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archivio > Archivio sulla sinistra>Siamo per l' apocalisse, (il programma comunista, n. 2, 21 gennaio - 4 febbraio 1955)

aggiornato al: 18/10/2008

il programma comunista, n. 2, 21 gennaio - 4 febbraio 1955

Offriamo questa volta ai nostri lettori un bell'articolo, con un titolo altrettanto bello, del 1955.

Non amiamo commentare troppo, come sa chi ci legge, quanto riproponiamo. Questa volta precisiamo solo che il Cannarozzo di cui si parla è Michele Cannarozzo, un  povero cristo, che nel gennaio del 1955 compì un atto di protesta con bombe e colpi di pistola in un cinema di Ancona, con due morti e 36 feriti, per il mancato assegnamento di una casa.

Dal 1955 ad oggi quanti episodi di questo tipo abbiamo vissuto?

 

Siamo per l'Apocalisse

 

La Conferenza nazionale del P.C.I. si è chiusa come era cominciata, deludendo quanti sulla stampa nazionale avevano tratto oroscopi sulla continuità della linea politica e sulla stabilità organizzativa del partitone. Ma ci sono state davvero persone tanto ingenue e addirittura idiote (parlandosi di giornalisti anticomunisti) le quali hanno atteso che, come le bombe di Cannarozzo, scoppiasse nel seno della Conferenza-parata lo scisma del «duri»?. Alla storia dei «duri», che costituirebbero una corrente estremista di sinistra, noi non abbiamo mai creduto, né ci sogniamo che una qualche ondata frontista  possa sollevarsi durante la seduta di un convegno indetto dalla segreteria del Partito, i convenuti al quale, come era il caso della IV Conferenza Nazionale, debbono passare preventivamente attraverso il vaglio selezionatore delle commissioni federali.

Ma un'altra cosa ci interessa della storia senza avvenimenti della corrente dei «duri» del P.C.I. Ci interessa, cioè, sapere che la stampa borghese fa un gran parlare della «crisi» dello stalinismo italiano, non perché la desideri, ad onta di quanto affermano i rodomonti dell'Unità, ma al contrario, perché la teme follemente. La verità, anche se non apertamente ammessa, è che il capitalismo italiano, e la stampa che da esso è finanziata, preferisce un P.C.I. forte e unito, che vende due milioni e passa di tessere all'anno, ad un ipotetico P.C.I. debilitato politicamente  da una scissione che desse luogo ad un movimento di «duri». Perché? Il perché non ci è stato mai sconosciuto. E se oggi il «Tempo», cioè il massimo calibro romano del campo anticomunista, sciorina pubblicamente il segreto calcolo sulla funzione riformista del P.C.I. che noi attribuiamo da tempo alla classe dominante e al governo di Roma, non ci rimane che congratularci con noi stessi.

L'articolo che «Il Tempo» ha fatto scrivere ad Alberto Giovannini a commento conclusivo dei lavori (chiamiamoli così) della Conferenza Nazionale del P.C.I., pare dedicato proprio a coloro che troppo imprudentemente «fanno il tifo» , nel campo borghese, per la ipotetica immateriale corrente di opposizione interna che dovrebbe spaccare il P.C.I.  Finché ci fossero validi motivi per ritenere che la sospirata «fissione» del nucleo dirigente di via Botteghe Oscure sortirebbe soltanto l'effetto di evitare una seconda edizione del 7 giugno, il «Tempo», e per esso, la borghesia che vi si rispecchia sarebbe per la enunciazione di una corrente estremistica nel P.C.I. Se la lacerazione del tessuto connettivo del partitone, e la conseguente deteriorizzazione della macchina fabbrica voti del fronte social-stalinista, non avesse altro effetto, e la ipotizzata ala scissionista del P.C.I., dopo aver giovato al gioco elettorale del governo e dei partiti democratici-atlantici, potesse facilmente essere smontata, oh allora, quale borghese degno di questo nome, quale partigiano dell'americanismo non sarebbe per la causa dei «duri»?! Ma la realtà sociale italiana, che è quella che è, non permette simili voli di fantasia, e quelli del «Tempo» lo sanno bene. Se il miracolo, perché di miracolo è lecito parlare, si compisse, e il gerarca X della Direzione del PCI si schierasse contro gli ex-compari, capeggiando, per ipotesi astratta, un movimento scissionista improntato a posizioni classiste e rivoluzionarie, ebbene quali forze verrebbero a giovarsi del terremoto politico?

A questo interrogativo il «Tempo» non esita a rispondere. Nell'articolo citato di A. Giovannini che si intitola appropriatamente «Riformismo e apocalisse», l'autore, evidentemente atterrito dalle prospettive legate ad un ipotetico scardinamento del PCI per sommovimenti interni, mette decisamente da parte gli eufemismi e le allusioni per ammonire la borghesia a non farsi illusioni circa gli effetti che un eventuale sopravvento dei «duri» produrrebbe sul terreno sociale e politico. Continuando il solito gioco di identificare il togliattismo con il bolscevismo, egli esclama: «Il bolscevismo italiano (con tutti i suoi scompensi) è ancora l'ultimo rifugio per gli estremisti». Dimostrando di aver inteso a perfezione la parte che nella lotta di classe in Italia gioca il P.C.I., il «Tempo» pensa con terrore a quel che potrebbe accadere, qualora gli «estremisti» fossero cacciati fuori del P.C.I. a seguito di una lotta di corrente. Dio ne scampi! Il «Tempo» e, nominando questi intendiamo alludere al Governo, alla Confindustria, al Vaticano che il «Tempo» si onora di servire, è fermamente convinto della convenienza, anzi della vitale esigenza, per la conservazione borghese, che gli «estremisti» trovino nel P.C.I. «l'ultimo rifugio». Alberto Giovannini scrive ogni domenica per il «Tempo» caustiche composizioni polemiche in forma epistolare, nelle quali il Cremlino è dipinto solitamente come il centro dell' Inferno e lo stalinismo (e quindi il PCI) come una calamità seconda sola allo spappolamento termonucleare del pianeta. Ma ecco che ad un tratto scopre qualcosa di ancora più demoniaco, qualcosa che vede in agguato al di là dell'ultimo rifugio degli «estremisti italiani», come egli definisce il P.C.I.!

«Al di là di esso – grida Giovannini – si trovano soltanto le utopie "bordighiane" e l'anarchia; posizioni cioè puramente individuali e dialettiche». In questo grido è racchiuso tutto il significato del titolo dell'articolo: «Riformismo e apocalisse». E' chiaro che la particella congiuntiva che unisce, nel titolo, i due termini, viene a trasformarsi, nel testo anche se non detto espressamente, in particella disgiuntiva, e l'affermazione si trasforma in dilemma, in questo: «Riformismo oppure Apocalisse» Detto altrimenti: «Riformismo socialstalinista oppure apocalisse rivoluzionaria?». Eccola, dunque,  la potenza infernale che spaventa la borghesia e il governo, il «Tempo» e A. Giovannini, molto più che l'avanzata elettorale del  social-comunismo e i bombardamenti atomici dell'arma aerea russa; l'attacco rivoluzionario del proletariato italiano al governo di Roma, diretto non già ad appendere per i piedi il Mussolini di turno, ma ad estirpare dai posti di comando tutta la classe borghese! Tutti i Giovannini cioè tutti i borghesi scaltri di Italia sanno molto bene che in caso di ascesa al potere della democrazia popolare di Togliatti, sarebbe cosa fattibile conservare il posto alla greppia, come sono riusciti a farlo al passaggio dal fascismo a questa miserabile democrazia da capocottari. Ma non si fanno alcuna illusione di riuscire a ripetere il gioco in regime di dittatura proletaria. Perciò, non si peritano di ammettere che se fossero costretti a scegliere tra il riformismo vagamente statalista del P.C.I. e le «utopie bordighiane», essi non esiterebbero ad appoggiare  gli «uomini di Mosca», gli «agenti dello straniero» i «senza - Dio», cioè lo stato maggiore controrivoluzionario che comanda nel P.C.I. Signori del «Tempo», pur ignorando l'arte truffaldina del baro, vi abbiamo letto non da oggi le carte che avete in mano! Voi sapete bene come, in assenza di un partito di S.S. o di camicie nere, sia interesse vitale della dominazione borghese accantonare, in previsione di insurrezioni classiste delle masse proletarie, un partito di burocrati controrivoluzionari. La democrazia parlamentare ha bisogno dei Cavaignac e dei Noske, da scagliare addosso al proletariato sceso sul terreno della rivoluzione. Le carni stritolate degli operai di Berlino-Est insorti nel giugno 1953 contro il governo e finiti sotto i cingoli dei carri armati russi, sono prova sufficiente agli occhi della vile borghesia italiana del carattere di «partito di Noske» che compete al P.C.I. Perciò, il «Tempo», adeguandosi alla politica cagliostresca del governo, ritiene necessario rendere di pubblica ragione la sua scelta: meglio il riformismo parolaio e corrotto, meglio la politica disturbatrice e l'esistenza ingombrante del P.C.I., meglio questo che l'orrore della apocalisse rivoluzionaria! E che altro dovrebbe volere il capitalismo?!

Allora si comprende in quale matrice sociale la stampa borghese teme di vedere formarsi le correnti comuniste «dure». L'apparato del PCI non fa paura, sotto quest'aspetto. al capitalismo italiano. Spogliato di tutti i suoi orpelli demagogici, il famoso apparato del P.C.I. è una associazione di interessi costituiti, una burocrazia inamovibile che viene stipendiata direttamente dalle casse della finanza statale o indirettamente per il lasciar correre del potere esecutivo, se è vero, come è provato, che il PCI ha le mani in pasta in tutte le greppie del succhionismo patrio: dagli stalli di Montecitorio alle cooperative, dalle concessioni alle licenze per il commercio per l'Est. Di siffatti traffichini, di siffatti sbafatori di stipendi statali, la borghesia italiana non ha la benché minima paura: troppo spesso affaristi capitalisti e funzionari piccisti, avventurieri borghesi e firme famose del paracomunismo, si trovano gomito a gomito attorno ad un tavolo di ufficio o ad un letto di casa chiusa! Non dall'apparato del PCI la borghesia teme di vedere generarsi una corrente comunista rivoluzionaria, capace di porre in pericolo di vita il capitalismo.

Le preoccupazioni degli uomini più scaltri della borghesia, per i quali le esperienze della lotta di classe non rimangono senza frutto, convergono su ben altra regione del tormentato panorama sociale italiano. E lasciamolo dire, per tutti costoro, da A. Giovannini che scrive nel summenzionato articolo:

«Fino a che in Italia vi saranno "casi" Cannarozzo; fino a che dei vecchi professori dovranno morire d'inedia  dentro le grotte; fino a che vedremo individui morire perché gli ospedali non li hanno ricoverati, ricordiamoci che coloro i quali perdono la speranza anche nel comunismo (evidentemente Giovannini allude allo pseudo-comunismo del PCI) non possono certo essere riconquistati alla democrazia, ma si trasformano automaticamente in veicoli di anarchismo. Ed in tale caso vedremo il comunismo, che ora cerchiamo di cacciare dalla finestra, rientrare dalla porta».

Ecco, dunque dove la borghesia teme che esploda la «Apocalisse» rivoluzionaria: nella massa degli sfruttati, degli oppressi, delle vittime senza nome che il capitalismo sfruttatore e la feroce mentalità individualistica della borghesia cacciano in un inferno di pene, di privazioni inaudite, di umiliazioni disumane. I casi, clamorosamente echeggiati dalla stampa, che il Giovannini sceglie per i suoi fini, sono reclutati tutti nel campo disperato della piccola borghesia, la quale non sa reagire contro le infamie capitaliste altrimenti che con atti sovversivi individuali, propri della mentalità anarchica. Ma non da questo difettoso fronte della lotta sociale verranno gli assalti sterminatori al capitalismo, e i borghesi alla Giovannini bene lo sanno. C'è, per la morte del capitalismo, altra materia sociale esplosiva, altre dottrine e strategie rivoluzionarie, che non sono portate né al volontarismo anarchico né al cretinismo parlamentare, ma tendono ad impegnare la borghesia sul terreno della guerra civile rivoluzionaria. La intellettualità, accademica e giornalistica, della classe dominante, tratta tradizionalmente da «utopie» i precisi programmi sovvertitori del campo rivoluzionario marxista, ma ogni tanto lascia trasparire, come fatto dal «Tempo» il fisiologico terrore che le incute la prospettiva di un ingrossamento delle file degli «utopisti bordighiani», ed allora si butta in braccio al riformismo, superando il ribrezzo che prova per tutto ciò che è proletario, anche se è proletario, come il social-stalinismo, solo di nome.

I borghesi politicizzati sanno bene che le forze rivoluzionarie rimarranno bloccate, finché le masse saranno immobilizzate dallo stalinismo, comunista a parole,, riformista e borghese nel fatto. Coerentemente nella impossibilità di travasare le masse nelle non meno sudice trappole della socialdemocrazia saragattiana, la classe borghese non può che augurarsi che il carceriere stalinista riesca a tenere sotto chiave il proletariato. Ma la Rivoluzione ha sempre fatto crollare la prigione che immancabilmente la classe dominante ha eretto per seppellirvela.

 

 

Il programma comunista, n.2, 21 gennaio - 4 febbraio 1955