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archivio > Archivio sulla sinistra>I missionari della castrazione, (il programma comunista, n. 12, 25 giugno - 8 luglio 1953)

aggiornato al: 10/11/2009

il programma comunista, 25 giugno - 8 luglio 1953

Nel dicembre dello scorso anno, sempre in questa sezione (Archivio della Sinistra) avevamo riprodotto un bell'articolo del 1953 (Glorie del capitalismo Figli come capitali) che, per chi se ne fosse dimenticato,  è utile rileggere.

Sulla scia di quello, questo articolo prende in esame in modo ironico, anche se ben calibrato, il "pregiudizio" che vede la miseria del proletariato come causa della prolificità delle famiglie operaie.

Buona lettura.

 

I missionari della castrazione

 

Un lettore ha scritto al responsabile di questo foglio chiedendo chiarimenti circa la posizione del nostro movimento di fronte a problemi sociali e teorici, che però nella sua lettera, formano una serie un po' lunga. Rispondiamo volentieri, ma non a tutte le richieste, dato che il nostro foglio dispone evidentemente di pochissimo spazio.

Il nostro lettore ha letto e trovato interessante l'articolo «Figli come capitali», pubblicato nel numero 10, ma ne ha tratto delle conclusioni che riecheggiano posizioni pseudoscientifiche e correnti pregiudizi, di cui il movimento rivoluzionario ha fatto giustizia  fin dal suo nascere, circa un secolo fa. Questo lo diciamo con calma scevra di presunzione, e non certo per confondere il nostro cortese lettore. Ma chiamando le cose con nomi che non sono loro propri, una così male intesa gentilezza di linguaggio non impedisce di far arrivare la discussione ad un risultato utile? Dobbiamo perciò dirgli che lui si sbaglia, e persistendo nell'errore si precluderà la possibilità di vedere chiaro nelle contraddizioni e convulsioni della società borghese, accettando il pregiudizio che la «miseria» della classe operaia sia  un risultato dell'eccesso delle nascite, e quindi della incapacità delle famiglie proletarie a limitare la prole. Nell'articolo citato, non si toccava, in verità, tale questione, ma, tenendo presente che è molto diffusa nelle masse la tendenza a seguire supinamente le false argomentazioni che mirano a discolpare la classe borghese gettando sui troppo ... prolifici proletari la responsabilità della disoccupazione e del regime di sottoconsumo, l'occasione è buona per ribadire la posizione rivoluzionaria.

La questione è tutt'altro che nuova. La teoria della limitazione delle nascite come mezzo per ristabilire l'equilibrio tra le capacità produttiva e il consumo, è completamente fuori della dottrina rivoluzionaria del proletariato. Non a caso essa fu sostenuta fin dalla fine del '700 dall'economista borghese Roberto Malthus, il quale negava l'efficacia di ogni riforma sociale sostenendo che l'aumento del potere d'acquisto delle masse determinava per le migliorate condizioni di vita delle famiglie operaie, un aumento delle nascite che a lungo andare avrebbe annullato gli effetti della riforma. Marx combatté il malthusianesimo, e sulle sue orme lo stesso fece Lenin, denunziandolo come espressione riflessa delle condizioni sociali in cui vivono gli strati della piccola borghesia.

La piccola borghesia, i famosi strati medi, onore e vanto della conservazione e della reazione sociale, da cui la classe dominante trae gli ideologi, i ciarlatani demagoghi, i parolai parlamentari, costituisce la sorgente inquinata delle filosofie della disperazione, del nichilismo sconsolato sempre pronto a piangere sulla «inutilità della vita», a predicare la rassegnazione imbelle, lo scetticismo vile. Il piccolo borghese sente nelle sue carni il morso feroce di tutte le contraddizioni della società divisa in classe. Non è falso che rispetto al tenore di vita degli strati meglio pagati della classe operaia, molti borghesucci stiano molto peggio; nessuna sofferenza e umiliazione viene loro risparmiata; anzi, la tragedia del piccolo borghese, caduto in rovina e gettato nella massa dei proletari, o addirittura dei disoccupati, provoca conseguenze assai più disastrose che negli operai tradizionali, i quali, volenti o nolenti, hanno acquisito una maggiore capacità di reagire e di resistere alle sciagure sociali. Il piccolo borghese decaduto è un ribelle, urla e smania contro l'ordine costituito. «Ma come protesta?» si domandava Lenin, e così rispondeva:

«Protesta abbattuto e pavido, quale rappresentante di una classe che precipita senza speranza verso la propria rovina, che non ha nessuna fiducia nel proprio avvenire. Non c'è nulla da fare, almeno ci siano meno figli a soffrire i nostri tormenti, a trascinare le nostre catene, a sopportare la nostra miseria e la nostra umiliazione: questo è il grido del piccolo borghese.

«L'operaio cosciente è lontano le mille miglia da questo modo di vedere. Non si lascia annebbiare la coscienza da tali elementi, per quanto sinceri e profondamente sentiti essi siano. Sì, anche noi, operai e massa di piccoli proprietari siamo curvi sotto un giogo insopportabile e la nostra vita è piena di sofferenze. La nostra generazione ha la vita più dura di quella dei nostri padri. Ma sotto un certo aspetto siamo molto più felici di loro. Abbiamo imparato e impariamo rapidamente a lottare e a lottare non da soli come i migliori tra i nostri padri, non in nome delle parole d'ordine dei ciarlatani borghesi, che ci sono estranee, che non sentiamo, ma in nome delle parole d'ordine nostre, della nostra classe. Noi lottiamo meglio dei nostri padri. I nostri figli lotteranno ancora meglio e vinceranno.

«La classe operaia non corre verso la sua rovina, ma cresce, diventa più forte e più virile, diventa compatta, si educa e si tempra nel combattimento. Noi siamo pessimisti sulle sorti del feudalesimo, del capitalismo e della piccola produzione, ma siamo ottimisti e pieni di entusiasmo per quanto riguarda il movimento operaio e le sue mete. Noi gettiamo già le fondamenta del nuovo edificio e i nostri figli lo porteranno a termine.

«Ecco la ragione, la sola ragione, per cui siamo decisamente nemici del neomaltusianesimo, di questa tendenza propria delle coppie piccolo-borghesi, che, nella loro meschinità e nel loro egoismo, biascicano impaurite: ci conceda Iddio di vivacchiare noi stessi in qualche modo; in quanto ai figli meglio non averne».

Lo scritto di Lenin, da cui abbiamo stralciato questo brano apparve sulla «Pravda» nel  giugno 1913. Ma vale anche per il 1953. Non bisogna credere, però, che il rifiuto di accettare la «vile e reazionaria dottrina sociale del neomaltusianesimo» comportasse, nella posizione di Lenin, la negazione della lotta contro le leggi che vietano, sotto il capitalismo, l'aborto procurato e la diffusione degli scritti medici riguardanti i vari sistemi preventivi intesi a limitare le nascite. «Queste leggi non sono che una ipocrisia delle classi dominanti» affermava Lenin, a conclusione del suo articolo. Conseguentemente a tale posizione. lo Stato operaio, sorto dalla Rivoluzione d'Ottobre riconobbe legalmente il diritto delle donne a praticare l'aborto. Il regime staliniano doveva in seguito attutire e rendere praticamente inoperanti tali misure rivoluzionarie; ma il fatto rimane.

Apparentemente, può sembrare che ci sia contraddizione tra la guerra dichiarata, in sede teorica e critica, alle dottrine  maltusiane e neomaltusiane, e le rivendicazioni pratiche del movimento rivoluzionario marxista. E' questione di intendere giustamente, uscendo dal dilemma astratto: la limitazione volontaria delle nascite è Bene o Male? La banale esperienza mostra quotidianamente come le famiglie numerose soffrono maggiormente dello sfruttamento sociale, per cui una nuova gravidanza è temuta dalle donne del proletariato e della piccola borghesia come una sventura (per le signore eleganti che non hanno «triviali» preoccupazioni economiche è diverso, si tratta solo di un fastidioso incomodo). Chi può negare ciò? Chi può, senza servire la nauseante ipocrisia morale e religiosa, biasimare le pratiche preventive e l'aborto procurato? Non bisogna salire alle altezze della teoria per capire ciò.

Ma l'errore profondo e la caduta nell'ideologia della controrivoluzione avviene se si pretende di elevare al rango di «mezzo» per la abolizione dello sfruttamento sociale, della miseria, della disoccupazione, in una parola di tutte le violenze e le infamie del capitalismo, quello che è, in definitiva, uno sforzo inteso ad evitare peggiori condizioni di lotta contro la tirannia degli ordinamenti capitalistici. Non predicando la limitazione delle nascite, che ormai è il compito equivoco delle associazioni di beneficenza presiedute dalle dame della borghesia, si combatte il capitalismo. Anzi, se per astratta ipotesi si potesse arrestare l'aumento delle file proletarie, che è fenomeno mondiale per il progressivo entrare nel girone infernale dell'industrialismo e del salariato di vaste zone del pianeta, se si potesse farlo il capitalismo respirerebbe. Il fatto inoppugnabile che gli eserciti di lavoratori proletari crescono e si moltiplicano, costituisce una condanna di morte per il capitalismo, che presto o tardi sarà eseguita. Il borghesuccio che vive nel cronico timore di cadere nelle file del proletariato e nell'orrore di dovere deporre la penna o lasciare il banco per impugnare il martello o la vanga, può bene lasciarsi terrorizzare dalla vista del flusso proletario che sommerge inevitabilmente il pianeta, che nessuna utopia reazionaria può ormai sottrarre al suo dominio futuro. I proletari, no!

Lo soppressione dello sfruttamento e dell'oppressione sociale diviene una misera utopia, se si pretende che ad arrivarci esistono altre vie che non siano la dittatura del proletariato, cioè del potere politico dittatoriale che spezzerà gli impedimenti che si oppongono alla abolizione del lavoro salariato, delle barriere tra lavoro manuale e lavoro intellettuale. Il mondo in cui viviamo soffoca tra mille sofferenze, ma non perché siano molti gli uomini che popolano il pianeta, non  perché le famiglie proletarie segnino alti indici di natalità. Se la produzione di alimenti non si equilibra con l'aumento della popolazione mondiale, ciò dipende unicamente dal fatto che  il capitalismo amministra disastrosamente le forze produttive in continuo inarrestabile incremento. Oramai, si sente tutti i giorni lamentare che il mondo non basta a nutrire la popolazione che ospita. ma ciò avviene perché il capitalismo devia verso rami di produzione socialmente inutili e dannosi le energie produttive che dispoticamente controlla, e mentre impone alle masse di consumare articoli superflui, non riesce, non riuscirà ad assicurare una stabilità di vita alla società.

Il piccolo borghese che invidia lo speculatore fortunato o l'imprenditore favorito dalle banche, implora: «Meno figli. Meno bocche da sfamare». Ma il proletario preparato che vuole la distruzione del modo di produrre e di vivere del capitalismo, dice: «Meno aerei, meno cannoni, meno transatlantici. meno automobili.  Basta con lo sperpero delle forze produttive. Basta col parassitismo capitalista. Sopprimiamo il mercantilismo, il commercio, l'affarismo, per i quali il lavoro sociale viene sottomesso agli interessi della accumulazione. Volgiamoci a fabbricare ciò che è utile ai lavoratori, ce ne sarà abbastanza per tutti». Ma i fautori del maltusianesimo da questo orecchio non ci sentono. Loro sono in ansiosa attesa dell'antifecondativo infallibile che dovrà mettere la parola fine alle prepotenze... dello spermatozoo! Non a caso, i peggiori nemici del materialismo economico, cui si rimprovera non si sa quali e quante sordidezze, sono incapaci di collocare i grandi problemi sociali al di sopra del piano del basso ventre...

 

il programma comunista, n. 12, 25 giugno - 8 luglio 1953