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archivio > Archivio sulla sinistra>La fiaba della "civiltà del benessere" (il programma comunista, 27 giugno - 11 luglio 1963)

aggiornato al: 16/10/2009

Il programma comunista, n. 13, 27 giugno - 11 luglio 1963

Di fronte a questo articolo di più di quaranta anni fa, cosa è cambiato nella situazione del proletariato? Dove è il mondo del benessere e dei sogni realizzati che lo sviluppo dell'industria e della tecnica variamente impiegata avrebbero dovuto realizzare? Non più certo dietro l'angolo. Il mondo, questa società, è in piena crisi e mai come oggi diventano di attualità le parole che Rosa Luxemburg, un secolo fa, gettava in faccia ai suoi aguzzini: socialismo o barbarie.

Facile era quaranta anni fa dire che la società del benessere era un mito, una fiaba, difficile riuscire ad immaginare quanto ci si pone oggi davanti agli occhi, ... e siamo solo all'inizio.

L'unica cosa da chiedersi è quando si alzerà, anonimo ma tremendo, il partito comunista degno di questo nome che riuscirà a plasmare questa terra per la specie umana intera ed una sua vita armonica.

 

La fiaba della «civiltà del benessere»

 

Fra le manovre più comuni di cui la classe dominante si serve per offuscare nella mente degli operai la visione del processo storico che fa di loro a un tempo le vittime di un sfruttamento crescente e l'arma della sua eliminazione rivoluzionaria, v'è quella di martellare nelle loro teste l'idea che i progressi realizzati dalla tecnica capitalistica, il suo diffondersi mondiale, l'apparente benessere di talune aristocrazie del lavoro, il generalizzarsi della democrazia, la stessa degenerazione della rivoluzione russa, rappresentino una smentita del marxismo, il quale «non avrebbe previsto tutto ciò» e quindi non potrebbe fornire al proletariato un valido strumento di guida per le lotte avvenire. Non è una manovra nuova, perché ogni riformismo e trasformismo... l'ha sbandierata; ma quello che le conferisce un'apparenza di novità e addirittura di plausibilità è il fatto che sulla stessa linea di sostanziale accettazione dell'ordine costituito, delle sue possibilità di graduale trasformazione, delle sue ideologie di pacifismo sociale e interstatale, si schierino e sempre più si schiereranno dei partiti e delle nazioni sulla cui bandiera è iscritto il nome di socialismo e comunismo.

In questa reclamizzazione della capacità del capitalismo di riformarsi per il «bene di tutti» si sono distinti gli organi di stampa della borghesia più «intelligente» cioè più sensibile ai propri interessi di classe e ai più  raffinati modi di proteggerli dalla eventualità di un assalto rivoluzionario; per esempio, la torinese «Stampa», notoriamente legata alla grande industria automobilistica, con la serie di articoli (da noi già più volte commentati)  sui paesi cosiddetti socialisti e sulla situazione della classe operaia e dei suoi partiti in essi. L'idea-base e le conclusioni di queste corrispondenze erano unanimi: il mondo batte vie nuove, ha trovato nuovi modi e sistemi di convivenza sociale, e il mondo socialista buttando a mare ogni «dogmatismo» e «talmudismo», va a poco a poco schierandosi sullo stesso fronte della «affluent society», la società del benessere made in USA, che è poi il fronte dell'antico riformismo contrabbandato come merce nuova di zecca, come trovata «neocapitalista».

 

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E' vero che, parallelamente a questa «constatazione», - giusta non già perché ci troviamo di fronte a «fatti nuovi», ma nel senso che l'Est finto-socialista getta ogni giorno più la maschera e si autoconfessa capitalista, - i gazzettieri borghesi si divertono a sottolineare l'abisso che divide le condizioni della classe operaia laggiù e quelle del «felice» Occidente: ma lo fanno solo per dimostrare, una volta di più, che anche l'ultimo legame col passato marxista e rivoluzionario dev'essere buttato a mare, per mettersi in linea e sullo stesso traguardo coi paesi più «evoluti», dove nulla di tutto questo esiste più, dove  il capitalismo si è pienamente riformato, dove le divisioni di classe tendono a ... scomparire, dove la stessa concentrazione del capitale è un fatto di altri tempi, e la proprietà, come si dice, si è «disseminata» o «democratizzata».

 

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Il guaio è che gli stessi organi di stampa, quando passano a disegnare il quadro del prospero e felice Occidente, non hanno proprio nulla di meglio da fornire e, caso mai, recano senza volerlo acqua alla dimostrazione che il marxismo aveva diagnosticato alla perfezione lo sviluppo della società basata sulle merci, sulla moneta e sul profitto. Leggiamo per esempio le corrispondenze di Michele Tito (del resto molto superficiali) sulla situazione della classe operaia, dei ceti medi e della grossa e grossissima borghesia, in Francia,  cioè in uno dei paradisi del «neocapitalismo» contemporaneo.  Ci limitiamo, si badi bene,  a trascrivere alcune frasi (gli articoli al completo si possono leggere su  «La Stampa» del 19 e 25 maggio e del 1° giugno):

«I sindacati lanciano grida di allarme per il fenomeno della depauperazione progressiva del ceto operaio». (Possiamo ben immaginare come debba essere avanzato questo fenomeno, se gli ultra-opportunisti sindacati francesi, gli stessi che hanno pompieristicamente diretto e sabotato lo sciopero dei minatori, se ne allarmano. D'altra parte, come si conciliano queste affermazioni con la proclamazione corrente che la teoria di Marx sull'immiserimento crescente allo stato dei fatti s'era dimostrata falsa?. Ma proseguiamo nella lettura e troveremo altre conferme: «Nove milioni di famiglie , su 14 milioni, non sono tassate perché il loro reddito non raggiunge il minimo tassabile. Tre famiglie su 4, nonostante che, soprattutto nel ceto operaio, lavorino il marito e la moglie, non interessano il fisco... Ad eccezione della categoria dei tipografi nessun operaio supera i 100.000 vecchi franchi mensili... Nelle città,  due milioni di appartamenti non hanno l'acqua, come metà delle case abitate a Parigi da famiglie operaie... Un terzo delle famiglie operaie, nel 15° arrondissement della capitale, abita in soffitte... senza acqua, senza riscaldamento, nel venti per cento dei casi perfino senza luce... I figli degli operai lavorano tutti, a sedici anni; solo tre studenti universitari su cento sono figli di operai, e solo un figlio di operaio su 900 non vivrà la stessa vita del padre».

Ecco alcuni (e non certo i più stridenti) risultati del «benessere diffuso»: una vita tirata al limite della sopravvivenza, dal cui cerchio è quasi impossibile sfuggire (ammesso che sia un modo di «sfuggirvi» quello di diventare piccoli borghesi!). E poco importa che l'articolista si affanni a descrivere - per dimostrare la sua tesi benesseristica - la febbre delle vacanze, degli elettrodomestici, delle automobili da cui lo stesso proletariato è preso, e che lo spinge a faticare ancora di più e a mangiare e a dormire di meno sacrificandosi sull'altare della «produzione crescente» e correndo dietro il miraggio di una prosperità fittizia. Anche qui ci soccorre, guarda un po', il vecchio e superato Marx quando, nei bisogni che agitano una classe sociale, distingue quelli materiali insopprimibili ( cibo, vestiario, casa ) e quelli sociali, storici, cioè legati e in un certo senso imposti dalle condizioni generali di vita della società in cui questa stessa classe si trova. Oggi, in un periodo di incontrastato dominio borghese, dei suddetti «bisogni» si è fatto un feticcio, li si è trasformati in bisogni non soltanto «sociali» ma addirittura «umani», che bisogna soddisfare pena la ricaduta in una condizione preumana e belluina: lungi dal costituire per l'operaio un elemento di «benessere», nella società d'oggi essi sono il sinonimo di una reale miseria diffusa, di una crescente «pena di lavoro», che logora il corpo e svuota il tanto idoleggiato «spirito». E' questa la base della  «civiltà dei consumi», della sua pubblicità martellante, della sua esaltazione delle macchine, della tecnica, della «scienza»: come una volta si sfruttavano territori e popoli colonizzati  pretendendo tuttavia di iniziarli alle gioie e meraviglie del  progresso,  così oggi si sfrutta due volte (prima nelle galere aziendali, poi nella galera del mercato) una classe alla quale prima si estorce pluslavoro, e poi si impone di consumare plusprodotto. Come meravigliarsi, poi, che: «i servizi sociali della Renault hanno accertato che, verso il 15 del mese, non viene più chiesta carne alla mensa e il consumo della frutta è ridotto di due terzi»? Per soddisfare i cosiddetti «bisogni sociali», anzi «umani», cioè per aiutare la macchina produttiva a girare sempre a pieno ritmo, l'operaio deve rinunciare ad almeno una parte dei volgarissimi e dileggiati «bisogni materiali»: andrà in lambretta o in seicento, ma non consumerà frutta né carne, si indebiterà e, in fabbrica, farà lo straordinario in barba alla conquista delle 8 ore. Il benessere, o meglio l'illusione del benessere, agli operai costa caro: costa sangue e carne.

Vanno meglio  le cose per quel che riguarda la proletarizzazione dei ceti medi? Dice l'articolista: «Oltre la metà degli impiegati, pubblici e privati, guadagna meno di 80.000 vecchi franchi mensili. Circa due milioni di loro non toccano i 60.000 franchi, e ve n'è un milione che non supera i 45.000... In complesso la vita di un impiegato, in Francia, è forse più difficile di quella di un operaio». Già, più difficile, perché il piccolo borghese,  scaduto al livello proletario, deve purtroppo difendere un altro feticcio sociale, il decoro del suo misero, consunto colletto bianco.

E' almeno vero che le distanze fra le classi si sono - come si dice - ridotte? Leggiamo (nel numero del 1° giugno): «In un paese dove si calcola che per risolvere la crisi degli alloggi occorrerebbe costruire due milioni di appartamenti, che conta otto milioni di appartamenti considerati troppo vecchi, che acquista a rate, attraverso una pianificazione nei decenni... il divario dei guadagni tra un salariato agricolo e un dirigente di industria o un alto burocrate o un grande professionista è, a volte, di uno a quattrocento... Il fisco confessa di non poter accertare i loro redditi esatti ed a essi attribuisce più del trenta per cento delle somme perdute dallo stato a titolo di imposte».

Commovente, vero?, l'amor di patria ed il senso di dovere civico di questa banda di ladri manovratrice di miliardi, di popoli e di nazioni. Ma, proseguiamo, «enfants de la Patrie!!!» : «I due terzi delle ville di campagna e il settanta per cento delle macchine più lussuose appartengono a questo gruppo... I nove decimi degli appartamenti considerati a Parigi di gran lusso sono abitati da loro, il loro apporto alle spese per le vacanze è sessanta volte superiore a quello degli operai... In venti anni il potere di acquisto reale del salario operaio è aumentato del venti per cento, quello dei dirigenti industriali dell' ottanta per cento».

 

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Ed ecco allora dimostrato, per bocca di un articolista apologeta della borghesia, quello che il marxismo ha sempre sostenuto: che il potere economico, sociale e politico, si concentra sempre più in una cerchia sempre più ristretta di mani; che l'abisso fra questo nucleo centrale dominante e i salariati (e gli stessi ceti intermedi) non solo non si restringe, ma aumenta; che alle sue dipendenze la grossa borghesia tiene un esercito di funzionari ai quali distribuisce una parte del plusvalore spremuto ai lavoratori e sui quali riversa una parte del suo «prestigio» dorato; che in questa società l'operaio non solo non esce dalle condizioni primitive di immiserimento relativo, ma paga l'illusione di un più alto tenore di vita con una «pena di lavoro», una fatica fisica e nervosa, crescente; che le riforme (tra l'altro, quella suprema beffa che è la «giustizia fiscale») non cambiano nulla nella realtà della situazione degli sfruttati, ma ne infiacchiscono l'istinto di rivolta, e che, infine, le denunce lanciata dal marxismo, vecchie di oltre un secolo, sono sempre più vere.

Il favoleggiato «benessere» è in realtà più che mai benessere di pochi, benessere di una classe, benessere che condanna la stragrande maggioranza del genere umano a faticare per le esigenze del capitale. Noi non possiamo né vogliamo fare sfoggio di cultura, di erudizione, di ricerca di «novità». Noi ci teniamo legati alle vecchie bandiere che non ammaineremo mai, al filo di una tradizione gloriosa, alla teoria e al partito rivoluzionario della classe operaia, e senza eccitazioni e senza tentennamenti sappiamo di avanzare col passo sicuro e cadenzato della rivoluzione comunista. Rese sicure le spalle da una teoria che gli altri cianciano  superata, siamo gli unici a poter guardare all'avvenire.

 

il programma comunista, n. 13, 27 giugno - 11 luglio 1963