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archivio > Archivio sulla sinistra>Questioni storiche dell'Internazionale Comunista, I, (il programma comunista, n. 3, febbraio 1954)

aggiornato al: 30/10/2008

il programma comunista, n. 3, 5-19 febbraio 1954

Nel 1954 apparve nel giornale  Il programma comunista una serie di articoli intitolati  Questioni storiche dell'Internazionale Comunista; questi articoli non sono più stati ripresi e non sono conosciuti. Li riproponiamo ai nostri lettori cominciando con il primo.

 

 Questioni storiche dell'Internazionale Comunista

 

I

 

Sarebbe una goffaggine religiosa dire che la  Rivoluzione d'Ottobre esaurita sul terreno storico, sopravviva nelle menti, trasformata in ideale. Come per le persone fisiche, non esiste un oltretomba degli avvenimenti, siano essi persino dell'ordine di grandiose pietre miliari nella lotta delle classi. Ma non è men vero che, se effettive cardinali posizioni politiche e sociali andarono distrutte nella sconfitta subita in Russia dal proletariato internazionale, la dottrina rivoluzionaria marxista sopravviveva sicuramente, uscendo indenne dal disastro. Abbiamo detto indenne, non abbiamo detto migliorata, completata, perfezionata. Infatti, se la gigantesca esperienza storica della Rivoluzione di Ottobre, inscindibilmente legata alla battaglia dell'Internazionale Comunista, rimane un prezioso apporto alla fondazione delle premesse delle future lotte rivoluzionarie ciò non avviene – come pretendono i revisionisti in cerca di punti «sinistrati» del marxismo da ricostruire – perché ne abbia tratto incremento la dottrina marxista, la quale non era meno compiuta e completa «prima» della Rivoluzione d'Ottobre che «dopo», ma certamente perché l'impresa rivoluzionaria del proletariato russo arrecava un' altra decisiva conferma dell'estrema falsità delle ideologie messe in circolazione dai nemici del marxismo.

La Rivoluzione, da quando è apparso (1847) il Manifesto dei Comunisti, che a sua volta era il «bilancio dell'esperienza» dello scontro tra il tramontante mondo feudale e la dominazione borghese, segue, non precede, l'elaborazione teorico-marxista: quando, per usare un'immagine romantica, la folgore rivoluzionaria scoppia, essa non «illumina» il partito comunista, ma sibbene confonde e disperde le costruzioni dottrinarie dei detrattori, dei nemici-amici del revisionismo molto peggiori che i nemici dichiarati dell'intellettualità borghese.. Se l'atto rivoluzionario venisse a dimostrare falsa anche una sola proposizione marxista, esso avverrebbe anche «contro» il marxismo. Ma l'esperienza storica sta lì a dimostrare che è vero il contrario. La rivoluzione del 1848, da Marx ed Engels vista come doppia-rivoluzione antifeudale e antiborghese, registrò in Francia la vittoria  della borghesia, dappertutto la sconfitta del proletariato, ma sicuramente confermò nel fatto una tesi centrale del marxismo e cioè che l'interclassismo della democrazia borghese è solo menzogna, l'ufficio statale essendo lo strumento della dominazione di una classe sulle altre. Di qui il caposaldo programmatico: lo Stato borghese si distrugge non si  conquista. La Comune di Parigi del 1871 provò il falso della dottrina anarchica: alla distruzione dello Stato borghese non può seguire la produzione senza Stato, ma necessariamente la dittatura del proletariato. Ultima nella serie storica, la Rivoluzione d'Ottobre, dimostrò contro il tradimento degli stalinisti che la rivoluzione proletaria non può trionfare in un solo paese.

Chiunque voglie interpretare esattamente, anche senza avere la pretesa di fondare nuovi criteri storiografici, le vicende della Rivoluzione d'Ottobre e della Russia «al tempo di Lenin» non può [farlo] a meno, crediamo, di prescindere da quanto abbiamo detto fin qui in stretta dipendenza dal metodo seguito dal nostro movimento. Per riassumere, il nostro punto è questo: la battaglia rivoluzionaria dalla pubblicazione del «Manifesto» non aggiunge capitoli «nuovi» cioè inediti, non previsti prima al corpo granitico della dottrina marxista; al contrario distrugge, insieme con le materiali difese statali della borghesia, anche e soprattutto le fortificazioni ideologiche di questa.. Non altrimenti concepiamo l'unità tra teoria e azione, tra programma e movimento politico. Ora ci pare che l'autore del libro «A Mosca al tempo di Lenin» che risponde al nome del vecchio comunista, giovane per il sentimento rivoluzionario, Alfred Rosmer, guardi la realtà da un punto di vista opposto. Ci pare che Rosmer concepisca la teoria rivoluzionaria, che noi consideriamo anticipatrice sicura dei modi e delle forme del futuro processo storico, come uno strumento contingentemente adattantesi ai «salti» della realtà sociale. I lettori si avvedranno agevolmente che codesto giudizio generale sull'opera di Rosmer, era schizzata nella penultima puntata del «Filo del Tempo». E schiatti chi ci accusa  di snocciolare i grani del rosario «altrui». C'è roba «altrui» nel nostro lavoro collettivo di partito?

Ma ritorniamo al libro di Rosmer che, alla stretta dei conti è un bel libro, scritto da un autentico combattente dell'Internazionale Comunista che riesce, col suo stile semplice se non freddo, a parlare a quel fondo passionale che impedisce anche al più eccelso teorico marxista, di cadere al livello sotto zero del «professore» borghese pagato per essere tale.

Le inclinazioni non rigidamente marxiste del Rosmer come appare dal libro suo, sono un'eredità lasciatagli dalla sua formazione intellettuale. Egli stesso ammette che quando si recò a Mosca nel 1920, in qualità di delegato al secondo Congresso dell'Internazionale Comunista, del cui Comitato Esecutivo doveva divenire membro dal giugno 1920 al giugno 1921, conosceva il marxismo più delle miserabili contraffazioni messe in giro dai capi opportunisti della Seconda Internazionale che delle opere di Lenin (pag.50). Quando egli avrà tra le mani «Stato e Rivoluzione» e più tardi a Mosca «L'estremismo» solo allora comincerà a guarire dalle convinzioni sindacaliste. Egli apparteneva alle schiere di rivoluzionari che nel 1919-20 aderirono alla Terza Internazionale e al bolscevismo, non a seguito di una convergente esperienza teorica e organizzativa, come accadde per la Frazione Comunista Astensionista rappresentata dal giornale «Il Soviet» sul quale gli scritti di Bordiga svolsero un lavoro parallelo a quello condotto da Lenin in Russia, e come fu il caso del movimento rivoluzionario in Germania culminato nella rivolta della «Lega di Spartaco» di Carlo Liebknecht e Rosa Luxemburg. Rosmer come molti sindacalisti ed anarchici si schierò risolutamente dalla parte del comunismo sovietico perché questi nel dopoguerra apparve alle masse invase dalla febbre rivoluzionaria il formidabile nemico del socialpatriottismo da cui giustamente si sentivano tradite e sacrificate al macello della guerra imperialista. Tanto più spontanea e profonda doveva essere la loro dedizione alla terza Internazionale in quanto il bolscevismo e la rivoluzione d'Ottobre avevano radicalmente mutato le loro convinzioni sul marxismo che erano abituati a identificare con le false ideologie degli odiati capi socialdemocratici., corrosi fino al  midollo dalla sifilide parlamentare. Il marxismo doveva apparire finalmente nella sua vera essenza di conseguente teorizzazione e pratica attuazione dell'uso della violenza.

Molti rivoluzionari di origine sindacalista, come Rosmer e anarchici accettarono fervidamente di combattere per l'Internazionale Comunista, perché trovarono in essa il valido strumento di rottura delle incrostazioni opportunistiche del movimento operaio. Ma la sfida rivoluzionaria lanciata alla borghesia mondiale, non senza sorpresa, la trovarono scritta, non nella lingua di Bakunin o di Sorel, come avevano creduto fino allora, ma in quella di Marx. Che fossero degli autentici rivoluzionari desiderosi di lottare per abbattere il capitalismo, lo dimostra il fatto che, senza riserve mentali settarie, abbracciarono e difesero nelle loro,possibilità, il movimento dell'Internazionale Comunista. E sia detto ad onore dei pochi che, come il vecchio Rosmer mantengono fede alla «consegna» ricevuta nel 1920, e della più lunga schiera degli scomparsi.

Il risultato della mancata preparazione teorica e critica alla loro entrata nel campo del comunismo appare da un episodio originale narrato dallo stesso Rosmer nel suo libro  e cioè del suo incontro a Milano con Amadeo Bordiga. Conviene usare le stesse parole, tenuto conto della traduzione, di Rosmer: «In quei giorni (giugno 1920) – egli scrive – era riunito a Milano il consiglio nazionale del partito socialista. Chiesi di Bordiga che supponevo fosse abbastanza vicino alle nostre idee: egli era il capo della tendenza astensionista e difendeva brillantemente la sua posizione politica, nel giornale della sua frazione Il Soviet. Ma, contrariamente a quanti mi aspettavo, egli tenne subito a distanziarsi nettamente da noi: con quella straordinaria volubilità (traduttore, non volevi dire prontezza di eloquio?) che ne faceva la disperazione degli stenografi nei congressi, mi spiegò che non era affatto d'accordo con noi: egli considerava il sindacalismo rivoluzionario una teoria erronea, antimarxista e conseguentemente pericolosa. Rimasi sorpreso da quello sfogo inatteso». (pag. 14).

E' strano che Rosmer, che pure parla con ammirazione del Soviet, abbia potuto recarsi all'incontro con Bordiga nutrendo la convinzione di trovare un uomo «abbastanza vicino alle idee» del sindacalismo rivoluzionario. Evidentemente non si trattava, per Bordiga, di uno sfogo estemporaneo, ma solo della incapacità di Rosmer di comprendere (non certo per ragioni diverse dal differente orientamento della sua preparazione teorica) che nessuna posizione sindacalista era compatibile col marxismo tranne la comune rivendicazione dell'uso della violenza rivoluzionaria propugnata contro il riformismo.

 

Sindacalismo rivoluzionario e marxismo

L'equivoco di Rosmer non fu caso isolato nell'immediato dopoguerra. Allora si era abituati, nel movimento operaio ed anche nella politica borghese, ad associare alle formazioni anarchiche e sindacaliste rivoluzionarie ogni idea di opposizione all'opportunismo dei capi della Seconda Internazionale. Infatti, quando pervennero in Europa, filtrando attraverso le maglie della censura militare e deformate dalle abominevoli falsità del giornalismo borghese, le prime notizie sulla Rivoluzione d'Ottobre, molti confusero il bolscevismo con l'anarchismo. Tanto il marxismo era divenuto,  per colpa dei socialdemocratici accademicamente fedeli a Marx, sinonimo di opportunismo e di tradimento! In condizioni storiche, diametralmente opposte, non accade a noi, grazie allo stalinismo che pretende di essere un movimento marxista, di venire confusi con gli anarchici (con grande sdegno di costoro)?...

Le posizioni del sindacalismo rivoluzionario, che Rosmer ingenuamente si aspettava di sentire lodare da Bordiga, racchiudevano un nucleo innegabilmente anti marxista, che la Frazione astensionista aveva combattuto fin dal suo originarsi nel seno del vecchio PSI.

La caratteristica fondamentale del movimento che ebbe il massimo esponente nel Sorel, era la negazione dell'azione politica e del partito. Più che in una concezione generale della realtà sociale e dello sviluppo storico del capitalismo, la posizione antipolitica scaturiva da un'acre polemica contro la democrazia borghese e le conseguenze corruttrici che essa esercita sulle formazioni politiche operaie. Ma la critica, pur giustificata e acuta, della democrazia, poiché andava disgiunta dalla esatta dottrina della lotta di classe che è possibile solo se fondata sulle dottrine economiche formulate da Marx, impediva ai sindacalisti di formarsi una giusta nozione dello Stato politico, della lotta politica, del partito. Di conseguenza, la leva del sovvertimento rivoluzionario dello Stato borghese era vista nel sindacato, cui si profetizzava l'assunzione del controllo e della direzione delle lotte insurrezionali. Ma l'insanabile conflitto con il marxismo non si arrestava alle questioni relative alla fase al di qua della conquista del potere. Il rifiuto di riconoscere il ruolo e le funzioni del partito politico comportava necessariamente la confluenza del sindacalismo rivoluzionario nell'anarchismo in quanto che  la conquista violenta del potere veniva identificata con la abolizione dello Stato. All'abbattimento del potere statale borghese succedeva la organizzazione dei produttori autonomi diretti dai sindacati divenuti gestori della produzione.

Chiaro che la posizione originale del marxismo doveva essere rivendicata necessariamente anche nei riguardi dei «nemici del nemico socialdemocratico». Non bastava contrapporre allo sciatto riformismo parlamentare dei socialisti alla Jaures o alla Guesde, alla Scheideman o alla Kautskj, la rivendicazione dell'uso della violenza rivoluzionaria. Il compito di operare la rigida totale discriminazione del programma marxista fu svolta in Italia, fin dal 1918, dal movimento del «Soviet», la prima gloriosa bandiera del comunismo innalzata nella Europa Occidentale al di qua del «cordone sanitario» di Clemanceau.

Le Tesi della Frazione Astensionista del P.S.I. furono pubblicate dal «Soviet» in due puntate. La prima comparsa nel numero del 6 giugno 1920 conteneva la parte teorica; la seconda, comparsa nel numero del 27 giugno 1920, la critica delle scuole anti-marxiste. Sceglieremo questo testo perché in esso sono condensate, in forma di tesi necessariamente scheletriche, le elaborazioni teoriche e critiche diffuse in circa due anni dal «Soviet». Un semplice confronto di date ci avverte che le posizioni della  Sinistra Italiana sono sistemate in stesura organica prima del 2° Congresso dell'Internazionale Comunista (21 luglio - 6 agosto 1920) che doveva fissare i famosi «21 punti», cioè la condizioni di ammissione richieste ai partiti che domandavano di aderire alla Internazionale. Prova non certamente unica della concomitanza di sviluppo del lavoro e dell'azione internazionale in Italia e in Russia. Quando sentiamo dire, secondo le cagliostrate  togliattiane, che il partito Comunista sarebbe stato guadagnato al... marxismo solo dopo la burocratica assunzione dell'ordinovismo alla Direzione! Ma di ciò alla prossima puntata, alla quale diamo appuntamento alle ombre degli scomparsi e ai viventi, autori di dumasiane storie sul P.C. d'Italia.

Riprodurre anche larghi estratti delle «Tesi» è impossibile senza contare che un lavoro del genere andrebbe oltre lo scopo di delimitare le posizioni marxiste da quelle sindacaliste, al che il passo citato di Rosmer ci dà lo spunto. Benché non sia espressamente nominato l'avversario, il punto 10 della Parte II reca la critica e la condanna del sindacalismo rivoluzionario. Eccolo:

«Le organizzazioni economiche professionali non possono essere considerate dai comunisti né come organi sufficienti alla lotta per la rivoluzione proletaria né come organi fondamentali dell'economia comunista.

L'organizzazione in sindacati professionali vale a centralizzare la concorrenza tra gli operai dello stesso mestiere e impedisce la caduta dei salari ad un livello bassissimo, ma come non può giungere alla eliminazione del profitto capitalistico, così non può nemmeno realizzare l'unione dei lavoratori di tutte le professioni contro il privilegio del potere borghese. D'altra parte il semplice passaggio della proprietà delle aziende dal padrone privato al sindacato operaio non realizzerebbe i postulati economici del comunismo secondo il quale la proprietà deve essere trasferita a tutta la collettività proletaria essendo questa l'unica via per eliminare i caratteri dell'economia privata nell'appropriazione e ripartizione dei prodotti..

I comunisti considerano il Sindacato come il campo di una prima indispensabile esperienza proletaria che permette ai lavoratori di procedere oltre verso il concetto e la pratica della lotta politica il cui organo è il partito di classe».

Qualche criticonzolo potrebbe fare la «pensata» di buttarsi sulla locuzione «economia privata» usata nel testo per impostare il solito gioco: ieri sostenevate il contrario di oggi. Tempo perso! Il punto 12 è là ad avvertire che «il passaggio di intraprese private allo Stato e alle amministrazioni locali, non corrisponde minimamente al concetto comunista». Ciò fatto ritorniamo al bravo Rosmer, cui riconosciamo almeno il merito di non posare a creatore di «nuove» teorie.

La tesi citata respinge punto per punto tutte le principali posizioni del sindacalismo rivoluzionario: azione economica,  sindacato come organo rivoluzionario, abolizione dello stato come atto insurrezionale, gestione della produzione da parte dei sindacati. Le opposte posizioni comuniste ne risultano per contrasto: supremazia dell'azione politica, partito di classe spoglio di influenze operaistiche, conquista del potere e dittatura del proletariato, organizzazione centrale della produzione e della distribuzione, deperimento dello Stato. Chiaro che l'unico punto comune ma non certamente tale da cancellare la sostanziale inconciliabilità dei programmi, era la rivendicazione dell'uso della violenza, propugnata contro il riformismo.

Non solo ragioni di spazio, ma anche il disegno del presente studio ci impongono di evitare la riproduzione di altri punti, quali l'11° sui Consigli di fabbrica, il 12° sull'aziendalismo, il 15° sulla dittatura e infine il 17° sull'anarchismo. Li riscriveremo nelle prossime puntate, venendo a parlare del contrasto sorto tra la Sinistra Italiana da una parte e l'Ordinovismo e il Comintern dall'altra. In quell'occasione il libro di Rosmer ci offrirà interessanti particolari. Prima di chiudere vogliamo però riportare la tesi n. 6 della prima parte (teoria) del testo:

«Questa lotta rivoluzionaria è il conflitto di tutta la classe proletaria contro tutta la classe borghese. Il suo strumento è il partito politico di classe, il Partito Comunista che realizza la cosciente organizzazione di quell'avanguardia del proletariato che ha compreso la necessità di unificare la propria azione, nello spazio al di sopra degli interessi dei singoli gruppi, categorie o nazionalità; nel tempo, subordinando al risultato finale della lotta i vantaggi e le conquiste parziali che non colpiscono l'essenza della struttura borghese. E' dunque soltanto l'organizzazione del partito politico che realizza la costituzione del proletariato in classe lottante per la sua emancipazione».

Rosmer è servito. Ci darebbe atto, ne siamo sicuri, se ci leggesse, che lo abbiamo fatto con la stessa mancanza di acidità che si nota nella critica delle posizioni politiche che egli non condivide.

La Sinistra Italiana, ieri organizzata nella Frazione Astensionista e nel Partito comunista d'Italia, oggi continuantesi nel nostro partito,  può affermare di avere nei trentacinque anni trascorsi, tenuto fede al principio di «subordinare al risultato finale della lotta i vantaggi e le conquiste parziali» che facilmente si possono ottenere barattando con arrivistiche dottrinelle pseudo-marxiste che sembrano promettere notorietà e successo, il duro programma marxista che chiede ai suoi sostenitori solo l'ostinata determinazione di non mollare uno solo dei capisaldi. La Sinistra Italiana non è stata guida di imprese rivoluzionarie per necessità del corso storico, ma contrariamente a quanto accaduto alle formazioni politiche travolte nel crollo della terza Internazionale, cui non scampava lo stesso partito bolscevico, ha saputo trasformare una terribile sconfitta del proletariato internazionale in premessa sicura e ancora più terribile sconfitta della borghesia. E l'ha fatto perché, sull'esempio di Marx e di Lenin, ha tratto dalla sconfitta di una rivoluzione proletaria la conferma della inattaccabilità della teoria marxista e l'ennesima prova del marcio della cultura dominante.

 

Il programma comunista, n. 3, 5-19 febbraio 1954