Il Programma comunista, 12 agosto 2011
Cedendo all'attualità un interessante articolo sulla rivolta a Londra e nelle città inglesi della scorsa settimana.
Dalle metropoli in fiamme d’Inghilterra
Quando, nell’estate del 1977, un black-out generale spense le luci di New York e piombò la metropoli in una lunga notte di disordini, traemmo dall’episodio “tre verità semplici per il proletariato”. Le prime due erano più che evidenti: l’estrema vulnerabilità del modo di produzione capitalistico, anche e proprio nella fase della sua massima centralizzazione imperialistica; la violenza e la rabbia che trasudano da ogni poro della società borghese, frutto peculiare di questo “migliore dei mondi possibili”. Da allora, sono passati trentacinque anni, e altre rivolte si sono ripetute ovunque nel mondo (senza dimenticare che per tutti gli anni ’60 i ghetti statunitensi non hanno cessato di bruciare): a Los Angeles, a Brixton, in Cina, in Argentina, in Messico, fino ad arrivare alle banlieues parigine del 2005, alla rabbia esplosa nelle strade di Atene nel corso del 2010, ai terremoti sociali che hanno colpito quasi tutti i paesi della sponda sud del Mediterraneo nella prima metà di quest’anno (terremoti di cui abbiamo sottolineato il carattere proletario iniziale – veri e propri “assalti ai forni” da parte di senza riserve affamati e disperati – e la loro successiva “cattura” e incanalamento nell’alveo democratico da parte di una piccola borghesia anelante a riforme che non intaccassero però lo status quo). In piccolo, ma non meno significativi, in Italia, il sussulto dei proletari immigrati a Rosarno, agli inizi del 2010, e più di recente a Nardò – reazioni dirette, immediate, allo sfruttamento bestiale cui sono sottoposti – e le sommosse che si verificano di continuo nei campi di concentramento allestiti per smistare i cosiddetti clandestini. Ora, in questo agosto 2011, in cui nuovi potenti scossoni fanno tremare la pericolante impalcatura del modo di produzione capitalistico, la rivolta è esplosa a Londra (messa praticamente in stato d’assedio), diffondendosi presto in altre metropoli inglesi, già da tempo massacrate dalla crisi economica.
In tutti i casi, intere comunità di quartieri proletari, emarginati e abbandonati a se stessi in megalopoli diventate sempre più vetrine di sfarzo e ricchezza e nodi di enormi interessi commerciali e finanziari, si sono riversate in strada, attaccando i simboli più vistosi dell’oppressione capitalistica e della disparità sociale, svuotando negozi e grandi magazzini, incendiando e fracassando. In tutti i casi, giornalisti e osservatori, commentatori e politicanti, inorriditi e sconvolti, si sono domandati “perché mai cose del genere succedono?”, senza potersi (o volersi?) dare l’unica risposta possibile: l’agonia di questo modo di produzione si trascina ormai da decenni con effetti distruttivi e autodistruttivi, macinando vite, immiserendo popolazioni, negando un qualunque futuro a intere generazioni, gonfiando a dismisura l’esercito di disoccupati ormai senza speranza. Lì sta il seme della rivolta.
Londra e l’Inghilterra tutta sono da tempo nel vortice di una crisi economica che non può trovare soluzioni interne al meccanismo economico-sociale che l’ha prodotta. Gli ultimi decenni, indipendentemente dal colore dei governi che si sono succeduti e dall’indirizzo delle loro politiche, hanno visto l’inesorabile polarizzazione sociale tipica del capitalismo giunto alla sua fase estrema: i grattacieli in vetrocemento e gli slums fatiscenti, la città rifatta a nuovo e quella abbandonata al degrado, la sfacciata opulenza e la sordida miseria. Novità? Per carità! Perché non andarsi a leggere (o rileggere con maggiore attenzione) La situazione della classe operaia in Inghilterra, scritto da Engels nel 1844-45 (o anche solo qualche romanzo di Charles Dickens)? Stupore? Solo i ciechi o gli imbecilli non riescono a vedere ciò che si gonfia, giorno dopo giorno, dentro le viscere di questa società in dissoluzione, la carica esplosiva che si accumula sotto il selciato e dietro le facciate.
Giovani e giovanissimi, bianchi e neri, immigrati di recente e britannici da sempre, furibondi e disperati, ghettizzati e strangolati da un’economia sempre più asfittica, perseguitati da una polizia che è braccio armato di uno Stato che non è sopra le parti, ma il baluardo militare della classe al potere, svuotano negozi e magazzini, mettono a ferro e fuoco strade e quartieri. Solo l’ipocrita e ottuso perbenismo non riesce a vedere in ciò l’espressione istintiva, non ragionata e non programmata, della violenza che trasuda da tutti i pori di una società eternamente, quotidianamente, in guerra – guerra sul posto di lavoro (con stragi chiamate pudicamente “morti bianche”), guerra fra bande industriali, commerciali, finanziarie (con la loro inevitabile ricaduta – di morti per fame, per malattia, per logoramento, per pura impossibilità di sopravvivenza), guerra guerreggiata per conquistare materie prime o privarne i concorrenti più temibili, per il controllo di mercati lontani e vicini, per il ridisegno delle zone d’influenza (con il massacro di popolazioni sempre più vaste)... Il mondo capitalistico è un immenso campo di battaglia dove non cessa di scorrere il sangue, dove si rinnova ogni giorno il martirio collettivo. Scandalizzarsi?
Tutto un modo di produzione dimostra nei fatti la propria bancarotta, la propria organica incapacità di risolvere uno solo dei problemi che esso stesso crea, la vacuità delle ricette liberiste o stataliste, di destra o di finta “sinistra”, l’impotenza del riformismo gradualista: i giovani proletari delle soffocanti periferie l’hanno messo sotto processo in maniera istintiva e non ragionata, con la rabbia e la ribellione. Lasciamo ai giornalisti e agli opinionisti della stampa borghese le idiote riflessioni sulle scarpe firmate, sugli iPad e sui televisori al plasma rubati nel corso delle notti di rivolta, lo stomachevole piagnisteo moralistico sul piccolo bottegaio che vede andare in fumo una vita di risparmi, la lettura pseudo-politica e pseudo-sociologica sulle gangs, sui teppisti, sugli hooligans: tutte parole al vento. “Queste non sono rivolte del pane o della fame. Queste sono rivolte di consumatori deprivati ed esclusi dal mercato”, pontifica sul Corriere della Sera del 11/8 uno dei tanti “maestri del pensiero”: bella pensata, tutta interna all’ideologia borghese! Pur di vendere e trarre profitti, il capitale ha fatto di queste merci (per l’appunto, le scarpe firmate, i telefonini, gli iPad) altrettanti “generi di prima necessità”; e ora i suoi tirapiedi filosofi e sociologi si sorprendono (e ci scrivono su i loro bei compitini) che, nel corso di queste rivolte, di questi “generi di prima necessità” si faccia man bassa, insieme al pane e al burro. Le rivolte dei diseredati colpiscono sempre i simboli di un potere e di una ricchezza da cui sono da sempre e per sempre esclusi.
Detto ciò – scrivevamo nel 1977 e nel 2005 e ripetiamo oggi (e sta qui la “terza verità semplice per il proletariato”) – , non basta sentirsi immediatamente e istintivamente dalla parte degli sfruttati che si ribellano. Bisogna avere la lucidità di dire anche altro. Di dire cioè che queste fiammate – importantissime come segnale della febbre che cresce dentro la società capitalistica e dei limiti oltre i quali la “sopportazione” non può andare – si sprigioneranno sempre più sotto la pressione della crisi economica. Ma, abbandonate a se stesse, sono destinate a passare senza lasciar traccia (se non, purtroppo, altre morti proletarie: l’unica soluzione alla crisi sociale che il potere borghese conosca è infatti quella militare e repressiva), a rifluire nella frustrazione o – peggio ancora – a essere incanalate entro i vicoli ciechi di un ribellismo fine a se stesso. I giovani proletari in rivolta non divengono automaticamente “avanguardie di classe” per il semplice fatto di ribellarsi all’oppressione sociale e poliziesca, la prospettiva classista non evolve meccanicamente dalla battaglia di strada, anche quella più furibonda. E’ necessario in tutto questo quadro in drammatica ed esplosiva evoluzione (e questa necessità diviene sempre più evidente nelle sconfitte amplificate dalla sua momentanea debolezza) il partito rivoluzionario: vale a dire, quell’organo e strumento che solo è in grado, dopo aver condotto un profondo lavoro a contatto con la classe proletaria ed essere dunque da essa riconosciuto come guida reale ed affidabile, di recepire le spinte (scomposte, disordinate, irrazionali, di pancia) che vengono dal basso, di raccogliere l’energia rabbiosa che si sprigiona dal profondo di questa marcia società e dirigerla contro la vera cittadella fortificata del potere capitalistico, lo Stato borghese – per impadronirsene e infrangerlo e sulle sue macerie costruire la propria dittatura come ponte di passaggio obbligato verso una società finalmente senza classe e dunque senza Stato. Il partito rivoluzionario, in presenza di lotte che diventeranno sempre più estese, di scontri sempre più acuti ed estremi con tutte le forze che vorrebbero imbrigliare e reprimere la volontà di ribellarsi e lottare, è il solo anello che può saldare le risposte (anche le più istintive) alle condizioni di vita e di lavoro (o non-lavoro) in cui milioni e milioni di proletari sono costretti e trasformarle in lotta politica classista, diretta verso l’insurrezione e la presa del potere.
Ma questo Partito non nasce a tavolino quasi si trattasse del progetto di un lungimirante architetto e nemmeno emerge miracolosamente dalle lotte stesse, per una sorta di genesi spontanea dal basso, per uno spontaneo coagulo di ribellioni diverse, come vorrebbero tanti imbecilli sparsi in giro. E’ il risultato di una lunga lotta condotta in maniera organizzata e in una prospettiva internazionale dai comunisti che, non importa se minoritari e in numeri esigui, hanno saputo mantenersi fedeli, sul piano programmatico e organizzativo, teorico e pratico, a una tradizione, l’unica tradizione che, sull’arco ormai di un secolo, ha saputo conservare la giusta rotta rivoluzionaria – la nostra.
Non esistono altre strade. Solo questa, nella maturità delle condizioni oggettive e soggettive (inclusa – a scorno di ogni volontarismo – la manifesta incapacità della classe dominante a far fronte alla crisi sociale), potrà permettere ai proletari di ogni età, nazionalità, sesso e colore di uscire dai vicoli ciechi e dai ghetti in cui vivono quotidianamente.
Le periferie in fiamme d’Inghilterra, oggi (e, domani, dove?), lanciano l’ennesima esortazione ai comunisti perché dedichino il meglio delle loro forze e della loro passione rivoluzionaria, del loro coraggio e della loro determinazione, a rafforzare, estendere, radicare nel proletariato mondiale il partito comunista internazionale. Solo così sarà possibile trarre oggi gli insegnamenti dalle fiammate delle lotte isolate e incanalarle domani, vittoriosamente, nella battaglia per una nuova società senza classi.
Partito Comunista Internazionale
("Il programma Comunista" 12 Agosto 2011)