendetta delle classi sfruttate e non ancora isterilite dall'oppio riformista, il grido di rivolta contro gli inganni e le menzogne delle «nuove frontiere» o della «nuova società», promesse dai governanti borghesi come il paradiso dai preti. Il grido viene dalla Bolivia, e non è più di masse popolari generiche, ma di proletari puri; di decine di migliaia di minatori organizzati delle cui condizioni di sfruttamento nazionale e internazionale (giacché lo stagno, l'argento il petrolio hanno attirato nella loro terra capitali di tutti i paesi «civili») neppure i borghesi nostrani riescono a celare gli orrori di diecine e diecine di migliaia di minatori che sono due volte oppressi, come salariati in genere e come salariati «di colore» in specie, e che hanno assaggiato in lunghi e lunghi decenni l'inconsistenza delle riforme agitate (e magari anche in parte attuate) da partiti e movimenti cosiddetti «rivoluzionari», in realtà democratici e vagamente progressisti.
La causa occasionale della loro rivolta, non parolaia, non schedaiola, ma virilmente ARMATA, può essere più o meno rilevante; ma alla sua base c'è la rivolta istintiva degli schiavi salariati contro il capitale, tanto più feroce quanto più ammantato di... filantropia puritana; c'è l'impossibilità per essi di uscire dalla morsa dello sfruttamento capitalistico per altra via che non sia quella di Spartaco.
Proletari dei paesi «civili», è un monito che i continenti lontani vi lanciano, urgente e appassionato ― tanto è vero che, come la potenza distruttiva del capitale predone non conosce frontiere, così ― e a maggior ragione ― NON PUO' E NON DEVE CONOSCERNE la potenza eversiva e rinnovatrice del proletariato!
 
Il Programma comunista, n. 10, 25 maggio 1965