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archivio > Archivio sulla sinistra>Moralità dello Stato italiano (battaglia comunista, n. 36, 21 - 28 settembre 1949)

aggiornato al: 02/09/2010

battaglia comunista, n. 36, 21 - 28 settembre 1949

Un altro articolo  "di costume" di più di sessanta anni fa che rappresenta anche la nostra quotidianità odierna.

Il superenalotto (con le sue supervincite) spopola e fa sognare tutti i "poveri cristi" che sperano di por fine così, con un colpo di fortuna, alle angosce legate alla loro miseria allo stesso modo della Sisal del vecchio tempo andato. E cosa resta oggi oltre che sperare nella fortuna per cambiare la propria realtà di miseria?

Per le «case chiuse» riproporremo a breve un bell'articolo sempre del 1949 quando, in parlamento si pose il progetto della loro abolizione (Società borghese grande «casa chiusa» si intitolava quell'articolo!); la legge ci mise poi una decina di anni per essere approvata!

 

 

Moralità dello Stato italiano

 

Un noto scrittore italiano, in un suo recente racconto, prendeva le difese dei giocatori di tavolette agli angoli delle strade. Non si vede il perché del biasimo rovesciato su di essi e delle relative persecuzioni legali: in fondo, non fanno che speculare sulla convinzione del pubblico di esser molto furbo e di saper approfittare di segni apparentemente dimenticati dai giocatori medesimi. Se le «vittime» fossero veramente oneste direbbero al «tavolettista»: guardi che ha abbassato l'elastico di quella cartina; lo rimetta a posto prima che io scommetta. Ma siccome tutti si guardano bene dal dirlo, truffatore il giocatore e truffatore lo «spennato».

Ma, se da un certo punto di vista è lecito tentar la riabilitazione morale di questa categoria, giustizia vuole che, perdurando la sua punizione, non si taccia sulla mancata punizione di un altro giocatore, di ben più vasta mole e importanza, e ahimè, di onestà molto minore dei surricordati. Costoro, infatti, oltre alle sanzioni penali, rischiano di subire la reazione dei giocatori allettati e, in una certa misura, di perdere anche la posta. L'altro giocatore non rischia nulla. Egli non ha l'attenuante dell'indigenza personale, non offre garanzie di sorta a chi scommette, svolge una sfrenata campagna pubblicitaria a favore della propria speculazione, e infine spoglia il prossimo di somme pari a centinaia di milioni alla settimana. Si tratta dello Stato. Le tavolette, in questo caso, sono la Sisal, il Lotto, le lotterie, i casinò, ecc.

Che la gran massa sia composta di individui di volontà relativamente debole e facile a suggestionarsi è risaputo. Si può comprendere come larghi strati del pubblico si lascino facilmente abbindolare dalla lustra del gioco. Tanto miserevole è la condizione dei più, tanto ridotte le loro prospettive che riesce loro difficile non abbandonarsi alla tentazione di interrogare la Sorte e sperare in una pur lontana possibilità di vincere una somma che li sollevi dalle preoccupazioni di tutti i giorni. Lo sfogo del gioco, come gli altri vizi sociali, è in rapporto alle condizioni di miseria e abbruttimento generali, e cresce parallelamente a queste.

La manifestazione di questo stato psicologico, così diffusa nelle classi inferiori, si riproduce  a motivi rovesciati nelle classi superiori. In questo caso l'incentivo è dato dalla nausea di tutti gli altri piaceri, dalla supersaturazione dei desideri, dal bisogno di procurarsi emozioni che nulla sa più dare. Ambedue le forme possono quindi essere considerate patologiche, segni di una malattia condannabile dalla più elementare morale. E un tempo la retorica ufficiale demandava allo stato la profilassi di queste insane passioni.

Oggi lo Stato è bensì democratico, cattolico, progressista, illuminista e molte altre cose insieme,  ma tutto questo non gli impedisce di essere il più colossale e spietato tenitore da banco. La sua rapacità, la sua capacità di spogliare non hanno confronti, mentre i termini di gioco ch'esso pratica sono degni del più decaduto dei bari. Prendiamo ad esempio la Sisal. Delle 50 lire che un qualsiasi disgraziato scommette a fine settimana, circa venti sono divorate dalla combriccola degli organizzatori, diffusori, baristi, botteghini ecc.; altre 15 sono prelevate dall'Erario e le restanti si sommano nelle «vincite». Senonchè, appena qualche illuso riesce a vincere vede subito apparire il famoso agente del fisco che gli prende un altro 60% sull'incasso. Ne segue che delle cinquanta lire giocate, il sisalista ne incassa in realtà sei. Orbene, oltre a tener bordone a questa razionale forma di spogliamento del pubblico e a parteciparvi in larga misura, lo Stato trova anche modo di incoraggiare le scommesse, di segnalare alla radio le vincite importanti, di favorire le varie forme di pubblicità, la stampa relativa, ecc.

Vi è poi l'altra categoria di giocatori, quella dei supermilionari, dei miliardari, di cui abbiamo prima parlato. Costoro non si limitano alle banconote di infimo taglio. Costoro perdono abitualmente decine di milioni alla settimana. Il fatto che possano esservi individui in possesso di così ingenti quantità di liquido e in grado di rischiarle a piacere non preoccupa affatto l'autorità costituita. Anzi. Autorevoli portavoce del Governo non si sono peritati di affermare che l'esistenza di casinò da gioco che fruttano ciascuno allo stato un miliardo all'anno è cosa lodevolissima. Indispensabile per favorire il ... turismo. E non è solo questo l'aspetto che li rende graditi al Governo: v'è anche il fatto che servono in una certa misura da strumenti di ... perequazione dei redditi. I miliardari che si lasciano spogliare dal tavolo verde restituiscono così il mal tolto, e la giustizia generale ne è ristabilita. A parte l'edificante constatazione che il miglior agente del fisco in Italia è il banco da gioco, si deve tenere presente che la percentuale incamerata dallo Stato e satelliti è in questi casi di gran lunga inferiore a quella prelevata sulle giocate alla Sisal che, come abbiamo visto, è pari all'88%. Ma tant'è: il rango sociale ha la sua importanza, e sarebbe indelicato far pagare ai miliardari quello che si fa pagare al volgo.

Ma l'azione di lenocinio dello Stato non finisce qui. Una Maddalena assunta al laticlavio ha recentemente sollevato al Senato la questione delle «case chiuse», argomento quanto mai scottante per le ignobili forme di sfruttamento che su di esso prosperano, indipendentemente da ogni considerazione morale o igienica sulla loro opportunità. E' un fatto che l'Italia cattolica è ormai uno degli ultimi paesi a possedere una regolamentazione in tal senso. Da quando la proposta dell'abolizione delle «case» è stata avanzata, non passa settimana che su qualche autorevole giornale non appaia un articolo di un non meno autorevole citrullo, il quale afferma che il proposito è buono, ma però!!. E molti «però» riescono a trovare Camera e Senato per rimandare la decisione su una questione così inopportunamente sollevata (1).

Le ragioni di questa titubanza? Forse la preoccupazione della salute pubblica? Beata ingenuità! L'indecisione è in stretto rapporto coi miliardi che la prostituzione organizzata rende allo stato e ai suoi compari. In verità,  la più pura morale cattolica sarà sempre pronta a condannare una comune peripatetica, mentre si troveranno centomila scribacchini e deputati a giustificare il fatto se la disgraziata, anziché esercitare  «la professione» in proprio, si sottomette a farsi divorare i proventi dai tenutari delle case e dallo Stato. La sua abiezione in questo caso diventa utile all'igiene nazionale.

Ma il vizio patrocinato dal governo non finisce qui. Vi è il fumo. Piccola colpa in realtà. Anzi, nessuna colpa affatto. Il problema è che, su questo innocente passatempo, il Governo ha trovato modo di ricavare 100 miliardi all'anno. E per continuare a guadagnarli, oltre allo «sterco e alla paglia» che propina nelle sigarette nazionali, agisce con pervicacia contro i concorrenti. Chi fuma non ne fa a meno: come non approfittarne? Il bello è che con tutto questo si trova sempre qualche professore di economia (vedi il Tagliacarne) che si sdegna per lo sperpero che si fa in Italia nei «vizi». Questo sdegno è in rapporto alla richiesta di diminuire le entrate dei salariati e di fare in modo che vengano convogliate ove gli amici vogliono. I bravi teorici si guardano però bene dal far rilevare che, se per pura ipotesi gli italiani fumassero meno, il restante non verrebbe affatto lasciato loro per destinarlo a spese utili, come vorrebbero i cari professori, ma lo Stato protesterebbe che i suoi cento miliardi deve, in un modo o nell'altro, ottenerli. E troverebbe, ne siamo certi, il modo di ottenerli. Lo stato è etico, che diamine!

 

(1) L'idea di abolire le «case chiuse» ha colpito la fantasia in genere così torpida quando si tratta di problemi economici, dell'ex-Ministro Merzagora. Egli difende la loro esistenza per una considerazione importante: finché le «case chiuse» sono aperte i baldi giovani della borghesia possono recarvisi e poi andare impunemente con le fidanzate e amichette, e rispettarle. Se invece le «case» fossero chiuse, chissà mai cosa avverrebbe. Anche noi rabbrividiamo all'idea dell'ondata di stupri, e al disonore che attenderebbe le brave «demi-vierges».

 

battaglia comunista, n. 36, 21 - 28 settembre 1949