Schio, 14,1,2012
Proponiamo oggi, anche per mantenerci a contatto con la realtà e il tempo un bel volantino distribuito qualche giorno fa dai compagni di Schio (Vicenza) che producono Sul filo rosso del tempo e ai quali ci lega una sincera amicizia.
I proletari non hanno nulla da perdere se non le proprie catene ed hanno un mondo da guadagnare.
La parola crisi è ormai sulla bocca di tutti. Una crisi che, al di là dell’immediato aspetto finanziario, è in realtà una crisi complessiva del sistema capitalista il quale non riesce nemmeno più a nutrire i suoi schiavi e prepara la guerra: l’unica soluzione che ha per distruggere merci ed uomini in eccesso e ricominciare un nuovo infernale ciclo produttivo come dopo le due precedenti guerre mondiali. Esso è un sistema demente e antisociale che deve essere al più presto distrutto, anche perché il pianeta non potrebbe sopportare ancora a lungo le devastazioni che gli vengono inflitte ogni giorno. Nel frattempo i proletari debbono salvaguardare efficacemente le loro già miserabili condizioni di vita in continuo peggioramento.
La crisi accelera sia la tendenza della borghesia ad accentuare le forme di sfruttamento più brutale, sia la tendenza a sottomettere alle esigenze del capitale l’intera vita lavorativa di ciascun individuo, oltrepassando anche i confini del proletariato industriale. Su tutto il pianeta si è costretti a subire la stessa musica infernale diretta da un unico direttore: il Capitale. Quindi, nei paesi di più antica industrializzazione, si aumenta lo sfruttamento dei proletari con i tagli dei salari, l’intensificazione dei ritmi lavorativi e con l’aumento del costo dei beni più essenziali per la vita e la salute. Nelle altre aree del pianeta la forza-lavoro viene sottoposta a condizioni lavorative estreme che ricordano quelle del XIX secolo e, nel caso che il proletariato accenni anche una blanda ribellione, la borghesia mette in campo una feroce repressione che prefigura ciò che avverrà ovunque, in misura ben maggiore, quando il proletariato sarà costretto a muoversi sotto le opprimenti condizioni di vita che si preannunciano. E’ bene che i proletari si preparino a questo per tempo, organizzandosi. Nei paesi definiti sviluppati espressioni come piena occupazione, tenore di vita in continua crescita e cosiddetto stato sociale sono ormai un lontano ricordo. Nulla potrà ripristinare quella situazione che era tipica di un capitalismo ancora in espansione, mentre invece da decenni trascina la sua crisi storica cercando di rallentarla, eliminando tutte le spese per esso improduttive, in pratica tutto ciò che non ha a che fare direttamente con la produzione, attaccandosi anche al borsellino della vecchietta pensionata.
Tutto ciò rende evidente come sia del tutto inutile ed impotente la concezione e la pratica del riformismo e delle sue vecchie strutture sindacali e politiche, ossia quella di cercare un’utopistica convivenza con il capitalismo in cambio della partecipazione al suo sviluppo. Ciò semplicemente non è possibile nemmeno in misura limitata, come poteva essere nel passato.
Aver presentato questa crisi da parte degli ideologi del pensiero dominante, ponendo l’accento fino alla noia, sulla dimensione finanziaria, serve solamente a nascondere i veri motivi che impediscono il “normale” funzionamento del sistema e cioè l’impossibilità di produrre profitti adeguati ai capitali investiti ed il mantenimento del processo di valorizzazione del capitale, unico scopo del sistema. Questi ideologi, da falsi moralizzatori, non esitano ad indirizzare il malcontento popolare contro i politici incapaci, i farabutti speculatori stile Soros, ed i banchieri alla Goldman Sachs, responsabili della “finanza creativa e speculativa che toglie il lavoro e annienta i risparmi”. Essi denunciano, attraverso i media di tutto il mondo, i supposti “speculatori” senza dire però che questi non sono altro che le grandi imprese, le banche e gli istituti finanziari dei loro stessi paesi. Tutti costoro sono in realtà esecutori ben pagati di un sistema di produzione che si chiama capitalismo. Non esiste un capitalismo buono fatto di imprenditori onesti ed uno cattivo fatto di speculatori finanziari, i due settori sono completamente interconnessi e questa è la sola forma che il sistema può avere. Inoltre, in questa fase di capitalismo senile, prevale l’aspetto finanziario su quello produttivo. Il capitale, come un drogato in crisi di astinenza, cerca disperatamente la sua dose quotidiana di auto valorizzazione andandola a cercare nella Borsa dove non si crea valore ma si ripartisce quello che è stato creato al livello della produzione. Esso è come un morto che ancora cammina.
La crisi è di una tale dimensione che, al di là della congiuntura, sta comportando anche una riorganizzazione dello Stato e delle modalità di intervento della classe dominante che si prepara all’inevitabile scontro, su tutta la società.
Appigliarsi all’idea ingannevole ed utopistica che i provvedimenti adottati dagli stati dipendano dall’esclusiva volontà di chi governa, è sonoramente smentita dalla completa omologazione dei programmi governativi di qualunque colore essi siano e, per quanto riguarda l’Italia, dall’aperta compartecipazione di centro, destra e sinistra, uniti nella difesa degli interessi generali del capitale nazionale, nel condividere il sostegno al cosiddetto “governo tecnico” Monti. Non esistono governi buoni e governi cattivi. Esiste solo il governo del capitale.
La disoccupazione è il fenomeno più evidente della crisi. Un grandissimo numero di operai ha già perso il lavoro o è in procinto di perderlo nell’immediato futuro e, una volta cessata la cassa integrazione, si ritroverà senza nessun tipo di riserva se non i propri risparmi e, una volta esauriti anche quelli, non resta loro che miseria e indigenza. L’unica azione che il sindacalismo tricolore, asservito completamente al sistema, mette in campo è la mobilitazione, fabbrica per fabbrica ed in modo isolato, per il salvataggio "dei posti di lavoro", cioè della fabbrica e per il mantenimento della sua continuità produttiva e commerciale. In una situazione che da anni, complice lo stesso sindacato, ha precarizzato molti settori lavorativi, gli operai vedono la fabbrica non come un luogo di schiavitù salariata, ma come ultimo rifugio. Per "salvare la fabbrica" i lavoratori si incatenano agli impianti, salgono sulle ciminiere, le occupano, chiedono il sostegno di tutti comprese le gerarchie ecclesiastiche, cercando di far pressione perché lo Stato, la Regione, il Comune, intervengano per favorire l’impossibile continuazione o la ripresa della produzione con incentivi fiscali, commesse pubbliche e così via.
Ciò fa si che la difesa dei lavoratori attraverso la difesa della fabbrica, non divenga altro che la difesa della fabbrica e basta. Questo costringe i lavoratori a sottomettersi ad un’intensificazione dello sfruttamento, alla riduzione del salario e al licenziamento di una parte di loro. Fino a quando i problemi si ripresenteranno in forma ancora più grave.
Nessuno dei sindacati nazionali che si occupano solamente di salvaguardare l’economia nazionale e che si dichiarano senza vergogna responsabili del buon andamento degli affari capitalistici, chiede che sia assicurata la vita dei lavoratori indipendentemente dalla fine che possa fare la fabbrica. Hanno infatti abbracciato il punto di vista borghese che considera il lavoratore solo come una delle tante merci necessarie nel processo di valorizzazione del capitale. Se il processo produttivo cessa, l’operaio diventa inutile, un disoccupato, passa nell’esercito industriale di riserva. Può cessare di vivere; basta che sopravviva in attesa del prossimo ciclo espansivo del capitale e se nel frattempo muore non è un problema; ce ne saranno altri che prenderanno il suo posto. La verità è che vi è un conflitto reale tra gli interessi della classe operaia e gli interessi dell’economia capitalista. La conservazione e la futura prosperità del capitalismo esigono l’immiserimento, della popolazione, e se i lavoratori preferiscono essere impoveriti per salvare il capitalismo, ebbene allora saranno impoveriti, come la dura scuola della crisi sta dimostrando.
Se la borghesia sopprime interi rami d’industria e non può più assicurarsi lo sfruttamento della forza-lavoro, lasciando nella disoccupazione e nella concorrenza al ribasso i lavoratori, non deve essere il proletariato a continuare a sostenere il proprio sfruttamento attraversoun lavoro, che lo sviluppo del capitale stesso si incarica di eliminare. Il proletariato, al contrario, deve porsi l’alternativa di emancipazione ed affasciamento di tutta la sua classe, garantendo comunque, a chi rimane senza lavoro, il salario integrale. Dunque esso non deve chiedere più “assistenza” ma deve rivendicare il diritto di vivere contro i suoi sfruttatori.
Per questo il movimento dei lavoratori, il futuro sindacato di classe, deve mettere tra i suoi obbiettivi quello generale e intercategoriale del salario ai disoccupati.
Se la borghesia, classe che detiene ogni ricchezza, oggi non può o non ha interesse ad assicurare la continuità delle sue produzioni, deve però assicurare la vita ai lavoratori pagando con i profitti che ha accumulato nei lunghi anni di sviluppo dell’economia. Questo può essere imposto solo con la forza!
Il proletariato ha una sola forza: il numero e deve solo imparare ad usarla.
Allora niente e nessuno potrà più fermarlo, sarà come una valanga che tutto travolge al suo passaggio.
Partito Comunista Internazionale
Sede: via Porta di Sotto n.43, Schio (VI) – aperta il sabato dalle ore 16.00 alle 19.00
14/01/2012 – Fotocopiato in proprio